Quando il Comitato Olimpico statunitense era profondamente razzista

A differenza dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno partecipato alla maggior parte delle competizioni olimpiche, e sono coloro che ne hanno ospitate in numero maggiore: quattro in totale <173.
La prima edizione tenutasi negli Stati Uniti, Saint Louis 1904, si svolse in coincidenza con l’Esposizione Universale, che avrebbe celebrato il centennale dell’acquisizione dei territori della Louisiana da parte degli Stati Uniti. Sebbene inizialmente assegnati a Chicago, i Giochi furono spostati per decisione unilaterale dal comitato organizzativo e dal governo statunitense, causando il malcontento della dirigenza europea del CIO che, salvo due rappresentanti, decise di “boicottare” la kermesse sportiva in segno di dissenso per i modi con cui si era arrivati a imporre la nuova sede olimpica <174. Fu scarsa anche la partecipazione generale. A Saint Louis si presentarono appena tredici federazioni internazionali, inclusi gli Stati Uniti, per un totale di 631 atleti – di cui 523 solo statunitensi che andarono così a costituire l’80% dei partecipanti totali <175. La scarsa adesione fu dovuta sopratutto agli esorbitanti costi che ogni singola nazione avrebbe dovuto sobbarcarsi per poter raggiungere la rurale e isolata “capitale del cotone”. I Giochi furono ricordati soprattutto per i vergognosi “Antropologic Days”, gare organizzate parallelamente alle Olimpiadi nell’ambito della Fiera Universale, che avevano lo scopo di mostrare le peculiari e barbare tradizioni di determinati popoli, ritenuti inferiori al modello superiore di “uomo occidentale”. Furono fatti esibire cavalieri mongoli in gare di tiro con l’arco a cavallo mentre pigmei e nativi americani gareggiavano nella “corsa sul palo”. Fu un’esibizione tesa a dimostrare e rafforzare gli stereotipi razziali occidentali dell’epoca, caratterizzati da un forte darwinismo sociale <176. Inoltre, come se già gli Antropology Days non avessero toccato abbastanza il fondo del razzismo occidentale, nella kermesse olimpica fu proibito a tutti gli afroamericani di potersi sedere sugli spalti a vedere una qualsiasi delle gare di atletica nello stadio olimpico <177.
Diciotto anni dopo queste rovinose Olimpiadi, che avrebbero potuto porre fine alle stesse competizioni olimpiche, gli Stati Uniti tornarono ad ospitarli a Los Angeles. Questa volta i Giochi, seppur non strabiliati dal un punto di vista sportivo, furono innovativi dal punto di vista economico. Per la prima volta vennero investiti grossi capitali per la promozione del turismo nella città californiana e vennero applicate moderne tecniche di marketing per favorire una brandizzazione dei giochi stessi, con l’intervento di sponsor (venne siglato il primo storico accordo con Coca-Cola) ed un ampio uso del simbolo olimpico e della bandiera per favorire un senso di appartenenza ai Giochi <178. Si registrò un attivo di un milione di dollari, frutto di una politica capitalista d’investimento che avrebbe anticipato le politiche del New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt per sollevare il paese dagli anni della crisi finanziaria cominciata con il crollo di Wall Street del 1929.
I giochi successivi, Berlino 1936, permettono di evidenziare come la discriminazione razziale fosse una costante in gran parte del mondo occidentale. I Giochi furono monumentali e fortemente voluti da Goebbels, il quale convinse Adolf Hitler che ospitare la kermesse avrebbe aiutato a rafforzare il regime sia all’estero che in Germania, oltre che rappresentare la possibilità di dimostrare la propria superiorità economica e razziale. L’opinione pubblica americana, venuta a conoscenza della violenza totalitaria del regime nazista, chiese un boicottaggio dei Giochi. Avery Brundage, allora presidente del United State Olympic Committee (USOC), si oppose fermamente alla possibilità di un boicottaggio, convinto della necessità di mantenere i buoni rapporti con il regime Nazista. Antisemita e razzista dichiarato, Brundage volò a Berlino per rassicurare il regime della partecipazione della delegazione statunitense, convincendo gli organizzatori e l’establishment nazista della necessità di avere degli atleti ebrei nella delegazione di casa. “Negri e Ebrei di Facciata” – così gli etichettò Brundage – sarebbero serviti ad entrambi i paesi per calmare l’opinione pubblica e gli altri comitati organizzativi scettici. La Germania scelse <179 così due atlete, Gretel Bergmann e Helene Mayer, come membri ebrei della propria delegazione. La Mayer si classificò al secondo posto nel fioretto femminile – un successo esaltato dalla stampa statunitense ma ignorato da quella tedesca <180. Un altro grande “ignorato”, questa volta dagli americani, di queste Olimpiadi, fu il campione d’atletica leggera Jesse Owens. Afro-Americano, originario dell’Alabama ma cresciuto in Ohio, alle Olimpiadi di Berlino riuscì nell’impresa di vincere quattro medaglie d’oro e stabilire, contestualmente, due record mondiali e uno olimpico. In particolar modo viene ricordato l’oro nel salto in lungo, vinto il quattro agosto, battendo il tedesco e modello ariano Luz Long, favorito dal regime, in una gara in cui vicendevolmente si scambiarono consigli su come affrontare la pedana. La sportività dei due atleti venne
