Quattro ragazze dei Gap romani

Un gruppo di gappisti romani. (Dall’alto e da sinistra) Alfredo Reichlin, Tullio Pietrocola, Giulio Cortini, Laura Garroni, Maria Teresa Regard, Franco Calamandrei, Valentino Gerratana, Duilio Grigioni, Marisa Musu. (Sotto, accovacciati) Arminio Savioli, Francesco Curreli, Franco Albanese, Carla Capponi, Rosario Bentivegna, Carlo Salinari, Ernesto Borghesi, Raoul Falcioni. (Seduti, davanti al gruppo) Fernando Vitagliano e Franco Ferri. (Sdraiato a terra) Pasquale Balsamo – Fonte: Maurizio Orrù, art. cit. infra

Alcune donne che guardano con fiducia ad altre donne e da esse traggono forza, hanno praticato un’amorosa raccolta dei libri che storiche, filosofe, poete, narratrici, soggetto imprevisto nella storia della cultura, sono andate producendo in particolare dagli anni Settanta in poi. In questi giorni , cercando nei miei scaffali libri sulle donne nella Resistenza ho trovato un volumetto curato da Lucia Motti e Simona Lunadei dal titolo “Donne e Resistenza nella provincia di Roma. Testimonianze e documenti”, 1999. Il libro, probabilmente un’edizione limitata, è frutto di una ricerca promossa e finanziata dalla Commissione delle Elette della Provincia di Roma e con la collaborazione della Fondazione Istituto Gramsci – Onlus. L’idea nasceva dal desiderio di estendere a quella che oggi si chiama Area metropolitana una ricerca che alcuni anni prima era stata realizzata, su iniziativa del Comune di Roma, sulla partecipazione delle donne alla Resistenza a Roma nei terribili mesi dell’occupazione nazista e dei bombardamenti angloamericani (Donne a Roma,1943 -44, Memorie di un’indomabile cura per la vita, ed. Comune di Roma). La ricerca si inscrive sia nella tensione a un’innovazione nella storia delle donne e nella stessa storiografia della Resistenza sia nella tendenza alla valorizzazione della Resistenza nel Centro Italia, dopo che le prime ricostruzioni tendevano a limitare gli studi al Nord, all’Emilia e alla Toscana. La ricostruzione degli eventi nella provincia di Roma non è stato facile sia per i diversi sistemi di organizzazione degli Archivi sia perché le aggregazioni partigiane operavano in zone legate da un criterio di prossimità più che geografico amministrativo, con sconfinamenti tra comuni e province.
[…] Anche il mutato clima culturale, con l’affermazione del neofemminismo, influenza il racconto delle donne, dando spazio a discorsi sulla fisicità e il corpo offeso. Carla Capponi ad esempio ricorda che tutte le compagne impegnate nella lotta non avevano le mestruazioni, come le donne nei lager. Viene poi messa a tema non solo la vulnerabilità dei corpi delle donne, ma anche dei compagni o dei nemici e la difficoltà ad accettare la morte e la pena anche quando è il nemico a soffrirne. L’autorappresentazione che emerge dalle testimonianze è complessa: l’essere spinte a ricordare e a raccontare al di fuori da un ambito familiare e informale certamente le stimola, nello stesso tempo le porta a una sommessità e a un sottrarsi ad un ruolo di protagoniste, con la sottolineatura della naturalità delle loro scelte e della coralità in cui si inscrivevano. Ciò nulla toglie alla consapevolezza e alla assunzione dei rischi con cui hanno agito. Spesso scegliere da che parte stare per quelle donne è stato determinato da una genealogia famigliare antifascista, anche femminile: madri, nonne, zie le hanno ispirate.
C’è talvolta nei racconti una fierezza per i gesti compiuti che include lo sprezzo del pericolo per sé, costo necessario per l’affermazione della dignità personale o dettato dalla convinzione che senza la liberazione non ci sarebbe stata salvezza. Simulazione e dissimulazione sono armi lucidamente assunte nella lotta contro il nemico in numerose circostanze. Clara D’Agostini racconta come giocando d’astuzia coll’ufficiale nazista che aveva arrestato il marito, riesce a sottrarlo alle Fosse Ardeatine o le sorelle Taddei raccontano il sotterfugio con cui, appena adolescenti, riescono a sottrarre ai nazisti gran parte del pesce, alimento prezioso in quei momenti, che volevano sequestrare alla popolazione. Non si raccontano solo circostanze di sofferenza e di pericolo, ma si ricordano momenti più intimi e profondi di condivisione e di speranza con i compagni e le compagne. Adele Bei ricorda quando sul monte Tancia intonavano i canti della tradizione della lotta e lei più anziana li insegnava ai più giovani per i quali costituivano una novità. E Carla Capponi ricorda quando declamava poesie alla giovane Alida Degano. Per alcune, come Lucia Ottobrini, c’è la confessione del dolore quasi insopportabile del ricordo.
