Per il quinquennio 1958-63 non si dovrebbe parlare di boom economico

Gli anni Cinquanta sono anni di grandi trasformazioni <1.
“Il periodo compreso tra il 1948 ed il 1962 è quello del cosiddetto “miracolo economico”. In questi anni l’Italia è interessata da un boom economico senza precedenti nella sua storia. Semplificando si può dire che questo rapido sviluppo è il risultato dei bassi costi di produzione e della forte espansione della domanda (interna ed estera) e quindi dei profitti. In altri termini il processo di accumulazione ha le sue premesse nella possibilità di comprimere i consumi privati e pubblici della classe operaia e contadina e di disporre della forza lavoro nel modo più favorevole per il capitale. Soddisfatta tale condizione, l’espansione dei consumi non di sussistenza, degli investimenti e l’andamento della domanda estera danno l’impulso allo sviluppo” <2.
In particolare, rileva Giovanni Bruno,
“Il quinquennio tra il 1958 e il 1963 segna l’acme del processo di accelerato sviluppo industriale del paese che ha preso avvio nei primi anni cinquanta. L’andamento dei più significativi aggregati macroeconomici segnala l’entità del cambiamento realizzatosi: il saggio di variazione annuo del prodotto interno lordo passa dal 5,1 degli anni 1951-1958 al 5,7 per il periodo 1958-1964; nei due periodi il saggio di variazione del comparto industriale risulta sensibilmente superiore alla media generale, mentre al di sotto di questa restano gli altri settori produttivi (agricoltura, che segna addirittura una flessione, pubblica amministrazione, terziario privato ma solo per il primo periodo) […]” <3.
L’economia, la società, la politica italiane conoscono una indubbia accelerazione nel loro processo evolutivo.
“Lo sviluppo economico del paese” – rileva Pietro Scoppola – “[…] sin dall’inizio degli anni cinquanta si manifesta con la sua forza dirompente. Alla fase della ricostruzione, iniziata già nella seconda metà degli anni quaranta, si salda strettamente, senza la possibilità di stabilire confini netti tra le due, la nuova fase dello sviluppo. Il risultato complessivo è quello di una profonda e decisiva trasformazione della società italiana in tutti i suoi aspetti: l’Italia, sia pure con molti squilibri, diventa nel suo insieme un paese industriale; una trasformazione che in altri paesi ha richiesto decenni si concentra nel giro di pochi anni” <4.
A livello economico, un ruolo importante è svolto, nel corso degli anni Cinquanta, dalle imprese pubbliche. L’Eni, soprattutto. La politica attuata dalla “creatura” di Enrico Mattei svolge un ruolo di primo piano nello sviluppo industriale italiano. Anche l’Iri, sebbene in maniera meno “spettacolare”, rispetto alla sviluppo dell’Eni, riveste un posto importante in questa crescita. Pensiamo all’imponente sviluppo nella produzione di acciaio, nella meccanica, nelle telecomunicazioni e nel settore elettrico e nella costruzione di opere pubbliche <5.
A questo punto, come osserva Giorgio Mori,
“la Dc ritenne opportuno marcare, almeno esteriormente, la distinzione fra gli interessi e gli obiettivi delle imprese pubbliche e quelli dei privati, prima con la creazione nel 1956 del ministero delle Partecipazioni Statali che ne doveva coordinare le strategie, e poi con l’uscita delle aziende Iri dalla Confindustria” <6.
Questo obiettivo, del resto, si saldava alle esigenze espresse dalla Cisl, che vedeva nell’ambito del settore pubblico il terreno di coltura ideale per la propria linea di collaborazione aziendale7.
Le trasformazioni e la crescita economica sono imponenti. Come nota Guido Crainz,
“A indicare in prima approssimazione alcuni tratti essenziali del ‘miracolo economico’, le cifre possono essere prese a caso o quasi8.
Se nel 1951, in agricoltura trovava posto il 43% degli occupati, nel 1961, tale percentuale scende al 29,6%, mentre, sempre nello stesso periodo, l’incidenza dell’agricoltura sul prodotto interno lordo cala dal 32% al 12,5%. Tra il 1954 ed il 1964, vi è una diminuzione di oltre tre milioni di occupati nel settore primario” <9.
