Poeti nella Grande Guerra

Soldati della Grande Guerra

La distanza temporale che ci separa dagli eventi cruciali del Novecento porta spesso a destoricizzare i testi letterari, allontanandoli dal contesto in cui vennero scritti e collocandoli nello spazio astratto del canone, che talora non permette di cogliere la complessità che, all’interno di uno stesso frangente storico, ne genera le diverse espressioni letterarie. Sui vari fronti della Grande Guerra, per es., alcuni poeti nacquero in quanto poeti (Ungaretti in primis), altri, che negli anni precedenti avevano pubblicato le loro opere prime, morirono in quanto poeti (Sbarbaro e, soprattutto, Rebora). L’intervento propone il confronto fra testi scritti dai tre autori durante la Grande Guerra, per verificare la resistenza delle rispettive qualità espressive e del relativo valore testimoniale, svincolata dal calendario istituzionale degli anniversari.
[…] Il punto di partenza, secondo me, consiste nel restituire i testi letterari al contesto storico che li ha generati, che, nel caso delle poesie scritte durante la Grande Guerra, è connaturale al testo stesso: osserva Andrea Cortellessa che molti dei testi di poeti-soldati e soldati-poeti recano l’indicazione del luogo e della data in cui vennero scritti e che Ungaretti, nel passaggio dal Porto sepolto all’Allegria di naufragi all’Allegria, modificò radicalmente i testi, i titoli, la collocazione all’interno della raccolta, lasciando intatti solo luogo e data di composizione. Le poesie composte durante la Grande Guerra recano una data che le vincola in maniera indissolubile al momento storico in cui vennero scritte: sono poesie ‘storiche’ nel senso che, senza o al di fuori di quel preciso evento storico, non sarebbero mai state scritte.
Risalire al momento originario di questi testi vuol dire anche dimenticare o fingere di ignorare quello che avvenne dopo: chi scrive poesie sulla propria esperienza al fronte nel 1915, 1916, 1917, 1918 non sa né quando né come il conflitto terminerà, conosce solo l’hic et nunc della trincea, della marcia, del combattimento… Ma non è in grado di collocarlo sull’orizzonte di un evento storico già definito. Una lettura ingenua o ignara degli esiti del conflitto permette di restituire questi testi al momento (storico ed esistenziale) in cui vennero prodotti e di allontanare, almeno in parte, la retorica che spesso accompagna anniversari e celebrazioni.
Allo stesso modo, andrebbe dimenticato il cosiddetto canone letterario, che per opportunità didattica nei manuali distingue poeti grandi (Ungaretti, che viene dopo Saba e prima di Montale) e poeti minori (tra gli altri, Rebora e Sbarbaro): quando l’Italia inizia la Prima Guerra Mondiale, Clemente Rebora e Camillo Sbarbaro avevano pubblicato la loro prima prova poetica (rispettivamente i Frammenti lirici, nel 1913, e Pianissimo, nel 1914), mentre Giuseppe Ungaretti aveva trascorso la propria vita quasi interamente all’estero (tra Alessandria d’Egitto e Parigi) e non aveva ancora espresso la propria voce poetica. <1 Al termine della guerra, Ungaretti esce ‘poeta laureato’ e negli anni immediatamente successivi rielabora e amplia il Porto sepolto che diventerà Allegria di naufragi e poi Allegria e inizia presto a lavorare alla raccolta Sentimento del tempo, mentre Rebora e Sbarbaro si condannano al silenzio poetico, non mai veramente interrotto dalle poche raccolte pubblicate anche a grande distanza di tempo, <2 che risultano ben diverse e lontane dalle loro prime prove poetiche. Naturalmente, la guerra non è l’unica causa dell’allontanamento di Rebora e Sbarbaro dalla poesia: per entrambi (e in modo particolare per Rebora) <3 ci sono prove sicure di una situazione di instabilità psicologica che sta a monte dell’esperienza al fronte, e d’altra parte anche per l’interventista Ungaretti i mesi di trincea e combattimenti non sono passati indolori e senza conseguenza sul suo equilibrio psicologico.4 Resta un fatto che il progressivo ritirarsi nel silenzio dei due poeti e le loro successive scelte di vita datano dagli anni di guerra, che li ha lasciati in vita, ma ha messo a tacere la loro voce poetica. <5
[…] Quando passiamo a considerare le poesie di Ungaretti, la ricerca delle fonti diventa ben più difficile e insidiosa, perché i testi scritti durante la guerra sembrano veramente generarsi da sé, senza mostrare alcun debito verso la tradizione italiana ma, nel complesso, nemmeno verso quella francese, che spesso viene ricordata per aver Ungaretti vissuto a lungo in Francia, in stretto contatto con la cultura di quel paese e alcuni poeti di quegli anni, in particolare Apollinaire.