Carla Capponi e Lucia Ottobrini provenivano dai Gap romani e tutte e due si erano dovute rifugiare nelle campagna per sottrarsi alla cattura. Entrambe esprimono con accenti simili il sollievo provato dal passaggio dalla durissima esperienza della clandestinità a quella della lotta armata in una banda organizzata su un territorio di montagna. Ricorda Lucia Ottobrini: “I gappisti erano persone che dovevano stare attente a tutto … Ancora oggi, io, quando c’è un assembramento io sto sempre in guardia … Invece lì mi sono trovata proprio in mezzo alla gente, in mezzo al popolo, a questa povera gente … E in questa esperienza comune ho trovato la pietà. Io sono stata molto fortunata, perché ho sempre trovato bravissima gente”. Oltre alla più ristretta partecipazione alle bande armate in queste zone la partecipazione delle donne è stata fatta prevalentemente di collegamenti, di informazioni, di trasporto di armi e viveri con mobilità sul territorio, ma una partigiana di vasta esperienza come Carla Capponi non manca di sottolineare la pericolosità dell’azione delle staffette e delle fiancheggiatrici. Come dimostrano le interviste la vita di queste donne è stata segnata dalla “passione politica” e il loro impegno non è stato episodico, ma è continuato tutta la vita nei partiti o nelle formazioni femminili, confermando l’importanza di quell’ esperienza per la formazione di un ceto politico femminile nel dopoguerra. […]
Ornella Cioni, Riletture. Lotta armata e resistenza diffusa nella provincia di Roma. Il contributo delle donne alla Liberazione, Articolo 21 liberi di…, 23 aprile 2021

Lucia Ottobrini era stata una protagonista della Resistenza armata, ma non aveva voglia di parlarne. Io passavo lunghe ore a casa sua intervistando suo marito Mario Fiorentini, come lei combattente nei Gap, e lei si aggirava silenziosa e gentile, offrendo ora un caffè, ora un bicchiere d’acqua, sorvegliando e moderando il flusso narrativo inarrestabile di Mario con le parole («Mario, dai, smettila. Sì, è necessario, bisogna dire le cose, però…») e soprattutto con lo sguardo – una comunicazione ironica e amorosa come solo settant’anni di matrimonio e di amore immutato dal primo giorno possono rendere possibile. Perché la Resistenza è stata anche questo, anche storie d’amore.
[…] «La guerra è guerra, c’è poco da fare. Ricordo sulla via Empolitana i camion pieni di ragazzini che tornavano a casa e cantavano ‘in die Heimat, in die Heimat, es wird besser gehen’, a casa, a casa andrà tutto meglio». Lei quei camion li ha attaccati con le armi in mano e li ha fatti saltare in aria. «Sono cose che non passano mai. Io li ricordo sempre, per tutta la vita. È un dolore, una cosa tremenda, terribile, glielo posso dire. Per me anche un nemico era un uomo. E mi dispiace infinitamente, tanto. E sono cose molto amare e probabilmente a me mi ha proprio un po’ bollato. Intanto mi ha fatto maturare molto, non mi sento innocente, nessuno è innocente e nessuno può darsi a colpevole».
Ricordo il partigiano ternano Dante Bartolini, uno dei cantori epici e spietati delle glorie combattenti della Resistenza, che pure quando racconta dei camion e dei blindati tedeschi incendiati ricorda anche che «ci stava la povera gente là dentro che non poteva uscire». Anche il nemico è un uomo, anche le vittime nemiche sono povera gente. In questi apparenti scarti narrativi sta la grandezza morale della Resistenza: nella capacità di non dimenticare l’umanità del nemico, di rendersi conto non solo delle sofferenza patite ma anche di quelle inflitte, e di soffrire anche per questo. Forse il sacrificio più grande che hanno offerto tanti partigiani è stato quello di fare violenza per necessità alla loro stessa natura, di sospendere per la nostra libertà una parte della propria stessa umanità lottando al tempo stesso per non dimenticarla e non trasformarsi nell’anima (come diceva l’altra gappista romana Marisa Musu) in «portatori di morte». Questa è una delle cose che li rendono diversi dai loro avversari, che invece della morte avevano il culto.
