
Alle prime luci dell’alba del 25 gennaio [1944] scattò l’allarme per l’arrivo di tedeschi; Nedo e Gemisto [Francesco Moranino] diedero l’ordine di disporsi in assetto di difesa mentre scariche di armi pesanti cominciarono a crepitare sul posto di blocco. Ci trovammo in una ventina di uomini sulla strada intenti a ricevere da un partigiano le prime informazioni sull’attacco tedesco, fortunatamente bloccato temporaneamente dalla manovra errata di una autoblindo nell’attraversare il ponte molto stretto sul torrente Strona, quando giunse Vladimir ad annunciare che dalla parte del cimitero i tedeschi erano fermi sul ponte con i loro automezzi e si disponevano ad attraversare il torrente a piedi; inoltre avevano scorto il partigiano Giuseppe Tellaroli (Barba) e lo avevano freddato con una raffica.
Il pericolo di un accerchiamento era reale: Nedo e Gemisto decisero perciò l’arretramento lungo la valle dello Strona. Ci inoltrammo per oltre due ore, quando, superata la frazione Roncole, il silenzio fu rotto da colpi di mortaio indirizzati alle baite sulle alture che circondavano il paese. Il primo o il secondo colpo colpirono l’obiettivo incendiandolo, confermando l’elevato grado di addestramento delle forze antiguerriglia, che completava la loro ferocia.
Raggiungemmo l’alpe Piane, utilizzata come deposito, a oltre un’ora da Roncole, dove stazionavano un gruppo di giovani non armati e un gruppo di anziani compagni di Crevacuore perseguitati dal fascismo: Primo Ferro, Francesco Buffa, Luigi Sizzano ed altri di cui non ricordo i nomi, che rimasero al tempo stesso addolorati e sorpresi per i fatti accaduti. Lasciati alcuni uomini sulla mulattiera che separa Postua dalle Piane, per eventuali segnalazioni, avuta notizia che i tedeschi avevano abbandonato Postua, Nedo ordinò di raggiungere il paese per assistere la popolazione e ridare fiducia agli abitanti, seppure nel limite delle nostre possibilità.
Io rimasi però ancora al campo base e rientrai a Postua il giorno 27; seppi così dell’uccisione del proprietario della casa dove aveva sede il corpo di guardia; della morte di Barba; del ferimento di altri due partigiani, di cui uno grave, assistiti e salvati dalle suore dell’asilo; dell’arresto di quattro uomini, deportati poi in Germania; dell’incendio della villa occupata dal distaccamento; delle ruberie nelle case.
In seguito a considerazioni di carattere militare, Gemisto dispose il trasferimento in una zona più alta della Valsessera. Fu scelta l’alpe di Noveis ed il 28 gennaio 1944, nel primo pomeriggio, raggiungemmo il nostro nuovo alloggiamento. In quel piccolo centro di villeggiatura, raggiungibile solo a piedi, dove vi erano numerose villette e infinite piccole costruzioni in legno di proprietà di dirigenti ed impiegati degli stabilimenti tessili della valle, due alberghi, un negozio di alimentari e un tabaccaio, ci sistemammo in alcune villette disabitate e dedicammo i primi giorni a procurarci alimenti.
Nel frattempo Arrigo, commissario del distaccamento “Pisacane”, chiese di essere esonerato dall’incarico per motivi di salute ed espresse il desiderio di poter fare ritorno a casa per un certo periodo. La richiesta venne esaminata dal comando di brigata e accolta, in conseguenza di questo fatto, l’incarico di commissario politico del “Pisacane” fu affidato a me: erano i primi giorni di febbraio.
Dall’attacco di Noveis al giugno ’44
La vita a Noveis era di normale guarnigione, confortata da un sole quasi primaverile, quando, verso il 10 febbraio, ogni mattina, dal presidio della “Tagliamento” di Pray cominciarono a partire colpi di cannone nella nostra direzione. Era un avvertimento per noi e una pressione sulla popolazione che si protrasse per numerosi giorni, finché una mattina, arrivò trafelato un alpigiano di Pray ad avvertirci che i fascisti risalivano in tre colonne per attaccarci. Reagimmo come potemmo all’attacco improvviso, ma la nostra inferiorità numerica, unita ad una certa imperizia da parte di alcuni nell’uso delle armi, costrinse il comando ad ordinare l’arretramento verso l’alpe Albarej.
Uscimmo indenni dall’attacco, le cui conseguenze furono però drammatiche: furono distrutte e bruciate completamente numerose abitazioni, l’albergo ”Monte Barone”, che ospitava otto soldati inglesi, e non fu risparmiata nemmeno una mucca che produceva il latte per l’albergo. Dopo due giorni i fascisti tornarono nuovamente a Noveis e spararono numerose scariche verso l’alpe Albarej; decidemmo così di abbandonare anche quella località e di trasferirci in un punto più sicuro. Io e Vladimir restammo in attesa che Gemisto, fissato il nuovo insediamento, ci desse le disposizioni per raggiungerlo.