[…] La prima osservazione riguarda il titolo, che diventa Mattina solo a partire dall’edizione mondadoriana del 1942: nell’Allegria di naufragi (1919) e poi nelle due edizioni dell’Allegria del 1931 e del 1936 il titolo era Cielo e mare, che risulta incongruo, visto che Santa Maria La Longa è località dell’entroterra. La lettura della prima versione del testo può darci qualche indizio: l’immenso che illumina il poeta nasce da un’esperienza sensoriale, e questo rimanda ad un’altra celeberrima poesia, ove l’immenso viene chiamato immensità e infinito e la relativa intuizione nasce dalla sproporzione tra infinitamente grande e infinitamente piccolo (breve, dice Ungaretti in Cielo e mare). «L’immenso, insomma, è percepibile solo a partire dalla concentrazione acutissima di uno sguardo breve: in una situazione che non può non ricordare, insomma – considerando il culto leopardiano di Ungaretti –, quella di un altro celebre exploit entro la tradizione italiana della brevitas (L’infinito, naturalmente: che non a caso si chiudeva su un naufragio)». <7 La redazione originaria della poesia spiega anche il titolo Cielo e mare, che richiamano evidentemente non il paesaggio friulano ma quello recanatese, e soprattutto il mare tutto metaforico dell’ultimo verso dell’Infinito. Per eliminare Leopardi dal retroterra di questa poesia Ungaretti ha impiegato più di vent’anni, intervenendo prima sul testo e poi sul titolo: l’impressione di immediata naïveté che le poesie del soldato Ungaretti suscitano è quindi facilmente confutabile, <8 all’intuizione poetica originaria segue una rielaborazione formale in alcuni casi anche molto lunga, che restituisce al lettore non l’hic et nunc indicato da luogo e data di composizione, ma una sua rivisitazione stilistica, coerente con la ricerca estetica sviluppata dall’autore. <9
Se spostiamo l’attenzione sugli scritti degli anni di guerra degli altri due poeti, la situazione è ben diversa. Sbarbaro non ci lascia un vero libro di guerra, la sua esperienza è concentrata nella serie dei cosiddetti trucioli di guerra, sedici prose liriche inserite nella raccolta Trucioli del 1920 (numeri dal [66] all’[82]), <10 e anche in queste poche pagine il tema vero della guerra viene continuamente eluso o rimosso, in favore di descrizioni paesaggistiche in tutto analoghe ad altre pagine descrittive presenti nei primi Trucioli.
[…] La lettura di Pianissimo e soprattutto dei primi Trucioli mette di fronte a passi fortemente espressionistici: la realtà sociale deteriore che Sbarbaro sceglie come soggetto per i propri testi lo porta a rappresentazioni anche violentemente deformate tanto dell’ambiente urbano quanto degli attanti che lo popolano, spesso paragonati a marionette, bambole meccaniche, fantocci inanimati, cadaveri. Quando si trova al fronte la crudezza e la violenza della guerra spariscono dai testi, e la rappresentazione della morte (topos nella poesia di guerra) si riduce forse solo a questo breve brano (truciolo [67]):
Ho scoperto qui sopra due scarpe al sole. Grosse. Conficcate per la punta. L’uomo dev’essere bocconi, la bocca disgustata premuta contro il suolo.
Il crocerossino l’ha nascosto in fretta con un po’ di calce e terriccio.
Mi sovviene la parola del fante: lasciarci le scarpe.