Forse il momento più alto di tutti racconti partigiani che ho sentito sta in questo scambio con Lucia:
Lucia Ottobrini. Durante la Resistenza io pensavo: è come se trasgredissi, mi vergognavo di rivolgermi a Lui. È stato un periodo diverso.
Portelli. Sentiva di fare una cosa che andava fatta ma Cristo non l’avrebbe approvata.
Lucia. Dopo, nella miseria, in tutte quelle tribolazioni, nella morte, nella guerra io il Cristo l’ho ritrovato in pieno, sempre rimuginando, ripensando: io di queste cose a chi ne parlo? Quando leggo tutte queste testimonianze, o io sono un po’ matta o io sento in maniera diversa, a me non mi va di raccontarle queste storie.
«Io di queste cose con chi ne parlo?» Per tutta la vita, Lucia ha pregato, dice suo marito Mario, che quella fede non condivide ma la ammira. C’era pena nel ricordo e nel racconto, che non per caso sgorga incontrollato nei momenti di sofferenza più intensa, evocando sotterranee associazioni con altre esperienze di morte. «Io ebbi un momento – non di depressione, qualcosa di peggio, quando mi è morto il figlio», ucciso da una macchina vicino casa. «Cercavano di consolarmi e io ho cominciato a parlare, parlare, parlare – avrò parlato per due ore e, caso strano, parlavo della Resistenza. Non so come sono andata a parlare di questo, è stata una mia debolezza, perché pensavo a mio figlio: perché sei morto? Me l’hanno ammazzato per strada – e io dico: come è possibile?».
Il paradosso è che la normalità in cui è possibile tornare a rivolgersi a Cristo è ristabilita proprio grazie alle azioni compiute nella Resistenza, in quel «periodo diverso», trasgressivo, innominabile e tuttavia incancellabile, negato e rivendicato, problematico e glorioso. Perciò: anche in Lucia, sofferenza, ma nessun pentimento. Semmai, un intreccio di pena e orgoglio che lei condivideva, sia pure in gradi e forme diverse da una persona all’altra, con tanti altri (e soprattutto altre) protagonisti e protagoniste della Resistenza. «Venni decorata con la medaglia d’argento da Taviani, allora ministro della Difesa. Stavo insieme a due ufficiali dell’aviazione. Mi prese per la vedova di un combattente e mi disse gentilmente, ‘lei, signora, è la moglie?’ Pensava che fossi la vedova del decorato, che quello fosse morto. Gli feci, ‘guardi, la decorata sono io’».
Alessandro Portelli, La ragazza dei Gap, il manifesto, 23 settembre 2015

Carla Capponi è una bella ragazza dallo sguardo vivace e dal carattere deciso, proveniente da una famiglia colta e antifascista. Il 23 marzo 1944, con il nome di battaglia di Elena, è in via Rasella insieme a un gruppo di gappisti. Rosario Bentivegna, suo compagno di lotta e di vita, travestito da spazzino ha portato in un carretto la bomba, confezionata per attaccare la colonna di polizia tedesca che ogni giorno passa di lì. L’esplosione è terrificante. Molti militari cadono a terra dilaniati, altri sono assaltati dai partigiani con bombe a mano. Rimangono uccisi trentadue appartenenti all’11° Polizei Regiment Bozen, un altro spira in ospedale. Perdono la vita anche due passanti che i gappisti non sono riusciti a portare fuori dal teatro dell’azione, mentre alcuni civili muoiono, nei dintorni, colpiti da proiettili nazisti.
La rappresaglia è feroce e immediata. Nel pomeriggio del 24 marzo, sotto il controllo del generale Kappler, vengono fucilate alle Fosse Ardeatine 335 persone, prelevate in buona parte dalle prigioni romane. Il Comando tedesco ne dà notizia, con un agghiacciante comunicato, solo a strage avvenuta.
