Partigiani in Val Curone, alla Benedicta…

Immagine d’epoca di San Sebastiano Curone (AL) – Fonte: art. cit. infra

Risalendo la Val Curone, alle pendici del gruppo del monte Giarolo, tra frutteti, vigneti e scorci di verde intenso, si raggiunge San Sebastiano Curone [in provincia di Alessandria]. Qui sorge il monumento in ricordo di Franco Anselmi “Marco”, comandante della Brigata Garibaldi “Arzani”, memoriale inaugurato del 1983 dal Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Nel ben conservato centro storico, in Piazza Roma, una lapide fregia la facciata della casa dove, alla Liberazione, si svolsero le trattative tra partigiani e tedeschi per la resa della guarnigione di Tortona. Alle porte dell’abitato, i ponti sul torrente Museglia, furono teatro di quella che viene ricordata come la “Battaglia di San Sebastiano”. Il 16 agosto 1944, nel pomeriggio, un gruppo di tedeschi si scontra con i partigiani acquartierati a San Sebastiano di rientro da un’azione in Val Staffora. La pattuglia nazista, tenuta sotto controllo sin dal suo passaggio a Brignano Frascata, viene accolta a colpi di mitra e bombe a mano.
Sul campo cadono quattro soldati germanici. Il 27 ottobre, attacco in forze delle Brigate Nere a San Sebastiano. Il Battaglione “Po” della Brigata “Arzani”, accetta il combattimento, riuscendo a respingere gli assalitori.
Nella notte del 19 febbraio 1945, ancora sangue, quando un gruppo di partigiani della “Arzani”, incaricati di trattare la volontà di resa del distaccamento tedesco, scesero a San Sebastiano, cadendo in quella che si rivelo essere una trappola. Giunti al comando nazista, i guerriglieri furono accolti a fuoco aperto. Si scatenò così una violenta sparatoria, con diversi feriti e due partigiani falciati dalla mitraglia nemica, Giuseppe Regazzi “Fortunato” ed il giovanissimo “Pulce”, appena adolescente. Caddero mentre cercavano di coprire la ritirata dei compagni. Il corpo senza vita di Regazzi venne lasciato sul selciato, guardato a vista, ad ammonimento per la popolazione. Per rappresaglia, i nazisti irruppero nei saloni dell’Albergo Mercato, in cerca di partigiani, prendendo in ostaggio i proprietari, rilasciati dopo alcune ore, con la mediazione del parroco.
La Val Curone costituì zona di intensa lotta partigiana, anche grazie all’instancabile attività di Franco Anselmi “Marco”, comandante della Brigata “Arzani”. Tra l’ottobre ed il novembre del 1943, nella zona montana a cavallo tra Val Curone e Val Borbera ed in particolare a Dernice, si costituì uno dei primi nuclei della Resistenza sulle montagne dell’Alessandrino.
Intorno ad Anselmi, 25 anni, tenente d’aeronautica, che all’Armistizio aveva lasciato l’aeroporto di Cameri, per cercare rifugio nei luoghi dove era solito villeggiare, si raccolsero una decina di uomini, per lo più ex militari, sbandati dopo l’8 settembre.
I monti sopra San Sebastiano divennero presto punto di riferimento per i giovani renitenti del Tortonese. Col tempo il gruppo si organizzò, crebbe di numero e strinse legami con gli attivisti del Cln di Tortona e con gli altri gruppo attivi in Val Borbera, Val Sisola e Oltrepò Pavese.
Tra la fine del 1943 ed i primi mesi del 1944, “Marco” ed i suoi, si ridispongono in Val Sisola e Val Borbera, andando consolidandosi, alla ricerca di una propria identità.
Dopo il tragico rastrellamento nella zona del monte Tobbio e l’eccidio della Benedicta, la banda di “Marco” rimase pressoché l’unica del settore appenninico alessandrino, in grado di dare ancora concreti segni di vita.
Sviluppatasi più lentamente, ma ben organizzata ed armata, aveva ripiegato in alta Val Curone, in occultamento.
Nell’estate del 1944 la formazione prende il nome di Battaglione “Casalini”, poi inquadrato nella Divisione Garibaldi “Cichero”, attivo tra Dernice, Fabbrica Curone, San Sebastiano, Salogni e la zona del monte Ebro, impegnandosi in azioni sino ai limiti della pianura.
Tra il 24 ed il 25 aprile 1945, San Sebastiano visse ore concitate, quando nei saloni dell’allora Albergo Italia, in Piazza Roma, si svolsero le trattative per la resa delle truppe tedesche del presidio Tortonese. Al tavolo del negoziato il vice comandante di Divisione, Giovanni Battista Lazagna “Carlo” ed il comandante di Brigata, Natale Moretti “Ras”.
La discussione si svolse in un clima teso, dettato anche dalla situazione sul campo che vedeva, sin dal pomeriggio del 24 aprile, i nazifascisti ripiegati nelle caserme senza opporre significativa resistenza. All’alba del 25, i partigiani della Divisione “Pinan-Cichero”, del Distaccamento “Arzani” e della Brigata “Po-Argo”, entrarono in Tortona ed attaccarono la guarnigione tedesca, prendendo il controllo della città.
Dopo alcune ore i germanici chiesero di trattare. La resa fu siglata a San Sebastiano, alle 17:20 del 25 aprile, ed in breve, i nazisti consegnarono le armi. La notizia raggiunse rapidamente Tortona e la cittadinanza scese in strada festante, ma al volgere del 26 aprile, tutto sembrò tornare in discussione. La città venne scossa da raffiche di mitraglia provenienti da corso Alessandria. Una munita autocolonna tedesca in ritirata, proveniente dal capoluogo, si presentò alle porte dell’abitato, intenzionata ad attraversarlo per proseguire verso Piacenza. Accolti dal fuoco dei partigiani, acquartierati alla caserma Passalacqua, i nazisti decisero di desistere momentaneamente e ripiegare oltre il ponte sul torrente Scrivia. Esclusa l’opzione militare il Cln cercò, atto di resa alla mano, una nuova mediazione con i tedeschi. Si avviarono ancora una volta convulse trattative che, tra alterne vicende, proseguirono sino a sera, quando senza preavviso e senza colpo ferire, il reparto tedesco abbandonò Tortona, dirigendosi ad Alluvioni Cambiò, per guadare il Po.