Non c’è intorno che cartacce e latte di concentrato vuote. <12
Da questo stesso tema Ungaretti e Rebora hanno saputo trarre ben altri esiti:
[…] Il prosimetro di Rebora va quindi annoverato tra i libri sommersi (Le notti chiare, pp. 41-6) della Grande Guerra, perché l’autore desiste dal trattare quei temi (che infatti non torneranno nelle successive raccolte di versi) e abbandona anche la forma della poesia-prosa, frequentata solo in occasione di questo libro poi rifiutato. <19 Rebora accoglie quindi l’invito della vedetta morta a non parlare, a non dire. Si noti che nei frammenti conservati del prosimetro il problema non è di ordine stilistico, perché Rebora porta alle estreme conseguenze l’esperienza già realizzata nei Frammenti lirici del 1913, che va senz’altro ascritta alla categoria dell’espressionismo: <20 il problema riguarda caso mai i temi affrontati e, forse, il diritto stesso di affrontare in forme poetiche quei temi.
Ungaretti non viene invece toccato da simili remore: Il porto sepolto viene pubblicato nel 1916 in 80 esemplari a cura di Ettore Serra, nel 1919 diventerà una sezione dell’Allegria di naufragi, nel 1923 verrà pubblicato nuovamente con introduzione firmata, come si sa, da Benito Mussolini. È impossibile individuare ragioni oggettive per le diverse sorti poetiche dei tre autori qui considerati, che non possono nemmeno essere ricondotte a cause solo psicologiche e soggettive: le lettere di Ungaretti a Puccini nei toni e nei contenuti si presentano in tutto analoghe a quelle di Rebora al fratello e agli editori:
[16.7.17]
Mio carissimo, avrai ricevuto nel frattempo tutte le preci[saz]ioni. Tu sai, quanto me e meglio, che il «pensiero burocratico» è un intralcio alle cose anche più elementari e logiche; per questo mi sono rivolto a te, alla tua fraternità! In fin dei conti non sono che un soldato, che non si tratta di favorire, ma di aiutare a compiere il suo dovere. Un breve fonogramma che ordini il mio trasferimento al mio 19, e sono salvo, e avrò per te una riconoscenza che non riuscirò mai ad appagare. Tu puoi, tu puoi, purché tu voglia. Presto ti manderò tante cose mie. Appena mi passerà questo acuto male di nervi, che m’impedisce di dormire, di pensare lucidamente, di abbandonarmi alla vita con amore, mi rimetterò a scrivere la mia «guerra portata sulle spalle e sull’anima», un libro sincero. <21
Identico il tono di supplica, il riferimento ad una malattia nervosa, il desiderio di tornare a scrivere un libro sulla guerra: l’esperienza di combattimento, ferite, convalescenza di Rebora e Ungaretti (e in modi diversi anche di Sbarbaro) non spiega perché durante Grande Guerra Ungaretti nasca come poeta e gli altri due rinuncino invece al privilegio di esprimersi in forme poetiche. Per tornare al quesito iniziale sulla memoria istituzionale dei grandi eventi storici: uno dei modi per sottrarre alla retorica propria delle celebrazioni il doveroso ricordo della Prima come della Seconda Guerra Mondiale è portare ad evidenza non solo il fatto che l’Italia alla fine si sia seduta al tavolo dei vincitori (circostanza che in questi come in altri casi analoghi sembra la causa prima della retorica commemorativa) ma anche il valore del giorno per giorno durante il conflitto (di cui gli esiti non erano noti), che nel caso dei nostri tre poeti può essere almeno in parte ricostruito attraverso i testi scritti sul fronte. Che Rebora non abbia mai portato a compimento l’annunciato prosimetro, che Sbarbaro abbia relegato i propri scritti sulla guerra in poche pagine di un volume ben altrimenti concepito non sminuisce in nulla il valore delle due rispettive espressioni poetiche, che stanno alla pari con le contemporanee espressioni poetiche di Ungaretti. Quello che accadde alle voci dei tre poeti dopo la fine della Grande Guerra appartiene ad un’altra storia.
[note]
1 Più precisamente, la sua voce poetica non ha ancora assunto una rilevanza pubblicamente riconoscibile: Leone Piccioni nella Prefazione a Vita d’un uomo (Milano, Mondadori, 1969) fa infatti riferimento a poesie giovanili inedite o pubblicate su riviste di Alessandria d’Egitto ora irreperibili.