A fronte di un netto arretramento dell’agricoltura, si ha una considerevole crescita del settore industriale. Alcuni comparti, come l’edilizio in particolare, ma anche settori ad alta intensità di capitale, come il meccanico, il metallurgico ed il chimico, conoscono un forte sviluppo, mentre arretrano quelli a bassa intensità di capitale, come alimentari, tessile, legno <10.
Silvio Lanaro precisa, a tale proposito, che
“Per il quinquennio 1958-63 non si dovrebbe parlare di boom economico: sviluppo e disponibilità di risorse registrano semplicemente un’accelerazione, molto sensibile ma non clamorosa, del processo espansivo iniziatosi nel 1951-52. […] Ciò che invece si abbatte sull’Italia proprio negli anni 1958-63 è una serie di fenomeni incubati in precedenza e collegati fra loro da un rapporto di causalità – anche se non sempre lineare – che cambiano da capo a fondo le fattezze del paese e nonostante la recessione del 1964-65 protraggono i loro effetti almeno fino al 1970 […]” <11.
Il raggiungimento “di fatto” della piena occupazione <12, con indubbie conseguenze sulla ripresa delle lotte, dato la maggiore forza dei lavoratori sul mercato del lavoro; la crescita imponente dell’emigrazione, dapprima dalle campagne delle regioni settentrionali e centrali verso le città del Nord, ma soprattutto dal Meridione; la diffusione dei consumi sono tutti fenomeni che, indotti dalla crescita economica in atto, producono, a loro volta, ingenti trasformazioni.
“Benessere e agiatezza per tutti, allora?” – si chiede Silvio Lanaro – “Non esattamente, perché ciascuno dei fenomeni appena menzionati determina fratture e contraccolpi […] oppure genera bisogni che un sistema economico autoregolato difficilmente riesce a esaudire (la domanda aggiuntiva di abitazioni, scuole, ospedali) o ancora cela al proprio interno smottamenti e implosioni (il calo della disoccupazione associato all’aumento dell’inoccupazione)” <13.
In effetti, le contraddizioni di questo tipo di sviluppo ci sono, e sono molte.
La crescita economica di questi anni avviene praticamente in maniera spontanea, affidata esclusivamente alle forze economiche, senza alcun intervento politico volto ad orientarne gli effetti. Scrive, infatti, Pietro Scoppola:
“Un elemento accomuna ricostruzione e sviluppo: il prevalere su ogni ipotesi di guida politica dell’economia, su ogni ipotesi cioè di politica economica, dei dinamismi spontanei del mercato. E’ in sostanza l’economia assai più della politica che detta le condizioni prime della ricostruzione e poi dello sviluppo” <14.
L’unico tentativo in questo senso, sebbene non si possa parlare di “programmazione” in senso stretto, e sia pure con tutti i suoi limiti, cioè lo “Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64”, meglio noto come “Schema Vanoni”, rimane allo stadio della semplice intenzione. Osserva Giovanni Bruno:
“In effetti, la forte valenza progettuale dello Schema Vanoni, mancando l’individuazione di specifiche politiche e strumenti di intervento, sta tutta nella responsabilità assegnata allo Stato di indirizzare lo sviluppo globale del paese nella direzione di sanare lo squilibrio tra aree arretrate e avanzate del paese e quello tra insufficiente dotazione di capitale produttivo ed eccedente dotazione di manodopera. Il contenuto innovativo della proposta va però ad infrangersi, da un lato, sulla inadeguatezza dei mezzi operativi e sulla scarsa capacità di governo, da un altro, su alcuni errori di valutazione delle traiettorie di sviluppo imboccate dall’industria e dall’economia italiane dalla metà degli anni cinquanta. In particolare, lo Schema sottovaluta drasticamente il peso e il ruolo che la crescita del commercio mondiale e delle esportazioni hanno su qualità e intensità dello sviluppo economico italiano […]” <15.