immediatamente eclissata dalle elucubrazioni politiche. L’opinione pubblica statunitense affermò che Hitler si era rifiutato di premiare l’atleta a causa della sua razza. Hitler, in realtà, già dal giorno precedente aveva smesso di premiare gli atleti, proprio per evitare di incontrare un altro atleta afroamericano: l’altista Cornelius Johnson. La versione di Owens fu assai diversa da quella propagandistica americana. Il campione iridato, infatti, affermò che Hitler non lo aveva premiato ma che lo salutò con un gesto della mano, mentre chi in realtà si rifiutò di incontrarlo fu l’allora presidente americano Roosvelt, che annullò l’incontro con l’atleta alla Casa Bianca una volta terminati i Giochi per paura di avere ritorsi elettorali da parte degli stati del Sud nelle successive elezioni presidenziali <181.
Terminata la Seconda Guerra Mondiale, davanti agli Stati Uniti si pose un nuovo nemico: la comunista Unione Sovietica. Sebbene fino al 1952 i Sovietici non partecipassero ai Giochi, una volta entrati nel CIO iniziò una serrata “guerra olimpica” tra i due stati ed i due blocchi. Ogni quattro anni, dal 1952 al 1988, le due superpotenze si sfidarono per ottenere più medaglie rispetto alla diretta avversaria, con lo scopo di dimostrare la propria superiorità ideologica anche da un punto di vista sportivo.
I giochi di Helsinki 1952 furono il primo round dello scontro tra le due nazioni, con gli Stati Uniti che sconfissero i sovietici per 40 ori olimpici a 22. L’edizione successiva, Melbourne 1956, vide invece vincere i sovietici per 37 medaglie d’oro a 32. In linea con l’edizione precedente, Roma 1960 vide la vittoria sovietica per 43 ori a 34; un’umiliazione così cocente che portò il presidente John Fitzgerald Kennedy ad affermare, l’anno successivo, che “è nell’interesse nazionale (statunitense) recuperare la superiorità olimpionica, per dare una volta ancora al mondo la prova tangibile della nostra intima forza e vitalità” <182.
Gli anni successivi a Roma 1960 furono cruciali per lo sport statunitense e per il suo rapporto con il movimento per i diritti civili degli afroamericani. Le Olimpiadi di Tokyo 1964 videro tornare a vincere gli Stati Uniti per 36 ori a 30, ma gli eventi sportivi con peso politico maggiore si verificarono soprattutto all’interno delle proprie mura interne.
Nel 1966 la squadra maschile di basket di Texas-El Paso, allenata da Don Haskins, vinse il suo primo e unico titolo collegiale NCAA schierando, nella finale contro la favorita Università del Kentucky, cinque giocatori afro-americani contro i cinque atleti bianchi dell’università avversaria <183. L’impresa, che travalicava il semplice risultato sportivo, dimostrò come non esistesse nessuna forma di inferiorità razziale degli afroamericani rispetto alla popolazione caucasica. Nel 2007 tutta la squadra venne inserita nella Basketball Hall of Fame come ringraziamento per la promozione dei diritti afroamericani nel mondo del basket <184. L’anno successivo fu il turno un altro importante evento sportivo-politico; il campione mondiale dei pesi massimi di pugilato, e oro olimpico a Roma 1960, Muhammad Alì si rifiutò di partecipare alla Guerra in Vietnam, ritenuta imperialista e immotivata, e ciò lo fece diventare uno dei promotori del diritto di Obiezione Civile. Condannato per reticenza alla leva, si vide venir tolti tutti i titoli mondiali e fu obbligato non combattere per i successivi quattro anni, quando poi venne assolto dalla Corte Costituzionale degli Stati Uniti <185. Con questo fermento civile si arrivò ai Giochi di Città del Messico 1968. L’Olympic Project for Human Rights (OPHR), associazione anti-razzista che si era formata grazie a Harry Edwards nel 1967, minacciò il boicottaggio delle Olimpiadi se non fossero state soddisfatte quattro richieste:
1) Sud Africa e Rhodesia sarebbero dovute essere estromesse dai successivi giochi Olimpici;
2) Che fosse ridato il titolo mondiale dei pesi massimi a Muhammad Ali;
3) Che fossero assunti più assistant-coach afroamericani;
4) Che Avery Brundage si dimettesse da capo del CIO <186.