2 Rebora pubblicò nel 1922 i Canti anonimi e, dopo la conversione, nel 1947 le Poesie religiose e nel 1956 i Canti dell’infermità. Dopo i Trucioli del 1920 (scritti quasi per intero negli anni del conflitto o immediatamente precedenti) Sbarbaro pubblicò invece Liquidazione nel 1928, una nuova seria di Trucioli nel 1948 e negli anni successivi (anche su impulso di amici) diede alle stampe piccole plaquette dai titoli volutamente riduttivi (Rimanenze, Cartoline in franchigia, ecc.).
3 Si veda, a questo proposito, la ricostruzione della biografia di Rebora nel periodo immediatamente prebellico proposta da Matteo Giancotti nel volume C. REBORA, Frammenti di un libro sulla guerra, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2009, 7-29.
4 Molte delle lettere a Mario Puccini, pubblicate per la prima volta proprio in occasione del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia (G. UNGARETTI, Lettere dal fronte a Mario Puccini, a cura di F. De Nicola, Milano, Archinto, 2015), parlano di nevrastenia, esaurimento nervoso, acuto male di nervi…: Ungaretti chiede aiuto all’amico editore e suo superiore in grado, supplicandolo di farlo distaccare dal servizio o di mandarlo a combattere come soldato semplice nel suo primo reggimento (il XIX), perché Ungaretti non vuole farsi carico della vita di altri soldati che il trasferimento ad una compagnia presidiaria gli aveva imposto.
5 Può essere utile ricordare i luoghi e i periodi in cui i tre poeti presero parte alla Grande Guerra. L’esperienza al fronte di Rebora, di fatto, si limita a pochi mesi: nell’ottobre 1915 parte per il Carso, nel dicembre 1915 viene ferito per l’esplosione di un obice (riportando lesioni all’orecchio e soprattutto un forte trauma) e trascorrerà gli anni successivi tra ospedali e case di cura, fino al congedo definitivo nell’autunno del 1918. Sbarbaro inizia la propria esperienza bellica nel marzo 1916 come volontario della Croce Rossa (varie le sedi di servizio: Rapallo, Bologna, Cividale del Friuli…) e nel febbraio 1917 viene richiamato alle armi: dopo aver frequentato la scuola ufficiali di Sandrigo, fino al termine del conflitto prende parte a varie azioni lungo il fronte austriaco (le località sono le stesse indicate in alcuni dei trucioli “di guerra”: Ave, Lüsen, Franzenfeste…). Ungaretti tra il 1915 e l’inizio del 1918 segue gli spostamenti del XIX reggimento di Fanteria sul Carso; negli ultimi mesi della guerra (da marzo 1918) viene trasferito sul fronte della Champagne, in Francia.
7 Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia di poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di A. Cortellessa, prefazione di M. Isnenghi, Milano, Bruno Mondadori, 1998, 195, cors. orig.
8 Del resto, è il poeta Ungaretti che contribuisce ad alimentare il mito delle poesie scritte estemporaneamente su supporti cartacei di fortuna e conservate in un tascapane poi consegnato all’amico e poeta Ettore Serra, destinatario anche di una poesia del Porto sepolto: «quei foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute… – sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico […] m’ero fatto un’idea così rigorosa, e forse assurda, dell’anonimato in una guerra destinata concludersi, nelle mie speranze, colla vittoria del popolo, che qualsiasi cosa m’avesse minimamente distinto da un altro fante mi sarebbe sembrata un odioso privilegio e un gesto offensivo verso il popolo al quale, accettando la guerra nello stato più umile, avevo inteso dare un segno di completa dedizione» (introduzione a E. SERRA, Stambul ed altri paesi, Genova, 1936, cit. in ID., Il tascapane di Ungaretti, Il mio vero Saba e altri saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Barile e Tallone, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983, 30).
9 Parlare delle varianti nelle poesie di Ungaretti è discorso veramente troppo ampio che in questa sede non conta sviluppare. Mi limito a ricordare che, quando nel 1919 Ungaretti dà alle stampe l’Allegria di naufragi, sta già ponendo le basi per la successiva raccolta Sentimento del tempo del 1932: «è certo che con Prime dell’Allegria, 1919 inizia il Sentimento del tempo, e del resto il Sentimento ha, in dichiarata analogia, la sezione iniziale, ancora denominata Prime, comprendente una lirica del ’19, e le altre degli anni fino al ’24» (PICCIONI, Prefazione a UNGARETTI, Vita d’un uomo, XXXII).
