Pietà l’è morta

Uno scorcio di Alta Val Varaita – Fonte: Wikipedia

Alla fine del 1944 i comandanti Gl decisero di sfoltire le bande situate nelle valli: Gesso, Grana, Roia, Varaita e Vermenagna, trasferendone i reparti in pianura. Ritenevano infatti troppo rischioso affrontare un nuovo inverno di guerra in montagna, sia per le sistemazioni precarie delle bande, che per il reperimento dei viveri […] Gli uomini comandati da “Nino” Monaco, della Brigata valle Roia “Sandro Delmastro” partirono da Casterino [oggi nel comune di Tenda, dipartimento francese delle Alpi Marittime] il 7 gennaio, lasciando sul posto 15 uomini, abili sciatori affinché si occupassero di mantenere i collegamenti con la Francia. Il viaggio, particolarmente duro e costellato di scontri con le brigate nere, si concluse il 2 febbraio a Santo Stefano di Benevagienna. Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo

Monaco è un giovane laureato in lettere di Valloriate, un paesino in provincia di Cuneo; proviene da una famiglia contadina. All’alba dell’8 settembre è soldato della Quarta Armata in licenza. Da casa assiste allo sfacelo dell’esercito, alla valanga di soldati che invadono la Valle Stura: c’è chi diserta e attraversa la valle per raggiungere altri luoghi, chi invece torna a casa. Monaco sceglie subito la lotta partigiana, e ad ottobre è già con la Banda “Italia Libera” di Galimberti. Come comandante di distaccamento e della brigata “Valle Roja Sandro Delmastro” – e poi come Capo di stato maggiore della Prima Divisione Alpina Gl – è attivo nel Cuneese e partecipa in prima persona alla liberazione di Cuneo. Un merito da riconoscere al racconto di Monaco [Giovanni Monaco, Pietà l’è morta, Edizioni Avanti!, 1955] è di aver reso molto bene la dimensione della guerriglia partigiana: è sempre un fuggire, un rincorrersi, uno scambio continuo di notizie concitate, su cui domina un senso continuo di paura, d’incertezza […] Sulla genesi di Pietà l’è morta si può dire ben poco: lo scritto, infatti, è pubblicato nel 1955 dalle Edizioni Avanti! ma non ha una prefazione, una nota introduttiva che esplichi le intenzioni dell’autore. Questo è un dato indicativo. Nelle prime memorie quasi sempre c’è una prefazione, o un congedo, in cui l’autore parla al presente, al suo pubblico, per sottolineare i meriti partigiani e per contrastare l’oblio e le polemiche strumentali che aleggiavano intorno alle tematiche resistenziali. Negli anni ‘50 altre più autorevoli voci di studiosi sono intervenute a fissare la veridicità storica dei fatti e la validità degli ideali resistenziali; lo spirito rivendicativo della prima memorialistica si va, quindi, esaurendo per lasciare spazio alla dimensione esistenziale del narratore, al ricordo delle sue percezioni e riflessioni personali nel vortice della guerriglia. Senza introduzioni, la memoria di Giovanni Monaco si apre con la descrizione dello sfacelo dell’8 settembre, come è apparso agli occhi del protagonista – soldato in licenza – e dei compaesani. Già dall’incipit si vede la diversa atmosfera che dominerà il racconto: sono le impressioni personali e individuali di Monaco a guidare la narrazione. Il quadro introduttivo denota subito uno stile completamente diverso rispetto alla pomposità delle prime memorie: La sera dell’8 settembre i rintocchi della campana più grossa della chiesa parrocchiale ruppero improvvisamente il silenzio notturno che era sceso sui boschi di castagno. Rintocchi dapprima stentati, poi, a poco a poco, sempre più sonori, e poi ancora più fitti, più sfrenati, come d’una campana impazzita, partivano dalle quattro finestrelle del campanile, correvano lungo il vallone […]. Nella serata, qualcuno che si era attardato all’osteria, arrivò e portò la notizia che la guerra era finita e che la campana suonava a festa. La notizia della guerra finita arriva nelle valli del Cuneese come un vento che accompagna il ritorno dei reduci […] Il disorientamento che il giovane Monaco personalmente prova non è per niente celato: egli confessa con sincerità tutti i suoi dubbi. Non afferma subito di volersi unire