La città fu libera e il Comitato di Liberazione Nazionale si insediò a palazzo comunale.
Franco Anselmi “Marco”
Nato a Milano il 21 ottobre 1915 fu partigiano coraggioso, leale, comandate carismatico, instancabile nella lotta, individualista ed irruento e contrario ad un’eccessiva politicizzazione delle bande partigiane.
Nell’agosto 1944, Partecipò con i suoi uomini alla battaglia di Pertuso in Val Borbera. Dopo i durissimi rastrellamenti del dicembre 1944, i dissapori tra Anselmi ed i comandanti della VI Zona Ligure si accentuarono, e fu la rottura. Rimase comunque in zona rastrellata, ed impegnatosi, nel gennaio 1945, a ricostituire la propria formazione e riportarla in montagna per riprendere a combattere.
Informato della morte del padre, Anselmi si recò a Milano per assistere al funerale e qui venne arrestato. Liberato, con uno scambio di prigionieri, tornò in Val Curone ma rifiutò di riprendere il comando dell’“Arzani”, sapendo di non essere gradito al Comando di zona. Si trasferì nel vicino Pavese, quale Comandante di Stato Maggiore della neonata Divisione Garibaldi “Gramsci”. Morì il 25 aprile, armi in pugno, nella liberazione di Casteggio. Per il coraggio dimostrato è stato insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare.
[…] Nel mese di dicembre [1944], la Val Curone subì ripetute ed estese operazioni nazifasciste che costrinsero i “ribelli” a ripiegare e nascondersi in alta valle, dopo aver tentato una strenua difesa.
A Fabbrica Curone, i paesani abbandonarono le proprie case, per timore di violenze. Una ventina di civili ed alcuni partigiani ripararono in un cascinale isolato, ma i tedeschi scoprirono il nascondiglio, guidati da una spia. Tutti furono destinati al plotone d’esecuzione. I partigiani, per salvare la vita di coloro che avevano offerto loro un rifugio, svelarono la loro identità, chiedendo ai tedeschi di risparmiare i paesani, che nonostante il pericolo di pesanti ritorsioni non li avevano traditi. Tre ribelli furono fucilati immediatamente, ma nessuno fu liberato. Il gruppo di prigionieri venne infatti tradotto in Val Trebbia, a Gorreto, dove, il 19 dicembre, altri due partigiani trovarono la morte. Chi non fu giustiziato, venne deportato in Germania.
Puntando sull’alta valle, a Garadassi, ha sede l’attuale palazzo municipale. L’edificio e l’attigua suggestiva chiesetta, furono a lungo ritrovo per i comandanti partigiani delle Brigate “Arzani” ed “Aliotta”.
Poco oltre l’abitato, la strada si biforca, sui due versanti della valle. Proseguendo verso il Monte Giarolo, si arriva alla località turistica di Caldirola, dove è ancora visibile l’“Ospedale dello zingaro”, una vecchia casa di villeggiatura in legno, dove il medico tortonese Bruno Barabino “Lidia”, figlio del famoso pittore, allestì un punto di soccorso e cura per i partigiani feriti, anche trafugando farmaci dall’ospedale di Tortona. Da località La Gioia e dalla Colonia provinciale, partono percorsi escursionistici che consentono di raggiungere le vette del Monte Gropà, del Monte Ebro e del Monte Giarolo, crocevia fondamentali negli spostamenti dei ribelli.
Tra queste cime e quella del vicino Monte Chiappo, correvano le “vie della salvezza”, che nell’inverno del 1944 consentirono a circa 300 uomini della “Arzani” e della “Aliotta” di sfuggire ai rastrellamenti nazifascisti, dirigendo verso il Pavese nella zona del Passo del Giovà.
Dalla colonia provinciale di Caldirola, un facile sentiero porta al Rifugio Cai “Orsi”, nei pressi del quale sorge una lapide in ricordo dei primi gruppi partigiani che si costituirono sulle montagne tra le Valli Curone, Borbera, e Staffora.
In alternativa alla meta di Caldirola, l’itinerario stradale può addentrarsi sull’altro versante della valle, lungo la sp.113, verso la borgata di Bruggi. Alle prime case, superato il ponticello, parte il sentiero del Monte Chiappo, seguendo il quale si arriva al cippo commemorativo del partigiano Luigi Callegari “Tosca”. Assistente del comandante della Brigata “Arzani”, Franco Anselmi, fu ucciso dai nazisti in un’imboscata, il 14 dicembre 1944.
Itinerario 2: Da San Sebastiano, la sp.110 conduce a Dernice, dove un marmo, a fregio del Palazzo Municipale, nel centro del piccolo paesino, ricorda i primi nuclei di volontari per la Libertà che, nel settembre 1943, si raccolsero tra quelle case. Altre due lapidi onorano le figure dei partigiani Gian Carlo Pernigotti, caduto nella guerra di Liberazione e del comandante Franco Anselmi. A Dernice i partigiani disarmarono 30 militi delle SS italiane, che fingendosi guerriglieri tentavano di infiltrarsi. Processati, vennero fucilati come spie. Il valico di Dernice è naturale spartiacque e crocevia tra Val Borbera e Val Grue, così i prati d’intorno furono teatro di numerosi aviolanci Alleati.
Redazione, Guida ai Luoghi della Memoria in provincia di Alessandria. Il Tortonese e le sue valli, ISRAL, La Memoria delle Alpi