Le richieste rimasero inascoltate e i membri dell’OPHR decisero di annullare il boicottaggio per non vanificare gli sforzi ottenuti dai propri membri già qualificati alla kermesse. Gli atleti aderenti alla OPHR si presentarono alle Olimpiadi indossando una spilla che ricordava la loro lotta ed ebbero modo di far valere i proprio principi. Al momento della premiazione dei 200m i tre atleti presenti alla cerimonia, gli statunitensi John Carlos e Tommie Smith indossarono una spilla bianca a favore dei diritti umani e, una volta saliti sul podio e suonato l’inno americano, i due atleti americani alzarono il pugno guantato di nero, simbolo del “potere nero”, per esprimere il loro dissenso nei
confronti del loro stesso paese che praticava politiche segregazioniste contro la minoranza afro-americana, a cui i due atleti appartenevano. <187 L’enorme visibilità data dalle Olimpiadi ai due atleti, che in quel momento non solo rappresentavano gli Stati Uniti ma anche la loro minoranza etnica di appartenenza, permise loro di rendere noto il problema dei diritti della minoranza di colore statunitense – e la loro successiva espulsione dal villaggio olimpico la sera stessa non fece che ingigantire ciò. Tutt’ora quei pugni vengono ricordati come un dei più importanti momenti di lotta per i diritti umani della storia moderna. Insieme a loro, arrivato secondo, vi era Peter Norman, bianco australiano, che per solidarietà con i propri rivali indossò la spilla del OPHR. I due atleti statunitensi furono subito cacciati dai Giochi e non ebbero più la possibilità di partecipare ad altre competizioni olimpiche. Peter Norman, reo di avere appoggiato i due sovversivi afro-americani, fu escluso dalle Olimpiadi successive, nonostante fosse riuscito a qualificarsi con ben 13 tempi utili <188.
La reazione da parte dell’opinione pubblica conservatrice fu feroce e può essere riassunta nelle terribili parole di Avery Brundage: “La disgustosa dimostrazione dei negri contro la bandiera degli Stati Uniti […] non ha nulla a che vedere lo sport” – commentò il conservatore, simpatizzante nazista, capo del CIO <189. Con queste parole si chiusero le Olimpiadi <190 più politicizzate del ventesimo secolo, e con loro iniziò un nuovo corso internazionale che vide il riaccendersi della Guerra Fredda dopo gli anni della coesistenza pacifica.
[NOTE]
173 https://www.olympic.org/olympic-games. Aggiornato al 10/02/2019.
174 SBETTI NICOLA, Giochi di Potere – Olimpiadi e Politica da Atene a Londra 1896-2012, Le Monnier, 2012
175 PIGNA ALFREDO, Il Romanzo delle Olimpiadi, Mursia, 2012
176 SBETTI NICOLA, Giochi di Potere – Olimpiadi e Politica da Atene a Londra 1896-2012, Le Monnier, 2012
177 Ibidem
178 Ibidem
179 Ibidem
180 Ibidem
181 https://www.corriere.it/sport/16_gennaio_02/evitato-roosevelt-non-hitler-film-rivela-veritaowens-464f958e-b121-11e5-b083-4e1e773a98ad.shtml. Aggiornato al 10/02/2019
182 SBETTI NICOLA, Giochi di Potere – Olimpiadi e Politica da Atene a Londra 1896-2012, Le Monnier, 2012
183 BUFFA FEDERICO, Black Jesus-The Antology, Libreria dello sport, 2009.
184 http://www.hoophall.com/hall-of-famers/1966-texas-western/. Aggiornato al 10/02/2019.
185https://www.britannica.com/biography/Muhammad-Ali-boxer . Aggiornato al 10/02/2019.
186 http://isj.org.uk/resistance-the-best-olympic-spirit/. Aggiornato al 10/02/2019.
187 SBETTI NICOLA, Giochi di Potere – Olimpiadi e Politica da Atene a Londra 1896-2012, Le Monnier, 2012
188 PIGNA ALFREDO, Il Romanzo delle Olimpiadi, Mursia, 2012
189 SBETTI NICOLA, Giochi di Potere – Olimpiadi e Politica da Atene a Londra 1896-2012, Le Monnier, 2012
190 https://www.gonews.it/2014/01/14/tommie-smith-luomo-che-porto-limmigrazione-al-potere/. Aggiornato al 11/01/2019.
Pier Alberto Mascardo, Sport come strumento sociale e diplomatico. Studio Comparato tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America nella Guerra Fredda, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari – Venezia, Anno accademico 2017/2018