Anche Denis Mack Smith sottolinea il fallimento:
“Si fece molto chiasso intorno a queste proposte animate da buone intenzioni, ma il Piano Vanoni non fu mai neppure presentato all’esame del parlamento. Esso fu poco più che una dichiarazione d’intenti, dal momento che gli imprenditori settentrionali avevano altre priorità […]” <16.
La “diffusione” del benessere non riesce ancora a sanare, anzi evidenzia maggiormente, la drammatica realtà sociale che era emersa, qualche anno prima, dall’Inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia.
Nei primi anni Cinquanta, infatti, vi erano in Italia 1.357.000 famiglie ‘in condizioni di vita misere’ e 1.345.000 famiglie ‘in condizioni di vita disagiate’: circa un quarto, nel complesso, della popolazione <17. 2.800.000 famiglie vivevano in case sovraffollate, 4.400.000 non consumavano carne e circa 3.200.000 famiglie la consumavano una volta alla settimana <18.
Il rapido sviluppo degli anni seguenti, s’innesta sugli squilibri, sociali e geografici, preesistenti accentuandoli, almeno all’inizio, ulteriormente. Afferma Maria Cacioppo che,
“nonostante sia caratterizzato dall’avvio del miracolo economico, il decennio 1950-59 offre un quadro di sostanziale stabilità nei livelli di reddito e nelle abitudini di spesa degli italiani, sia pure con i profondi squilibri territoriali e le distorsioni che gli sono tipici. Entrambi questi aspetti emergono con chiarezza dai risultati delle rivelazioni empiriche svolte in quegli anni sulle abitudini e gli stili di vita, sui redditi e sui consumi delle famiglie italiane, e sono confermati anche da dati diversi, quali ad esempio l’aumento dei salari, che crescono mediamente di circa il 4% l’anno, mentre il tasso medio di crescita della produttività è del 6,5%. Il passaggio da un’economia di guerra e di scarsità ad una società dei consumi e del benessere, se pure nel periodo in esame rivela qualche indizio, è ben lontano dall’investire in modo diffuso le diverse aree territoriali e i diversi ceti sociali, cosicché tende a venire appiattito dall’omogeneità del dato medio nazionale” <19.
Per buona parte degli anni Cinquanta, la principale spesa nel bilancio delle famiglie è rappresentata dai generi alimentari, con percentuali estremamente elevate. Se nel 1953-54 nelle regioni maggiormente sviluppate, cioè quelle del Nord Ovest, il peso dei generi alimentari sul bilancio domestico gravava per circa il 52%, dieci anni dopo sarà sceso a poco meno del 40%, ma nel Sud rappresenterà ancora oltre il 48% del totale <20. E se i beni durevoli, soprattutto gli elettrodomestici (televisione, frigorifero, lavatrice, in particolare), sono sempre stati visti come l’emblema della corsa ai consumi negli anni del “boom”, va detto che, alla fine degli anni Cinquanta, l’84% circa delle famiglie non possiede alcuno di questi elettrodomestici <21.
Le forti differenze sociali e geografiche che si sono sottolineate diventano evidenti con uno dei fenomeni più imponenti del periodo, che riassume in se la portata e l’impatto della crescita economica e delle trasformazioni del periodo: l’emigrazione.
Scrive Nicola Tranfaglia:
“L’Italia, insomma, nella seconda metà degli anni cinquanta è investita da uno straordinario processo di trasformazione economico-sociale che vede grandi e tumultuose trasmigrazioni al Nord di quasi un milione di contadini e di giovani disoccupati che lasciano le campagne meridionali, dalla crescita rapida delle città industriali (valga per tutti l’esempio di Torino. Che raggiunge e supera in pochi anni il milione di abitanti, ma anche Roma e Milano vedono affluire centinaia di migliaia di lavoratori da ogni parte del paese), dal mutamento delle condizioni e delle abitudini di vita veicolato dalle trasmissioni televisive, dall’arrivo nelle fabbriche del Nord di operai non specializzati e subito denominati operai-massa” <22.
Non è solo la struttura economico-sociale a conoscere profondi cambiamenti, anche a livello politico è in corso una lenta e profonda, per quanto anch’essa contraddittoria, trasformazione.