Lapide dedicata ai Martiri Partigiani di Fabbrica Curone (AL) – Fonte: art. cit. infra di Patria Indipendente

Il rastrellamento di Fabbrica e le sue vittime
“È il pomeriggio del 15 dicembre 1944 e in tutte le frazioni dell’alta Val Curone stazionano truppe naziste. Alla frazione Castello di Fabbrica alcuni partigiani della Brigata Arzani, per paura di essere scoperti, si nascondono insieme ad alcuni giovani civili del luogo nella cantina di Tommaso Daglio.
Il nascondiglio è luogo ben protetto e difficile da individuare, essendo l’unico accesso costituito da una botola con sopra una madia e con il pavimento ricoperto da uno spesso strato di granoturco. Ma la notizia dell’occultamento viene intercettata da un simpatizzante fascista di Nivione di passaggio, che confida tutto ai tedeschi, i quali iniziano le ricerche interrogando gli abitanti del paese. C’è molta reticenza, nessuno vuole parlare, ma le minacce di rappresaglia alla fine hanno il sopravvento. Il nascondiglio viene individuato e i soldati tedeschi intimano al gruppo di combattenti di uscire con una perentoria richiesta «O si fanno avanti i partigiani o tutti quanti saranno fucilati» [1] .
I partigiani, consapevoli del loro destino, si fanno avanti per salvare i civili. Mario De Antoni e Sergio Paganini (16 anni) vengono fucilati e i loro corpi gettati in un fosso sul retro della Cappelletta posta all’ingresso della frazione. Verso l’alba, la casa nascondiglio sarà data alle fiamme per rappresaglia, secondo la prassi teutonica di seminare terrore tra la popolazione. I corpi degli uccisi rimarranno insepolti fino alla partenza dei tedeschi. Al mattino, i sopravvissuti vengono avviati a piedi verso Bruggi, poi salgono sul Chiappo e raggiungono Gorreto (GE), sfidando i rigori dell’inverno, con neve alta e gelo.
A Gorreto si consuma un’altra pagina tragica di quel triste momento. Durante una sosta vengono passati per le armi Aldo Dellepiane e Igino Sala, il giovane diciassettenne che amava vestirsi da partigiano, con i pantaloni alla zuava a imitazione dell’amico Aldo; quel giorno fatale si era nascosto con i suoi idoli per sentirsi grande. Sepolto a Gorreto, è stato in seguito traslato a Fabbrica, il paese natale. Agostino Sala, uno dei civili catturati, sarà avviato ai Campi di lavoro del Reich” [1]. Il 14 dicembre, nel corso del medesimo rastrellamento, a Bruggi, era stato fucilato dai tedeschi Luigi Callegari, “Tosca”, di Montacuto, un altro partigiano dell’Arzani.
Chi erano i cinque eroi
Luigi Callegari “Tosca” (San Sebastiano Curone, 1923 – Bruggi, 1944)
Nasce il 9 marzo del 1923 a San Sebastiano Curone da Virginio e Celestina Bernini, contadini, residenti a Solarolo di Montacuto. Era l’ultimo di cinque figli, due sorelle, Stefania (1906) e Lisetta (1915), e due fratelli, Abele (1916) e Francesco (1918). Sbandato dopo l’8 settembre 1943, come i tanti giovani che non risposero ai bandi del maresciallo Graziani per l’arruolamento nell’esercito della Rsi, incominciò a collaborare con i partigiani di Montacuto, dove era stato formato un autoreparto con un’officina di supporto ai mezzi delle varie brigate. Luigi era esperto meccanico, avendo appreso la professione presso l’officina Cavanna di Tortona, prima che scoppiasse la guerra. Entrò a far parte della Brigata Arzani, costituitasi nella seconda quindicina del mese di ottobre 1944, che nel successivo mese di dicembre, per sfuggire al grande rastrellamento nazifascista in atto in Val Borbera e Val Curone, eseguì l’ordine di ripiegamento verso i monti. Tosca conosceva bene i posti e forse era sua intenzione raggiungere la famiglia a Solarolo in attesa di nuove disposizioni. Venne intercettato dai nazifascisti a Bruggi nel punto in cui inizia il sentiero che porta verso il Giarolo sul versante del quale era posta la sua abitazione. Proprio su quel sentiero, che nei suoi calcoli era una via di salvezza sicura, venne freddato dai nazisti con un colpo alla nuca. Il suo corpo rimase lì per qualche giorno, poi, quando il pericolo di rappresaglia contro gli abitanti del paese cessò, venne rimosso e provvisoriamente sepolto nel cimitero posto vicino alla chiesa. Passata la minaccia dei rastrellamenti, i famigliari, con una lesa trainata dai buoi, attraverso i boschi si recarono a Bruggi per riportare nel paese d’origine la salma del loro congiunto.
Mario De Antoni, “Carrista” (Volpedo, 1917 – Castello di Fabbrica Curone 1944)