10 Nella già ricordata antologia Le notti chiare Cortellessa accoglie inoltre la poesia [Stracci di nebbia lenti] (scritta nel 1918 a Romano di Ezzelino e poi inserita nella raccolta Rimanenze, Milano, Scheiwiller 1955) e la prosa lirica Sproloquio d’estate (Liquidazione, Torino, Ribet, 1928): nella collocazione editoriale scelta dall’autore entrambi i testi risultano completamente decontestualizzati rispetto all’occasione che li ha generati.
12 C. SBARBARO, Trucioli (1920), edizione critica a cura di G. Costa, Milano, Scheiwiller, 1990, p. 285
19 Sulla possibilità di ricostruire il libro di poesie-prosa rifiutato da Rebora si è discusso a lungo, senza arrivare ad una soluzione che proponga in modo sicuro l’ultima volontà dell’autore. I testi in prosa e in versi scritti da Rebora negli anni della Grande Guerra sono stati raccolti in due volumi di diversa impostazione testuale (i già ricordati Frammenti di un libro sulla guerra e Tra melma e sangue) che li rendono comunque facilmente disponibili al lettore moderno. Anche Sbarbaro, in termini altrettanto generici, in una lettera s.d. dell’estate del 1917, scrive ad Angelo Barile che, in caso di sua morte sul fronte, desidera che l’amico raccolga in volume le sue poesie e prose: «Se non tornerò, pubblicherai a tua scelta trucioli e poesie (il mio titolo, a te ingrato, era Liquidazione): senza alcun commento» (cit. in Storia di «Trucioli», in SBARBARO, Trucioli…, 25).
20 F. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora, in Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, con Presentazione di G. Folena, Padova, Liviana, 1972, 3-35; A. GIRARDI, Le «poesie-prosa» di Clemente Rebora, in La lingua della poesia in Italia (1815-1918), Venezia, Marsilio, 2015, 147-60.
21 UNGARETTI, Lettere dal fronte…, 44, cors. orig. L’espressione «guerra portata sulle spalle e sull’anima» torna anche in una lettera a Giovanni Papini del 19 giugno 1917.
Alessandra Zangrandi, Rebora, Sbarbaro, Ungaretti: ‘nascita’ e ‘morte’ di voci poetiche durante la Grande Guerra in La letteratura italiana e le arti, Atti del XX Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 settembre 2016), a cura di L. Battistini, V. Caputo, M. De Blasi, G. A. Liberti, P. Palomba, V. Panarella, A. Stabile, Roma, Adi editore, 2018 Isbn: 9788890790553

Dalle stesse pagine, ancor più equivoca emerge la figura dell’autore [Clemente Rebora]. Egli, reo di avere «distrutto molti suoi scritti», <43 sposando qui la formula dell’accondiscendere «contro voglia», avrebbe, inoltre, lasciato il curatore nell’incertezza, senza l’ausilio di alcuna collaborazione: “La presente edizione raccoglie, credo, tutte le liriche pubblicate, ed in più dà il testo di alcune inedite, di più recente composizione. Dico, credo, poiché non è assolutamente da escludere che qualche frammento, pubblicato in rivistine del tempo della prima guerra mondiale, non sia stato ancora rintracciato”. <44
Il senso di un’estraneità dell’autore all’edizione in questione ma anche, più in generale, alla poesia e al poetare, è rimarcato infine, dal Cenno biografico (su cui Piero si dilunga per più di cinque pagine, tradendo forse le aspettative del fratello), che davvero somiglia ad un necrologio.
[…] Questa evoluzione nel rapporto con l’ispirazione poetica, letterariamente concepita, avrebbe infine aperto la strada per una riconciliazione con il poeta precedente l’ordinazione. A dimostrarlo, ancora una volta, è proprio il poemetto Curriculum vitae, in cui l’esperienza umana e poetica viene raccontata dal poeta e proposta al lettore come exemplum di redenzione. Emblematico, in questo senso, come anche «il ricordo della guerra e quello, più sfumato nelle parole, ma non meno vivo, di Lydia Natus, sono rivissuti con grande intensità, indipendentemente dal continuo giudizio moralistico». <45
43 Lettera al fratello Piero, [Rovereto, 29 luglio 1947],, pp. 237-238.
44 Ivi, p. 237.
45 Lollo, “La scelta tremenda” cit., p. 207. Sulla presenza di Lydia Natus nel Curriculum, di veda inoltre Lollo, Per un’edizione critica delle poesie di Clemente Rebora cit., pp. 66 e sgg.