Oggetto di aspre polemiche e di interminabili strascichi giudiziari, l’azione di via Rasella, la più clamorosa della Resistenza romana, è stata definitivamente riconosciuta, nel 1999, come legittimo atto di guerra rivolto contro un esercito straniero occupante e diretto a colpire unicamente dei militari.
Diplomata al liceo Visconti, studentessa in giurisprudenza, dopo l’8 settembre Carla non ha un attimo di esitazione. Già durante la difesa di Roma si prodiga ad aiutare i combattenti, riuscendo a salvare un carrista a Porta San Paolo. Poi, il lavoro con le organizzazioni femminili della Resistenza e l’ufficio informazioni del Partito comunista. La sua casa signorile nel palazzo Roccagiovine, al Foro Traiano, diviene un punto di riferimento per l’attività clandestina.
Ma tutto questo, che pure non è poco, a Carla non basta. Sente che per abbattere definitivamente il nazifascismo c’è bisogno di un impegno totale. Decide così di abbandonare famiglia, affetti, sicurezze per entrare in clandestinità. Insieme a Marisa Musu, Lucia Ottobrini e Maria Teresa Regard, è una delle quattro ragazze dei Gap romani, i Gruppi di azione patriottica guidati da Antonello Trombadori, Carlo Salinari e Franco Calamandrei.
Consapevole di rischiare ogni giorno la propria vita in una guerra impari nei mezzi militari ma forte negli obiettivi. Anche nei Gap non è tipo da accettare un ruolo subalterno. Per rifiutare la funzione di semplice appoggio in cui inizialmente l’organizzazione confina le donne, si procura di propria iniziativa una pistola, sottraendola su un autobus a un milite della Guardia nazionale repubblicana (GNR), la polizia militare della Repubblica sociale italiana. Per la sua partecipazione in prima persona, armi in pugno, a numerose azioni contro fascisti e tedeschi la coraggiosa “inglesina” avrà la Medaglia d’oro al Valor militare. Il 9 marzo, in via Claudia, incendia da sola un camion tedesco carico di fusti di benzina. Poi, per non essere riconosciuta, decide di tingersi i capelli di nero.
Sul campo di battaglia Carla dimostra sempre la determinazione di chi sa con chiarezza da che parte stare, però il coraggio non attenua il peso di un drammatico tormento interiore che la accompagna nella lotta. Non è facile, per chi è dalla parte della vita e dei diritti umani, infliggere la morte. Ma non c’è scelta, in una città devastata dal fascismo, dai bombardamenti, dall’occupazione nazista. Scampata con una rocambolesca fuga all’arresto, viene inviata nella zona di Palestrina, dove diviene, fino alla liberazione di Roma, vice comandante di una formazione partigiana che pratica la guerriglia nelle retrovie tedesche. Nonostante i diversi anni trascorsi in sanatorio, a causa di una malattia provocata dalla fame, dal freddo, dagli stenti e dalle vicissitudini della guerra e della vita clandestina, Carla Capponi non ha mai pensato di adagiarsi sugli allori del proprio passato da partigiana. Così, fino agli ultimi anni, trascorsi nella casa della figlia a Zagarolo, prosegue un intenso impegno politico e sociale. Consigliere comunale e parlamentare del PCI, a lungo si dedica, con impegno e passione, al risanamento delle borgate, coordinando l’impegno delle donne nelle periferie romane.
Paola Staccioli, Carla Capponi (detta Elena), Enciclopedia delle donne

È doveroso, anzi utile, dedicare una particolare attenzione alla partecipazione delle donne contro la barbarie nazifasciste. Oggi, la storiografia rivaluta e approfondisce l’universo femminile impegnato in quel contesto storico-politico. Partendo da questi presupposti, un posto importante è rappresentato dalla storia personale e politica di Marisa Musu, ovvero la vita di una donna partigiana, con salde radici antifasciste e libertarie, la quale ha dato prova di coraggio e temerarietà. Altri tempi. Marisa Musu (Roma 1925-2002) nasceva da una famiglia sarda con passioni antifasciste. In una intervista che aveva rilasciato al giornalista Sandro Portelli, affermava: «(…) Sono stata educata nella famiglia di una coppia sarda antifascista, perché mia madre veniva da una militanza molto attiva nel partito repubblicano, quindi libertà, democrazia. … Di carattere sono stata sempre una ragazzina molto concreta, ho fatto giochi di maschiacci, stavo sempre nelle bande dei ragazzi, essendo giovanissima, mi interessava l’azione. È con loro, che veramente facevano la lotta al fascismo con cose concrete – dalla cospirazione, al volantino, erano comunisti – che appena ho potuto sono entrata in contatto» (Nel nome di Rosa, una adolescenza partigiana, Il Manifesto, 5.11.2002).