Nato a Volpedo (Alessandria) il 2 febbraio 1917 nella casa posta in via Torraglio 3, da Giuseppe e Santina Gambero, contadini, che risultano già defunti al momento della sua cattura e fucilazione al Castello di Fabbrica. Chiamato alle armi allo scoppio della seconda guerra mondiale, venne destinato al fronte albanese. Dopo l’8 settembre 1943 riuscì a sottrarsi alla cattura e a rientrare in Italia, a Volpedo. Nell’inverno del 1944, raggiunse le formazioni partigiane che presidiavano la Val Curone e fu schierato nella Brigata Arzani della Divisione Pinan Cichero, della VI Zona Operativa Ligure.
Fu fucilato nella notte del 15 dicembre 1944, consegnatosi ai nazifascisti per salvare i civili insieme ai quali si era nascosto per sottrarsi al rastrellamento. È stato sepolto nella cappella-sacrario del cimitero di Volpedo e alla sua memoria, il Comune ha intitolato una via.
Sergio Paganini, “Negro” (Genova Sampierdarena 1928 – Castello di Fabbrica Curone 1944)
Nasce a Genova Sampierdarena il 20 ottobre 1928 da Leandro e Ida Dellepiane, residenti in via Arduino 2/11. Il 1° settembre ’44, a soli sedici anni, già orfano di madre, entra a far parte dei Combattenti per la Libertà della Brigata Arzani. Pochi mesi dopo, il 15 dicembre, trova la morte a Castello di Fabbrica da vero eroe della Resistenza, per salvare la gente del paese dalla rappresaglia minacciata dai tedeschi. Sepolto all’epoca nel cimitero di Casalnoceto, nel 1955, è stato traslato al Sacrario dei Caduti partigiani nel cimitero di Genova-Sampierdarena. Un anonimo su un documento dell’epoca scrisse “Come si fa a uccidere un ragazzo così?”.
Aldo Dellepiane, “Aldo III” (Genova 1924 – Gorreto 1944)
Era nato il 14 gennaio 1924 a Genova da Armando e Livia Camposeranio. Risiedeva con i genitori in vico Croce Bianca 10/10. Conseguita la licenza di quinta elementare, intraprese il lavoro di operaio meccanico. Chiamato all’arruolamento nell’esercito della Repubblica di Salò, scelse di unirsi ai partigiani che operavano sulle montagne. Il 1° giugno 1944 entrò ufficialmente nel Movimento di Liberazione Nazionale nelle formazioni della Sesta Zona Operativa Ligure, associato alla Brigata Arzani della Divisione Pinan Cichero. Il 15 dicembre si trovava a Fabbrica Curone, dove venne catturato dai tedeschi e trasferito a marce forzate, con altri prigionieri, a Gorreto (GE), al confine tra le province di Alessandria e Piacenza e lì fucilato all’alba del 19 dicembre 1944, sotto il ponte del Trebbia.
Igino Sala (Fabbrica Curone 1927 – Gorreto 1944)
Igino Sala nasce a Fabbrica Curone il 6 maggio 1927 da Dionisio, contadino, e Rosa Vallotti, casalinga. In quel fatidico 15 dicembre 1944, si era nascosto, quasi per gioco, con l’amico partigiano “Aldo” e altri giovani ricercati dai nazifascisti, nel cascinale ubicato sotto la torre del castello di Fabbrica. Scoperto e arrestato dai tedeschi, dopo aver assistito alla fucilazione di “Negro”, suo coetaneo, e “Carrista”, fu fatto marciare con altri prigionieri fino a Bruggi e poi, raggiunto il crinale dei monti innevati, ridiscese con gli altri compagni di sventura a Gorreto, in provincia di Genova, dove venne fucilato dai nazisti. Agostino Sala, suo compaesano, anche lui in incolonnato sullo stesso percorso, vide il suo corpo esangue in mezzo alla neve, senza poter fare nulla. Così è riportato nell’atto di morte trascritto all’anagrafe del Comune di Fabbrica Curone: “Alle ore tre del 19 dicembre 1944, innanzi alla casa posta sul fiume Trebbia in territorio di Gorreto veniva trovato cadavere Sala Igino, dell’età di anni 18, di razza ariana” (in realtà, Igino Sala aveva solo 17 anni, n.d.a.). Non era né partigiano, né renitente alla leva, forse, come affermano i testimoni, i tedeschi scambiarono il suo cognome, Sala, con quello di Silla, commissario della Brigata Arzani, ricercato. A Igino Sala, il Comune di Fabbrica ha dedicato la via che conduce a Varzi.
I valori che hanno sorretto la guerra di Liberazione sono i valori della Libertà, della Democrazia e della Fraternità… valori che non mutano col scender della sera e col cambiare delle stagioni…”, dal libro di Adriano Bianchi, figura emblematica della resistenza piemontese, a cura di Vittorio Rapetti, “ Il prezzo della libertà”, Impressioni grafiche editore.
[1] Mauro Bracco, “L’Alta Val Curone, Appunti di Storia”, Guardamagna Editore, Varzi, 1997.
Anpi Viguzzolo, Fabbrica Curone e i suoi cinque martiri, Patria Indipendente, 2 ottobre 2019