Isotta Piazza, L’ultimo Rebora e il suo editore, Edizioni Unicopli, 2013

A ciò si riferiscono le immagini dei corpi riversi l’uno sull’altro, e il suono indistinto del respiro della folla, non nitido e facilmente confondibile. Si noti come, più in generale, Rebora miri a creare un ambiente in cui prevale la sensazione di vecchiaia e marciume, come denuncia l’affermazione «dovunque è specchio senza imagine, fondiglio non deposto» <114 inserita non molti versi dopo. Nel complesso il paesaggio genera la sensazione di un contesto infecondo, di un vivere senza davvero apprezzare la realtà che, come ha affermato la critica <115, sarebbe sfociato nel disinteresse per la vita e nell’annientamento della Grande Guerra. Si tratta forse di un concetto che trova espressione anche in altre figurazioni paesaggistiche come si può notare considerando il frammento LXVIII. Si analizzino i seguenti versi:
Fuggono i piani e s’impiombano
ma l’ombra serpeggia e s’incava
con rabbia di fischi e di bava
per golfi abissi sterpeti;
ai seminati impazienti
escon le aperte borgate,
ma l’inedia rimane
a boccheggiare nell’umide tane <116
Qui la descrizione si sviluppa proponendo l’immagine di un’ombra che serpeggia e ingloba la realtà, quasi espressione di un’ombra morale destinata a racchiudere e deviare gli uomini dato che essa viene paragonata ad una vera e propria serpe. <117 Si tratta forse del male morale che caratterizza l’inizio del secolo, del buio che è prevalso nelle anime degli uomini e che, nell’ottica di Rebora, porterà all’abisso della ragione e ad una via senza ritorno. Tale sensazione viene forse ben espressa dai «golfi abissi sterpeti» citati dal poeta, che potrebbero stare per i luoghi più reconditi della coscienza, nonché per il danno spirituale che caratterizza il secolo.
114 Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, p. 738.
115 Ivi, p. 734.
116 Ivi, p. 750.
117 Cfr. Ivi, p. 755.
Anna Tieppo, “Ad ogni poesia fare il quadro”: figurazioni del paesaggio naturale e urbano nei «Frammenti lirici» di Rebora, nei «Canti orfici» di Campana, in «Pianissimo» di Sbarbaro, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2015/2016

Tuttavia nel frattempo gli eventi bellici coinvolgono anche la vita dello scrittore: nonostante – grazie al suo impiego come dipendente presso le acciaierie dell’Ilva – egli avesse diritto all’esonero dal richiamo nell’esercito, su proposta di Pippo Barile, fratello del più famoso Angelo, il poeta decide di arruolarsi volontario nella Croce Rossa, mettendo così fine una volta per tutte alla tanto mal sopportata esperienza del lavoro d’ufficio. Ciononostante, dopo qualche mese di servizio ospedaliero, nel febbraio del 1917 l’unità medica nella quale è impiegato Sbarbaro viene improvvisamente assorbita nel 12° reggimento di fanteria del Regio Esercito <431 e il poeta si trova spedito, dopo un breve corso allievi ufficiali, in trincea vicino ad Asiago, alternando periodi di riposo nelle retrovie a periodi di azione in prima linea. <432
È dal fronte dunque che Sbarbaro scrive quasi l’intera seconda metà della raccolta, corregge i brani già editi in precedenza e dà indicazioni ad Angelo Barile (nel frattempo rientrato in Liguria grazie al congedo ottenuto in seguito ad una ferita di guerra <433) sull’allestimento dell’indice dei componimenti tramite numerose cartoline postali in franchigia, delegando completamente all’amico la responsabilità del rapporto con l’editore. Nonostante Sbarbaro venga congedato nell’estate del 1919, la responsabilità della composizione della raccolta resta nelle mani di Barile, che mantiene il ruolo di intermediario tra Vallecchi e l’autore. Il 31 marzo 1920 vengono inviate le bozze e il volume esce finalmente nell’estate dello stesso anno.