[…] A 16 anni, Marisa Musu entrava nell’organizzazione clandestina del PCI in compagnia di Adele Maria Jemolo, la futura moglie di Lucio Lombardo Radice. In quel torno di tempo, imperava sovrano il fascismo, ovvero la rappresentazione politica, culturale e ideologica “del male assoluto”. Marisa combatté nei GAP (Gruppi di Azione Patriottica) con il suggestivo nome di battaglia di “Rosa”, ricoprendo il grado di tenente. Questa formazione politico-militare era coordinata e diretta da Franco Calamandrei. Ad essa aderivano: Franco Ferri, Carlo Salinari, Pasquale Balsamo, Luigi Pintor, Lucia Ottobrini, Mario Fiorentini, Carla Capponi e Rosario Bentivegna.
Numerose e significative le azioni antifasciste che vedevano protagonista “Rosa”. Tra le tante, ricordiamo il leggendario attacco del 23 marzo 1944, allorché un gruppo di gappisti, al passaggio di una robusta colonna di militari tedeschi, che attraversava il centro di Roma, in via Rasella, faceva esplodere una bomba. L’effetto fu disastroso e micidiale. Morirono 33 tedeschi. Un centinaio i feriti. La risposta militare nazista fu feroce e atroce. Per rappresaglia 335 italiani furono prelevati dalle carceri di via Locullo, Regina Coeli e via Tasso, e trucidati alle Fosse Ardeatine. Questa azione militare tedesca rimaneva (e rimane), nella coscienza collettiva nazionale antifascista, una barbarie senza precedenti.
[…] Dopo la Liberazione, Marisa Musu ha ricevuto la Medaglia d’Argento al valor militare per il ruolo attivo e pregnante che ha avuto nelle file della Resistenza italiana. […]
Maurizio Orrù, Quando Marisa Musu, “Rosa”, andava all’attacco con la pistola in pugno, Patria Indipendente, settembre 2014

Io nel 1940 mi sono iscritta a un gruppo trotzkista a Napoli. Non sono stata mai molto fascista: la mia famiglia era di Ginevra, avevamo parenti all’estero, in casa c’erano dei liberali, uno zio era un socialista accanito. Però il motivo fondamentale è stata la cosa contro gli ebrei.
Io ero piccola, perché sono nata nel ’24; però vidi che amici miei ebrei venivano allontanati da scuola e questo mi diede talmente fastidio che entrai in questo gruppo. Nel 1941, dopo che l’Unione sovietica si era unita agli alleati ed era stata invasa, ho cominciato a cercare il Partito comunista, e nel ’42 a Roma sono entrata in contatto con i cattolici comunisti. Io cattolica non ero, ma questo era quello che c’era a Roma.
Il Partito stava in una situazione abbastanza disastrata, erano stati presi quasi tutti, e non è che io abbia combinato molto in quegli anni.
Con Trombadori
L’otto settembre ho incontrato Antonello Trombadori per la strada. Avevamo sentito il comunicato di Badoglio, e io ho subito detto, che facciamo? Mi ha dato appuntamento la mattina dopo al Colosseo, ma quando sono arrivata non l’ho trovato, perché erano andati a distribuire le armi a Testaccio. Quindi io mi sono trovata sola, con questi militari che non conoscevo. Io ho detto mi metto a disposizione, però non potevo fare granché; io non sapevo sparare, armi non ce n’avevo.
L’unica cosa che ho fatto, questi militari m’hanno detto: con la bicicletta puoi fare il portaordini, però non si sapeva bene dove perché erano tutti sparsi, non c’era un centro. L’unica cosa che ho fatto, ho portato da mangiare alla gente, ai soldati perché non avevano né acqua, né rancio, quindi le famiglie, le donne aiutavano moltissimo. Il nove e il dieci sono sempre stata là nei posti dei combattimento, e c’è stata una grandissima solidarietà, soprattutto dove s’è combattuto; la gente è scesa dalle case, si è battuta per difendere Roma.