La cascina Benedicta in un’immagine d’epoca, prima del 1944. AISRAL – Fonte: Maria Vittoria Giacomini, Op. cit. infra

I Partigiani tornano alla Benedicta, dopo l’eccidio. AISRAL – Fonte: Maria Vittoria Giacomini, Op. cit. infra

I ruderi della Benedicta subito dopo la distruzione (1944). AISRAL – Fonte: Maria Vittoria Giacomini, Op. cit. infra

La cascina Benedicta divenne sede del Comando partigiano della III Brigata Liguria, nella primavera del 1944. Già nell’inverno del 1943-1944, dopo il bando Graziani, affluirono nei dintorni del Monte Tobbio, gruppi di giovani che avrebbero costituito i primi nuclei delle formazioni partigiane. Al momento dell’eccidio, tra il 6 e il 7 aprile 1944, la cascina Benedicta che serviva da ricovero per i partigiani era la più grande e importante della zona, con una serie di edifici, posti a quadrilatero intorno a una corte con la cisterna e con una piccola cappella a lato dell’ingresso <33.
I nazi-fascisti ritenevano che quei gruppi fuori controllo potessero rappresentare una minaccia e decisero di effettuare un rastrellamento, in modo da ricostituire l’ordine ed eliminare la presenza partigiana in una zona strategica per le comunicazioni militari. L’obbiettivo tedesco era da una parte quello di sgominare le bande e dall’altra quello di suscitare terrore negli animi della popolazione civile.
Nell’aprile del 1944 i nazisti e i fascisti attaccarono i partigiani, uccidendo molti giovani (novantasette) nei pressi delle “fosse” e ne avviarono centinaia ai campi di concentramento, incendiando diverse cascine. Alcuni partigiani riuscirono a scampare al massacro, grazie alla conoscenza acquisita sul campo delle vie di fuga che offriva il territorio <34.
La cascina Benedicta fu fatta saltare in aria con cariche di polvere da sparo.
Dopo la distruzione da parte dei nazi-fascisti restarono per più di mezzo secolo alcuni ruderi che le intemperie della montagna e l’abbandono degli uomini ridussero a un cumulo di macerie coperte di sterpaglie.
Maria Vittoria Giacomini, Memorie fragili da conservare: testimonianze dell’Olocausto e della Resistenza in Italia, Tesi di laurea, Politecnico di Torino, 2012

Un gruppo di partigiani nel 1945, dopo la Liberazione, presso i resti della cascina della Benedicta, fatta saltare il 6 aprile 1944 da reparti tedeschi e della Rsi nel corso del rastrellamento che, nella zona del Monte Tobbio sull’Appennino ligure, ha investito la Brigata Autonoma Alessandria e la 3ª Brigata Garibaldi Liguria provocando 97 caduti – Fonte: Istoreto

Nota archivistica Istoreto: “Sul verso, nella parte superiore, [n.d.r.: della precedente fotografia] è riportata una didascalia manoscritta a matita: “Gruppo di amici dei Caduti sui / resti della ‘Benedicta’”. In basso a destra, è presente una segnatura manoscritta con inchiostro nero: “7-3 n. 232 [cancellato] / 661 [aggiunto a matita correzione del precedente]”. La fotografia è stampata su carta fotografica Agfa