ai partigiani, i quali compaiono nella narrazione solo più tardi. Il gruppo di ribelli a cui poi Monaco si aggregherà fa la sua comparsa nel confabulare dei paesani. L’immagine dei partigiani che emerge da queste notizie frammentarie e contraddittorie non è quella di un’organizzazione unitaria composta da valorosi e coraggiosi giovani che lottano per la patria, bensì il ritratto di una banda improvvisata: Fu verso la fine di settembre che si cominciò a parlare con una certa insistenza di «ribelli». Chi fossero, nessuno sapeva dirlo con precisione. Soldati veri e propri non erano, questo era sicuro. Chi ne aveva visto qualcuno affermava che vestivano abiti borghesi e al più ce n’erano che indossavano giubbe militari o portavano cappelli alpini ma senza stellette né gradi. Secondo alcuni, erano badogliani; secondo altri, comunisti. C’era chi giurava di averne incontrato un gruppo di notte e di averli sentiti cantare Bandiera rossa. Nonostante la poca fiducia che le notizie circolanti sul conto dei ribelli stimolano, essi rimangono l’unico punto di riferimento certo per la popolazione di fronte allo sfacelo completo del vecchio mondo: Ma si sentiva anche il bisogno di guardare ad una nuova realtà. E la nuova realtà era quella di Paralup. Si sentiva che Paralup era l’avvenire. Un avvenire di speranza che si contrapponeva ad un passato che stava naufragando. Niente eroismo o retorica spicciola nel raccontare la nascita di questi gruppi di combattenti, e il loro impatto sulla fantasia della gente. Monaco adotta lo sguardo corale e concreto dei valligiani per descrivere il passaggio di questa «decina di uomini» che avevano «un’aria piuttosto riservata e non ci tenevano troppo a farsi notare dalla gente» […] Finalmente, Monaco arriva tra i partigiani. Racconta il suo imbarazzo di nuovo arrivato, ma è anche molto acuto nel descrivere i compagni. Il salto dalla normale vita quotidiana alla dimensione partigiana si nota subito dal cambio di soggetto, perché dall’”io” individuale si passa ad un “noi” collettivo – il “noi” che dentifica il gruppo – e che Monaco adotta da questo momento in avanti, abbandonandolo, per tornare all’”io” singolare, solo nei momenti più introspettivi. L’atmosfera che si respira nell’ambiente partigiano è allegra e cordiale, tanto da far sentire il protagonista subito a suo agio. Le prime, piccole esperienze a cui Monaco prende parte – spedizioni per i rifornimenti di cibo e armi – sono formative per il giovane ribelle che apprende lentamente gli schemi della guerriglia partigiana. Monaco focalizza il racconto di queste azioni sulle proprie sensazioni interiori piuttosto che sui movimenti effettivi del gruppo. Il ritmo della narrazione comunica la concitazione e l’ansia – miste a paura, eccitazione e incoscienza – che animano il protagonista. Si coglie anche un certo, divertito compiacimento: Poi vennero le spedizioni notturne. Un gruppo di uomini, armati il meglio possibile, partiva all’imbrunire, attraversava le borgate in mezzo a un furioso abbaiare di cani e si fermava nei pressi di un obiettivo precedentemente fissato. […] A notte avanzata, qualche volta all’alba, s’era di ritorno all’accantonamento, e mentre ci si allungava pesantemente sul pagliericcio, si raccontavano trionfanti ai compagni rimasti là i particolari dell’impresa e l’entità del bottino. Era bello, nella notte silenziosa, sentire sui selciati dei paesi il suono dei nostri scarponi chiodati. Due ombre strisciano misteriose lungo il muro, mentre il grosso attende. Un crocicchio. Attenzione! L’arma pronta, la mano sul grilletto, il cuore sospeso, il passo guardingo, gli occhi che forano le tenebre. Un sibilo sommesso, impercettibile. Avanti! Via libera! E l’indomani tutto il paese ne parla. Eran cento, anche più, forse cinquecento! L’alone di soddisfazione e di protagonismo che accompagna il racconto delle azioni di guerriglia deriva dalla leggendarietà che ha subito caratterizzato il movimento partigiano nella percezione dei ribelli stessi e della gente comune. Gli abitanti dei paesi sapevano dell’esistenza dei partigiani ma