431 Il fatto viene testimoniato in una lettera ai familiari del 9 febbraio 1917, successivamente inserita in Cartoline in franchigia: «Sì, di punto in bianco, ci han trasferiti nell’Esercito. Non sono più crocerossino e non so ancora se diventerò fante o altro» (CAMILLO SBARBARO, L’opera in versi e in prosa, cit., pp. 590-591).
432 Sulla vicenda biografica di Camillo Sbarbaro nei mesi di guerra si veda il capitolo La guerra del soldato Pietro in GINA LAGORIO, Sbarbaro. Un modo spoglio di esistere, cit., pp. 135-145.
433 «Queste due righe ti dicano quello che non saprei a quattr’occhi: sono contento che sei ferito, che non tornerai più lassù, che per l’avvenire staremo più vicini, che sono sempre (per il tempo che resta) il tuo…» (lettera del 6 giugno 1916 in CAMILLO SBARBARO, L’opera in versi e in prosa, cit., p. 562. Il corsivo è nel testo).
Matteo Zoppi, “Dare forma all’anima nascosta”: la retorica della comparazione in Camillo Sbarbaro, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014

Altrettanto significativo in Rebora è il tema della luce (39). Nei Frammenti lirici la luce è intesa come realtà cosmica, con i suoi effetti naturali, ma appare anche come assoluta e interiore esigenza di chiarezza e di calore, come urgente anelito del poeta a una luce di verità: quantitativamente il lemma luce risulta tra i sostantivi femminili più frequenti nel corpus reboriano (40) (57 occorrenze di cui 24 nei Frammenti), preceduto soltanto da vita (111), anima (84), terra (65) e cosa (59). Nei Frammenti sono numerose le note naturalistiche, dalla prima luce del giorno al tramonto (alba, albeggiare, biancore, sbiancare, tramontare, ecc.) attraverso le varie fasi della giornata (mattina o mattino, meriggio, vespero o vespro), e frequenti i richiami al cielo, detto anche l’azzurro o il sereno.
(39) Sfogliando il consistente epistolario del poeta milanese è possibile cogliere a chiare lettere la sua ricerca di luce; nel 1907, da Milano, scrive a Daria Malaguzzi: «Dopo un turbine scapigliato che la natura ha espresso con strani amalgami di suoni e di luci, in una orchestrazione originalissima e possente, respira ora un buon sole tenue e melodico nell’inane aria chiara», e, riflettendo sulla sua «paziente attesa di un qualcosa di molto singolare» che, nell’intimo, egli attende sempre dalla vita, continua: «E l’ombra e la cenere ch’io avvolgo intorno al mio calore e alla mia luce, mi donano un’apparenza di quiete solitaria e inerte; e penso che tutto ciò non sia per il solo male; anzi che le strane ed occulte fosforescenze che saettano in me, un qualche giorno improvviso, abbiano a divampare in qualche espressione di vita non spregevole» (C. REBORA, Epistolario, vol. I, cit., p. 21, lettera n. 23). Sempre da Milano, qualche anno dopo, scriverà all’amico Monteverdi: «[…] i miei occhi impolverati e le mie orecchie rintronate avranno luci e suoni che raggiungeranno il mio spirito forse non invano, povero spirito mio ora così inutilmente luminoso e sonoro come una lucciola senza volo e un rosignolo (un po’ troppo!) in una solitudine!» (p. 70, lettera n. 82). Sono frammenti di luce che si ripresenteranno in modo particolare nelle lettere che Rebora scriverà alla famiglia e agli amici dal fronte, durante la Grande Guerra: questi scritti testimonieranno più che la sofferenza fisica, un dolore interiore, e tuttavia la capacità di amare e di sperare, nel desiderio profondo di «irraggiare» (p. 289, lettera n. 367; suo il corsivo), di svelare almeno «un guizzo» della sua «vasta diversa luce sepolta» (p. 290, lettera n. 370).
(40) Cfr. G. SAVOCA & M. C. PAINO, Concordanza delle poesie di Clemente Rebora, Firenze, Olschki, 2001, 2 voll.
Barbara Venturi, Annotazioni sul lessico dei Frammenti lirici di Clemente Rebora, Atti Acc. Rov. Agiati, a. 258 (2008), ser. VIII, vol. VIII, A, fasc. II