Pochi giorni or sono, a cura del Comitato Unitario Antifascista della Provincia di Alessandria e dell’Associazione Memoria della Benedicta, le celebrazioni del sessantesimo anniversario dell’eccidio, ora l’inaugurazione in Ovada, presso la Loggia S. Sebastiano, di una mostra fotografica avente per oggetto il ricordo di quel tragico evento.
L’iniziativa promossa dalla Città di Ovada in collaborazione con l’Accademia Urbense e l’ANPI (Sezione di Ovada) costituisce un vero e proprio documento storico essenzialmente di immagini che ripercorrono i vari momenti legati al luogo dove il Giovedì Santo dell’anno 1944 furono trucidati dai tedeschi e dai repubblichini un numero impressionante di giovani partigiani caduti per la libertà del nostro Paese. Altri furono deportati nei campi di concentramento senza fare mai più ritorno.
La mostra, che verrà inaugurata nel pomeriggio di venerdì 23 aprile presso la loggia S. Sebastiano e proseguirà sino a domenica 9 maggio, è stata curata da Mario Canepa il quale ha selezionato moltissime immagini del Fondo Leo Pola, presso l’Accademia e attinto dagli archivi privati di Carlo Piana, sempre presente con la sua macchina fotografica durante lo svolgimento delle manifestazioni cittadine più significative e di Giovanni Merlo che nel corso degli anni ha collezionato con passione immagini e documenti del periodo della lotta di liberazione.
L’ANPI (Sezione di Ovada) ha messo a disposizione altro materiale inedito e da subito hanno aderito alla iniziativa la Provincia di Alessandria, l’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea di Alessandria e l’Associazione Memoria della Benedicta. Recuperate anche immagini relative altri orrori perpetrati dai nazisti al passo del Turchino, ad Olbicella, a Pincastagna. Il fondo Leo Pola ricco di migliaia di negativi è servito per ricostruire e in parte riproporre gli annuali pellegrinaggi alla Benedicta in occasione dei primi anniversari della strage, percorsi che la gente faceva a piedi per la mancanza di una strada vera e propria; ma anche tante immagini di comitive sui cassoni dei camion, in auto, in bicicletta e gruppi di gitanti con zaino in spalla gonfio di vivande per un pic nic sull’erba.
La mostra composta di 40 pannelli di immagini fotografiche presenta le testimonianze di un pellegrinaggio ininterrotto che ha avuto tra i partecipanti tre Presidenti della Repubblica, numerosi uomini politici e un’infinità di altre persone che volevano testimoniare con quell’atto il loro attaccamento al principio di libertà per il quale era avvenuto il sacrificio.
Il primo presidente fu Giuseppe Saragat che il 13 ottobre 1967 inaugurò la zona monumentale poi, il 13 aprile 1983, il sacrario venne visitato da Alessandro Pertini e lo scorso anno da Carlo Azeglio Ciampi.
Un manifesto diffuso in occasione della inaugurazione del sacrario ripercorreva le fasi più salienti dei fatti lassù accaduti: “Nella settimana di Pasqua del 1944 sulle balze dell’Appennino ligure – alessandrino, che si raccolgono intorno al Monte Tobbio, circa 20.000 nazifascisti scatenarono un furioso attacco contro 600 – 700 giovani, alessandrini e genovesi, che stavano affluendo nei quadri in formazione di due Brigate partigiane: la «Alessandria» e la «Liguria». L’operazione si chiamò: «Rastrellamento della Benedicta». La Benedicta era un grosso cascinale posto ai piedi di Bric Arpescella, dove furono trucidati 75 giovani; altri 173 furono fucilati qua e là per quei monti e 147 deportati nei campi di concentramento. Per 20 anni i pellegrinaggi alla Benedicta hanno avuto come meta alcuni ruderi, una piccola Cappella eretta dalla pietà dei familiari nell’immediato dopoguerra e alcune file di rustiche croci su un dosso erboso battuto dai venti». Poi la costruzione del sacrario e in questi ultimi tempi il recupero di quanto è rimasto della cascina Benedicta ultimo rifugio di quei giovani ritenuti i ribelli della montagna e ricordati anche in una canzone”. […]
Redazione, Cronache del passato. Fotostoria della Benedicta. Una mostra in Ovada dal 23 aprile al 9 maggio, Anteprima Notizie, 4 aprile 2004

Testimonia Carlo Carena che: “Con la primavera del ’44 dalla sede del Comando Piazza tedesco, Alfieri ottenne di rendersi indipendente, per lo meno quanto ad ufficio. Così ci trasferimmo al primo piano della casermetta dove oggi è la Guardia di Finanza in via Gola (oggi Scovenna n.d.a.). Fu quella la prima vera sede del Sicherheits”. Meglio diciamo della Compagnia di Sicurezza, perché Alfieri il 26 marzo 1944 in una relazione di polizia si definisce comandante della “Sicherheitskompanie”.
Il comandante della “Compagnia di Sicurezza”, a seguito di una operazione svolta in valle Ardivestra dove aveva arrestato due ribelli o pseudo tali in quanto lo stesso li classifica più esplicitamente quali “autentici grassatori”, venuto a conoscenza che altri loro compagni si erano rifugiati in val Borbera, a Berga presso altri sovversivi che vi operavano, richiedeva al Comando Germanico l’autorizzazione per una puntata in quel luogo. Nella sua relazione Alfieri precisa che in quel paese alloggiava, nell’unica osteria, uno sconosciuto dall’aspetto malaticcio che arruolava renitenti e sbandati per indirizzarli poi verso bande organizzate. Lo sconosciuto corrisponde a tale Giovanni Leidi, meglio conosciuto in luogo quale “Paiotu”. Il Gimelli che identifica la presenza, tra ottobre e dicembre 1943, di ben quattordici piccole bande posizionate sul territorio ligure-alessandrino, non vi elenca la banda di Paiotu, destinata invece a farsi ben conoscere sia da tedeschi che dai saloini. Leidi era un venditore ambulante di stringhe, originario di Garbagna che le popolazioni ricordano ancora per le azioni temerarie contro lo stesso centro di Garbagna, roccaforte fascista, anche se, non avendo avuto rapporti con il C.L.N. tortonese come le altre bande, scarsissime sono le notizie sicure che di lui ci sono pervenute.
Domenico Fossati ricorda che: “Paiotu e i suoi facevano azioni private, temerarie, come assalire un tedesco armati di un coltello” ed in ciò concordano pure gli appunti sulla storia della Brigata garibaldina Arzani comandata da Franco Anselmi (Marco): “Di Paiotu ed i suoi è noto soltanto che erano soliti assalire i nemici individualmente, armati di solo coltello e poi dileguarsi rapidamente”.
Ottenuta l’autorizzazione alla “puntata” in Berga, con il questore di Pavia ed otto uomini, forse della sua stessa Compagnia, Alfieri parte nella notte del 24 marzo per Cabella Ligure da dove si sale a Berga, tra i monti dell’alta valle Scrivia, dove il castagno cede ormai il passo a faggi e carpini. Qui la valle si frantuma a ventaglio in diverse vallette terminali, entro cui si nascondono tra il verde di incantati paesini rimasti fermi per struttura al Medievo. Sulla sinistra del torrente è Berga, dove la strada termina, come se là finisse il mondo. Tra i boschi si può raggiungere Maggioncalda e oltre Carrega, sotto l’Antola, la futura sede della VI Zona Operativa garibaldina, comandata dallo slavo Miro. Berga è oggi disabitata o quasi nel periodo invernale, i suoi abitanti sono trasferiti per lavoro altrove e lo ripopolano solo in estate.
A Rocchetta Ligure ed a Carrega il colonnello ottiene dalla G.N.R. locale alcuni uomini di rinforzo coi quali piomba su Berga, circonda l’abitato e sfonda la porta dell’osteria rendendosi conto, dai letti disfatti e abbandonati, della fuga precipitosa degli occupanti. Una breve battuta tra i boschi dei dintorni consente di arrestare sia l’oste Ambrogio Chiesa che Paiotu, mentre il parroco don Ernesto Faravelli, rifiutatosi di dare informazioni, si vedrà distrutti sulla piazza di Berga i ritratti dei sovrani che facevano bella mostra, nonostante i tempi, in canonica. Tradotti a Voghera, l’oste e Paiotu saranno inviati in un lager in Germania da dove però riusciranno a fuggire durante un bombardamento e ritornare quindi in Italia dove potranno raccontare, per molti anni ancora, la loro avventura iniziata con l’incontro con il colonnello Alfieri.
Paiotu proseguirà nel suo ambulantato per il resto della sua vita. Morirà per aver bevuto del vino, fresco di operazione di appendicite, nonostante il divieto del medico. Salvatosi dunque dagli “artigli” di Alfieri e da un campo di concentramento finirà i suoi giorni nel modo più “banale” per un … peccato di gola.
Fabrizio Bernini, La Sicherai in Oltrepò pavese, ed. Gianni Iuculiano, 2004, Pavia, pagg. 28-30