non ne possedevano le coordinate precise: si romanzava sul loro numero, sulle loro azioni, sulla loro capacità offensiva, molte volte esagerando i toni. A proposito di questa pagina, è da notare poi un elemento che rende fondata un’osservazione rimasta finora solo teorica: si descrive nella realtà dei fatti l’abitudine dei partigiani alla narrazione orale, sulle cui movenze si strutturerà il racconto partigiano. Se tralascia le notazioni tattico-militari e i fatti storicamente documentabili, Monaco è molto attento a sottolineare le novità legate alla dimensione di vita libera del partigianato, in cui l’individuo sperimenta quasi una rinascita fisica e mentale: Era una vita piacevole, con quel suo sfondo avventuroso. Era soprattutto una vita vissuta con slancio generoso, in una atmosfera d’entusiasmo elettrizzante, libera dagli intoppi delle forme che appesantiscono le convivenze militari, una vita ingenua e patriarcale, intensa ed esuberante. Nelle vene il sangue scorreva impetuoso, i polmoni respiravano l’aria buona della montagna e anche l’anima pareva respirare la brezza di un’alba nuova e vicina. Anche se qui l’aggettivo «patriarcale» stona con il resto della descrizione, la vita partigiana è un vero e proprio risveglio delle coscienze dei singoli, da troppo abituati alla passività. La novità del partigianato sta proprio nella libertà di poter decidere sempre per se stessi, o di poter contribuire alle decisioni dei capi. Questo aumenta il senso di responsabilità dei ribelli verso il gruppo, e fa sì che la libertà totale sia sempre limitata dal senso individuale del dovere […] Ovviamente, la dimensione di democrazia estrema appena descritta è possibile solo agli inizi della Resistenza, quando le bande sono numericamente limitate e il contatto con i capi è diretto. Quando la Resistenza assumerà proporzioni considerevoli, la gestione sarà quasi interamente nelle mani del comando. La prima parte della memoria di Monaco è tutta concentrata sulla realtà nuova della vita partigiana: solo più tardi si descrivono anche combattimenti e agguati. Quando descrive uno scontro a fuoco, Monaco focalizza il racconto non sui protagonisti più eroici, o sui coraggiosi caduti come avveniva nelle prime memorie, ma sulle sue reazioni personali, tra le quali figura anche la paura. Qui c’è, per esempio, la descrizione di una tentata imboscata: i partigiani sono appostati su un costone e vedono sfilare sotto di loro gli automezzi tedeschi. L’ordine è di sparare, ma sono tutti impietriti dalla paura, alla vista delle armi tedesche: Ecco lì le grosse canne dei cannoni e quelle sottili lunghe delle mitragliere. E sugli automezzi la massa scura dei soldati di cui si intravvede il vago ondeggiare. […] Saranno forse seicento, in tutto, e noi siamo quaranta, con alcuni mitragliatori e poche munizioni. Ora ci vedranno, penso; è impossibile che non ci vedano. […] Siamo addossati a un muro di roccia. Non c’è possibilità di scampo. […] Ma se nessuno spara, potrebbero anche non accorgersi di noi. Non oso sperarlo. Così come si sono messe le cose, so che ormai nessuno di noi sparerà per primo. Sarebbe insensato. E se qualcuno di noi tossisce? L’azione si conclude poi con un niente di fatto, e il gruppo torna alla base, questa volta senza una storia da raccontare, ma con la paura concreta e palpabile addosso. Niente eroismi, quindi: Quando guardo i miei vicini, noto che hanno delle strane facce, come uno che è passato su un ponte e, appena passato, se l’è sentito crollare dietro la schiena. E non osa voltarsi a guardare. Anch’io devo avere una faccia come la loro. […] Finalmente la nostra guerra ci ha rivelato il suo vero volto. Penso che questa volta sia andata bene, che il destino è stato benigno e che in seguito non sarà sempre così. È una dichiarazione che lascia perplessi, soprattutto dopo aver letto gli scritti della prima ondata, in cui non c’è traccia di ripensamenti e paure, se non nei testi più riflessivi. Le prime memorie sono scritte per parlare di coraggio, di eroi, di sacrificio, con toni agiografici e celebrativi per sostenere i