In quei giorni le voci di rastrellamenti erano sempre più insistenti, forse anche alimentate dalla paura della popolazione, e probabilmente per questa ragione Gemisto ci fece recapitare un messaggio con il luogo dell’appuntamento: obietivo Rassa. Ci riunimmo e, dopo aver lungamente discusso l’invito di Gemisto, decidemmo all’unanimità di rimanere in zona, precisamente all’alpe Panin.
L’alpe, situata sotto il monte Barone, a 1.500 metri, e dove vi erano due solide costruzioni, ci permise una buona sistemazione, completata con il recupero e il trasferimento dei generi alimentari e non, necessari ad affrontare la parte restante di quell’inverno, fino a qual momento, in verità, piuttosto mite. Durante i primi giorni di marzo, però, una copiosa nevicata fece di noi una piccola comunità di sepolti vivi. Le scorte di viveri cominciarono ad assottigliarsi ed i più avevano le scarpe ridotte allo sfascio, quanto all’armamento e alle munizioni la situazione non era certo migliore. Fu così che i partigiani Lince e Massimo decisero di scendere a valle, nei propri paesi, per trovare il denaro necessario a sopperire almeno in parte alle nostre esigenze.
Il mese di marzo trascorse quindi senza la minima possibilità di riprendere i contatti con la parte del ”Pisacane” che era con Gemisto; scarse erano anche le informazioni su quanto avveniva in Valsessera. Nella prima decade di aprile, con la neve ormai vinta dal sole e con le prime foglie sui rami, fummo finalmente raggiunti da un’avanguardia degli uomini di Gemisto, che fra il 10 e il 20 si trasferirono completamente all’alpe Panin, riunendo il distaccamento dopo due mesi di separazione.
Pochi giorni dopo Gemisto decise, per ragioni di sicurezza, il trasferimento all’alpe Gavala, ma anche lì la permanenza del distaccamento fu di breve durata. Nel frattempo, infatti, Gemisto ristrutturò la formazione in squadre composte da giovani partigiani, che avrebbero dovuto scendere verso la pianura per contribuire ad azioni di guerriglia contro i presidi fascisti.
Verso il 2 o 3 maggio le squadre partirono per le loro missioni; io, Vladimir e una ventina di uomini fummo incaricati di tenere la base, fissata in un alpeggio più a valle dell’alpe Gavala, per eventuali necessità. Fu lì che il 9 maggio vedemmo giungere il partigiano Pio Percoppo in gravi condizioni fisiche e psichiche, il quale ci informò dei terribili momenti vissuti dalla propria squadra in seguito all’imboscata di Curino.
Decidemmo di intensificare le misure di sicurezza, disponendo ogni giorno un servizio di guardia all’inizio della mulattiera che conduce all’alpe Gavala.
Verso la mezzanotte dell’11 maggio, mentre erano di guardia un ottimo partigiano meridionale ed il partigiano Pilastro, fummo svegliati da alcuni colpi secchi. Ci mettemmo subito in allarme ed attendemmo notizie dei nostri compagni di guardia; dopo circa mezz’ora giunse il partigiano meridionale, informandoci che una colonna di fascisti aveva iniziato a salire lungo la mulattiera che conduce all’alpe. Nessuna notizia, invece, di Pilastro. Dapprima increduli per l’improvvisa incursione notturna attendemmo per alcune ore ma, all’avvicinarsi dell’alba, udimmo distintamente le voci dei fascisti e convenimmo di spostarci nuovamente in alto, all’alpe Panin. Mentre ci allontanavamo vedemmo bruciare le baite del Gavala, udimmo ancora ordini secchi e una raffica di mitra. Non ancora paghi, scendendo dall’alpeggio, i fascisti uccisero un alpigiano ed il giovane figlio, incontrati lungo la strada. Tre giorni dopo, fummo informati da un pastore che a circa metà strada sulla mulattiera del Gavala giaceva il corpo di Pilastro straziato da una raffica di mitra.
Sino all’apertura del secondo fronte in Francia, cioè fino al giugno 1944, rimasi con un gruppo di uomini, fra cui tutti coloro che erano disarmati, che costituiva il punto di riferimento del “Pisacane”, in una valletta laterale dello Strona.
Dopo l’imboscata di Curino, inoltre, non avevamo più avuto notizie di Gemisto e nemmeno sulla dislocazione delle altre squadre partite ai primi di maggio: il mese di maggio si chiuse quindi con un bilancio nettamente negativo. A giugno, al contrario, le mutate condizioni sui vari fronti fecero sì che molti presidi fascisti, da Borgosesia sino a Valle Mosso, fossero ritirati entro il giorno 10: in Valsesia e in Valsessera i partigiani poterono così entrare nei paesi, accolti entusiasticamente dalla popolazione.
Secondo Saracco, Un astigiano nella Resistenza biellese, “l’impegno” anno 6° – n. 3 – settembre 1986, IstorBiVe