Franco Anselmi nasce da Bruno e Nina Carpaneto giovedì 21 ottobre 1915 a Milano dove abita in via Quadronno 16 ed esercita la professione di commerciante.
Mercoledì 30 aprile 1924 a Milano nasce il fratello minore Tito.
Franco viene arruolato nell’aeronautica con il grado di tenente.
Al momento dell’armistizio il ventottenne Franco è in servizio a Cameri in provincia di Novara.
Abbandonato l’aeroporto raggiunge i fratelli e si rifugia a Dernice in provincia di Alessandria dove, con il nome di battaglia Marco, aderisce alla Resistenza e, con le armi fornite dal presidente del CLN Tortona Mario Silla, raduna un piccolo gruppo di militari e comincia la lotta partigiana in val Curone.
Nel giugno 1944 il ventottenne Franco guida l’assalto alla polveriera di Carezzano in provincia di Alessandria per poi spostarsi in val Trebbia dove con i suoi uomini combatte al fianco di Aldo Bisagno Gastaldi.
Entrato nelle brigate Garibaldi per decisione del comunista triestino Anton Miro Ukmar che guida la Resistenza della VI zona ligure, a fine agosto 1944 il ventottenne Franco partecipa alla battaglia di Pertuso al comando di un battaglione garibaldino.
Giovedì 26 ottobre 1944 il ventinovenne Franco assume il comando della brigata Garibaldi Arzani operativa tra val Curone e val Grue.
Dopo il grande rastrellamento dell’inverno 1944-1945 il ventinovenne Franco si sposta nell’Oltrepò pavese dove entra tra le fila della divisione Garibaldi Gramsci comandata da Luchino Dal Verme di cui diviene capo di stato maggiore.
Martedì 30 gennaio 1945 il ventinovenne Franco decide imprudentemente d’assistere a Milano ai funerali di papà Bruno. Arrestato dalle SS, Franco viene liberato con uno scambio di prigionieri e torna tra i suoi compagni.
Giovedì 26 aprile 1945 Franco si offre di liberare Casteggio ancora in mano ad un presidio nazista ma viene colpito a morte a ventinove anni, falciato da una raffica di mitra al termine della battaglia.
Franco viene insignito di medaglia d’argento al valor militare. Questa è la motivazione: “Tenente dell’Aeronautica, all’armistizio si univa alle formazioni partigiane dell’Oltrepò, distinguendosi durante i 15 mesi. Nominato capo di stato maggiore di una divisione partigiana per le sue doti, organizzava e poneva in atto l’azione contro il presidio di Casteggio. Mentre in testa ai suoi reparti guidava a vittoriosa conclusione la cruenta lotta che faceva capitolare le ultime forze nemiche, fatto segno a nutrite raffiche cadeva eroicamente per gli alti ideali di Libertà e amor di Patria”. Casteggio 26 aprile 1945.
trascrizione da I CADUTI DELLA RESISTENZA NELLA PROVINCIA DI PAVIA, ed. Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, deputazione per la Provincia di Pavia, Pavia, 1969, pag. 4

San Sebastiano Curone (AL): Monumento a Franco Anselmi – Fonte: Guida ai Luoghi della Memoria… art. cit.