positivi valori resistenziali. Quando questi ideali sono ormai affermati, può emergere il lato umano – e quindi debole – dei partigiani […] La dimensione in cui Monaco si muove è collettiva, plurale: il soggetto è sempre il “noi” che identifica il movimento partigiano. Unica eccezione, è il capitolo dedicato a “Lulù” – dal titolo Un ragazzo dichiara guerra al Reich – in cui si parla quasi esclusivamente di questo diciottenne francese diventato famoso nelle Langhe per le imboscate che da solo tende a Tedeschi e fascisti. Monaco si attarda un po’ di più solo sulle figure dei comandanti della Quarta Banda, cioè Nuto Revelli e Dante Livio Bianco. Solo dalla storia passata dei due partigiani, però, il lettore può capire che si tratta effettivamente di loro due: Monaco, infatti, non aggiunge i cognomi. Credo che questa sia una strategia voluta: sebbene lo scrittore sapesse benissimo chi fossero diventati dopo la Resistenza i suoi due compagni, nel testo opera in modo che siano considerati come due figure anonime, alla pari degli altri partigiani. In sostanza, Monaco vuol esser sicuro che il pubblico afferri la sua collaborazione con Revelli e Bianco, ma senza citarli direttamente, poiché la loro fama avrebbe probabilmente offuscato l’immagine collettiva e ugualitaria del movimento che l’autore vuol far emergere. Un merito da riconoscere al racconto di Monaco è di aver reso molto bene la dimensione della guerriglia partigiana: è sempre un fuggire, un rincorrersi, uno scambio continuo di notizie concitate, su cui domina un senso continuo di paura, d’incertezza. Ci si trova immersi in un mondo che non ha più contatti con la realtà esterna, con la vita quotidiana e gli affetti familiari. Esistono solo i compagni, i momenti di tensione e di fuga che si alternano grottescamente all’euforia giovanile: Era uno spettacolo di armi terribile e superbo, tutto quello scintillare di armi al sole, quella festa bizzarra di costumi che avrebbero fatto impallidire la più sbrigliata delle fantasie. Berretti militari, fazzoletti rossi, verdi, bianchi, avvolti intorno al capo, alla maniera degli antichi masnadieri, grottesche giubbe e giubbetti venuti da chissà dove, e cinture, cinturoni, giberne, cartucciere di tutte le fogge e in tutte le pose […] Tutto il colore di questa guerra strana, terribile, suggestiva. Come Fenoglio, Monaco cerca di raccontare la guerra partigiana costruendo metafore e immagini che trasmettano al lettore ‒ più che la conoscenza dei fatti concreti ‒ l’atmosfera e le emozioni di quei momenti a volte di pericolo estremo, a volte di spensieratezza. La Resistenza condotta dai partigiani è una guerra, appunto, “strana”, senza regole: un momento si può essere attorno al fuoco a chiacchierare, e il minuto dopo ci si può trovare sorpresi da un rastrellamento, faccia a faccia con la morte. I successi si alternano ai momenti di sconforto, i nuovi arrivati sostituiscono chi – ormai allo stremo fisicamente ed emotivamente – decide di abbandonare, o chi è caduto in battaglia. Lo spazio maggiore concesso dal narratore al lato “umano” del protagonista permette di cogliere emozioni e riflessioni difficilmente riscontrabili nelle memorie della prima ondata. Nei momenti di contatto tra i partigiani e i nemici, per esempio, Monaco riscopre la dimensione umana che accomuna tutti i combattenti e percepisce, per un attimo, la fondamentale inutilità della guerra […] In sostanza, Monaco propone un testo di memoria che dà al lettore la dimensione personale della guerriglia partigiana e riassume i significati che questi momenti hanno avuto per il protagonista, e non per la Grande Storia. L’autore non rivendica riconoscimenti, premi o meriti, ma racconta un’esperienza tragica in cui la speranza per l’avvenire e il terrore della morte si sono spesso sovrapposte fino a confondersi, e anche nel racconto confinano grottescamente. Sara Lorenzetti, Ricordare e raccontare. Memorialistica e Resistenza in Val d’Ossola, Tesi di Laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea specialistica in Lingua e Cultura Italiana, Anno accademico 2008-2009