La crisi della formula centrista e la lunga marcia verso il centro-sinistra si può dire che inizi all’indomani della ‘frattura del 1953’ <23: la sconfitta della legge truffa. Il processo di avvicinamento ai socialisti sarà lento e contrassegnato da “episodi” assai contraddittori legati in buona parte all’evoluzione dei rapporti di forza all’interno della Dc, come dimostra la nascita, con i voti del Msi, del governo Tambroni, all’indomani della sconfitta, all’interno del partito democratico cristiano, di Fanfani, colui che più si era speso, sin dal 1954, per l’apertura ai socialisti. I moti di piazza che seguono hanno l’effetto di mostrare che l’unica via percorribile non può che essere di apertura a sinistra.
Non può si può non sottolineare come anche altri elementi influiscano, almeno come “sfondo” e sia pure con peso ed interessi diversi, in questa evoluzione: dall’allontanamento dei socialisti dal Pci, dopo le rivelazioni del XX congresso del Pcus e l’invasione dell’Ungheria, alla presidenza Kennedy; dall’elezione di Giovanni Gronchi, fino al pontificato di Giovanni XXIII <24.
[NOTE]
1 Tra i numerosi saggi riguardanti la crescita economica del periodo e, più specificamente, il “boom” economico, cfr. Valerio Castronovo, La storia economica, cit., pp. 399-439; Michele Salvati, Economia e politica in Italia, cit., pp. 47-62; Augusto Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana, cit., pp. 56-78.
2 Francesco Silva, I fattori dello sviluppo, cit., p. 449.
3 Giovanni Bruno, Le imprese industriali nel processo di sviluppo, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, tomo I, Politica, economia, società, Torino, Einaudi, 1995, pp. 376-377.
4 Pietro Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 279.
5 Sul ruolo delle imprese pubbliche cfr. Giovanni Bruno, Le imprese industriali, cit., pp. 359-365 e pp. 402-414. Cfr. anche Fabrizio Barca, Sandro Trento, La parabola delle partecipazioni statali: una missione tradita, in Fabrizio Barca (a cura di), Storia del capitalismo, cit., in particolare pp. 194-220; Giovanni Federico, Renato Giannetti, Le politiche industriali, in Storia d’Italia, Annali, vol. XV, cit., pp. 1145-1148.
6 Giorgio Mori, L’economia italiana, cit., p. 221.
7 Cfr. Sergio Turone, Storia del sindacato, cit., pp. 278-286.
8 Guido Crainz, Stoira del miracolo italiano, cit., p. 83.
9 Cfr. idem p. 87.
10 Cfr. Giorgio Mori, L’economia italiana, cit., p. 225.
11 Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., p.223.
12 La disoccupazione scende, in questo periodo, al 3%. cfr., a questo proposito, Enrico Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, tomo I, cit., pp. 438-442.
13 Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., p. 224.
14 Pietro Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 280.
15 Giovanni Bruno, Le imprese industriali, cit., p. 364.
16 Denis Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 582-583.
17 Cfr. Marianella Pirzio Biroli Sclavi, L’inchiesta sulla miseria in Italia, in “Memoria”, n.6, 1982, p. 96.
18 Cfr. idem.
19 Maria Cacioppo, Condizione di vita familiare negli anni cinquanta, in “Memoria”, cit., pp. 86-87.
20 Cfr. idem, p. 87.
21 Cfr. idem.
22 Nicola Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla crisi del centrismo al ‘compromesso storico’, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, tomo II, Istituzioni, movimenti, culture, Torino, Einaudi, 1995, pp. 20-21.
23 Cfr. Pietro Di Loreto, La difficile transizione. Dalla fine del centrismo al centro-sinistra 1953-1960, Bologna, il Mulino, 1993.
24 Cfr. a tal proposito, Nicola Tranfaglia, La modernità squilibrata, cit., pp. 7-50; Carlo Pinzani, L’Italia nel mondo bipolare, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, tomo I, cit., pp. 60-124; Yannis Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra 1960-1968, Roma, Carocci, 1998, pp. 107-120.
Walter Gonella, Sindacati e lotte operaie in una realtà provinciale contadina: la Camera del Lavoro di Asti (1945-1962), Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 1998-1999