Anselmi Franco “Marco”, esercente, partigiano della Divisione “Gramsci”, nato a Milano il 21 ottobre 1915 e residente a Milano.
Già tenente dell’aeronautica, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 si rifugiava in Val Curone e iniziava a organizzarvi i primi ribelli. Combatteva in Val Curone, in qualità di comandante di brigata, fino al grande rastrellamento dell’inverno ’44-’45; poi passava nell’Oltrepò e veniva nominato Capo di stato maggiore della neonata Divisione “Gramsci”.
Era colpito a morte alla fine della battaglia per la liberazione di Casteggio, il 26 aprile 1945.
Per il coraggio dimostrato nella lotta è stato insignito di medaglia d’argento “alla memoria”.
Una lapide e una via a Casteggio ne ricordano il sacrificio. Un monumento eretto a San Sebastiano Curone ricorda l’instancabile attività partigiana di Anselmi. Anche il comune di Dernice ricorda Anselmi con una lapide posta sulla facciata del municipio, e lo ricorda pure il comune di Milano con una lapide posta in via dei Mercanti, sull’Antico Palazzo della Ragione.
Ugo Scagni, La Resistenza e i suoi caduti tra il Lesima e il Po, ed. Guardamagna, Varzi, 1995, pag. 392

Il 18 e 19 febbraio 1945 si svolse il primo incontro ufficiale tra i rappresentanti politici della Resistenza – il comunista Secondo Pessi e il liberale Errico Martino – e i delegati della missione britannica della VI Zona: le parti si lasciarono con la promessa di nuovi e frequenti contatti <141. In quel periodo, secondo quanto dichiarato da Anton Ukmar, nella zona ligure operavano circa 5.500 effettivi, inquadrati nelle divisioni Cichero, Mingo e Aliotta, e i partigiani controllavano un vasto territorio compreso tra le provincie di Genova e di Alessandria.
L’8 marzo 1945, infine, nacque la nuova divisione Pinan-Cichero, attiva principalmente tra le valli Borbera, Curone e Grue; era costituita dalle brigate Arzani, Oreste e Po Argo, successivamente integrate dalla brigata Val Lemme-Capurro e dalla 108ª brigata Rossi di pianura; era posta sotto il comando di Aurelio Ferrando <142, mentre il commissario politico era il giovane Giambattista Lazagna. Nello stesso mese Umberto Lazagna venne nominato vice comandante della VI Zona.
[NOTE]
141 Gimelli, La Resistenza in Liguria, op. cit., pp. 671-672; D. Veneruso, Gli Alleati e la Resistenza in Liguria: stato della questione, della letteratura sull’argomento e della documentazione, in La Resistenza in Liguria e gli Alleati, ISRL, Genova, 1988, pp. 55-56.
142 Nato nell’Alessandrino nel 1921, Aurelio Ferrando durante la guerra fu sottotenente del 15° Reggimento del genio di stanza a Chiavari; con l’8 settembre si sottrasse alla resa e, dopo aver vissuto in clandestinità, all’inizio del 1944 raggiunse la formazione costituita a Cichero dal suo compagno di reggimento Aldo Gastaldi. Con il nome di battaglia di “Scrivia”, Ferrando si pose al comando di una squadra che nell’aprile si costituì nel III distaccamento Peter, dislocato a Pannesi di Lumarzo, e inquadrato a giugno nella III brigata Garibaldi Cichero. A settembre, prese il posto di Franco Anselmi al comando della 58ª brigata Garibaldi Oreste, per poi guidare una squadra del distaccamento Villa. All’inizio del 1945 divenne vicecomandante della divisione Cichero; a marzo, con la riorganizzazione della zona, Ferrando ottenne il comando della nuova divisione Pinan-Cichero. È stato presidente della Federazione volontari della libertà. Cfr. Gimelli, Battifora (a cura di), Dizionario della Resistenza in Liguria, op. cit., p. 144.
Paola Pesci, La famiglia Lazagna tra antifascismo e Resistenza, Storia e Memoria, n. 2, 2015, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

Nel febbraio 1945 le Brigate partigiane “Oreste” ed “Arzani” si dimostrarono particolarmente attive in azioni di guerriglia e sabotaggio, mirate soprattutto a rendere insicure per i nazifascisti le principali vie di comunicazione della Valle Scrivia.
Davanti a pesanti perdite di uomini, armi e mezzi, i comandi tedeschi reagirono con una feroce rappresaglia. Il 26 febbraio, i nazisti prelevarono 10 prigionieri politici dal carcere di Casale Monferrato. Giunti a Tortona in camion, con la falsa promessa di venire impiegati in un cantiere di lavoro, il loro destino fu in realtà quello della fucilazione, eseguita il giorno stesso, lungo i bastioni del castello. Per espressa volontà dei comandi tedeschi, a formare il plotone d’esecuzione furono chiamati solo soldati italiani del presidio cittadino.
Le vittime della strage erano tutti civili, arrestati durante i rastrellamenti invernali nella zona del Monferrato come “sbandati”, renitenti alla leva e non come combattenti partigiani. L’eccidio intendeva vendicare la morte di un soldato germanico, ucciso in uno scontro a fuoco con una pattuglia dell’“Arzani”, a Sarezzano.
Redazione, Il Tortonese e le sue valli in Guida ai Luoghi della Memoria in provincia di Alessandria, ISRAL, Pubblicazione realizzata nell’ambito del Progetto Interreg “La Memoria delle Alpi”