E’ stato un moto spontaneo dell’animo; però non c’era una partecipazione di massa, secondo me non per colpa di nessuno, ma per colpa del fatto che i partiti non erano per niente organizzati.
Io, personalmente, lo facevo prima di tutto per il mio paese, non tanto per il Partito comunista. Forse anche per il partito; però io l’otto settembre sono andata là, ai combattimenti di Porta San Paolo, ma ci sono andata per il mio paese, per Roma, per salvare Roma, non ci sono andata perché me l’ha detto il Partito comunista. La cosa importante è stato l’amor di patria.
Dopo l’otto settembre, Trombadori ha cercato quelli che erano più disponibili; io ero orfana di padre, avevo soltanto mia mamma e mio fratello più piccolo e quindi forse ero più libera di altre. Carla Capponi e io siamo entrate nei Gap insieme, senza conoscere nessuno, quindi siamo state proprio buttate in questa cosa. Abbiamo fatto tantissimi attentati; nessuna capitale europea ha fatto quello che ha fatto Roma. Io via Rasella non l’ho fatto, e ho avuto discussioni, perché secondo me era sbagliato fare l’attentato in quel punto lì che era un budello, che non ne uscivi. Però quando parlo con gli americani e gli inglesi che ho conosciuto poi, mi si allarga il cuore perché dicono, “siete stati bravi a fare via Rasella, perché ci avete salvato”.
Loro pensano che il fronte di Anzio sarebbe crollato, e che via Rasella insieme alla lotta dei Castelli Romani e del Basso Lazio li abbia moltissimo aiutati.
Quarantesima azione
Soprattutto, non fu un’azione isolata: era almeno la quarantesima azione dei Gap. Io con Franco Calamandrei ho messo uno spezzone incendiario a Piazza Montecitorio, che fu una cosa grossa perché saltò per aria un camion e prese fuoco l’albergo Nazionale, e ancora dopo tanti anni c’erano le tracce. Ho partecipato a mettere la bomba all’hotel Flora al comando tedesco, e al posto di ristoro dei soldati tedeschi alla stazione Termini, che io ho fatto assolutamente da sola.
Mi dissero: guarda, partono i treni per Anzio di lì, e bisogna mettere una bomba; e quindi io partii e misi la bomba, e morirono un sacco di tedeschi, quanti non si sa perché non l’hanno mai scritto.
Quando il 22 gennaio gli alleati sono sbarcati a Anzio io ho avuto l’ordine per radio, dagli alleati, che dovevamo fare l’insurrezione. Loro avevano bisogno di avere delle azioni forti a Roma. Loro le sollecitavano queste azioni, non è che noi ci siamo mossi a vanvera. C’era un collegamento molto stretto, anche attraverso il Fronte militare clandestino che era diretto dal colonnello Montezemolo, poi da Maurizio Giglio, poi da Paladini.
Loro non facevano azioni, ma tenevano i collegamenti. E Montezemolo ha incontrato Amendola e gli ha detto: “il tale giorno, il 15 dicembre mi sembra, passeranno due treni, sulla linea Roma-Cassino e sulla linea Roma-Formia. Mandate della gente che faccia saltare in aria questi treni.” E questi treni sono saltati perché l’ha detto il colonnello Montezemolo.
Cioè, noi avevamo buoni rapporti con i militari, e con Bandiera Rossa. Io sono stata in via Tasso con quelli di Bandiera Rossa e con i militari, e non ho sentito mai nessuna differenza, assolutamente. Io sono stata in prigione con Montezemolo, perché lui è stato preso il 28, io sono stata presa il 30. Montezemolo s’è comportato in maniera eccezionale, perché è stato picchiato selvaggiamente, guarda, pazzesco. Ci sono stati anche i nostri che si sono comportati bene, come Gioacchino Gesmundo. Però anche Montezemolo è un eroe per me.
Maria Teresa Regard è decorata con medaglia d’argento così motivata: “Giovane studentessa universitaria, partigiana, ardimentosa dava alla causa della Resistenza apporto entusiastico e infaticabile…Tratta in arresto e tradotta nelle prigioni di Via Tasso, teneva, durante i ripetuti interrogatori, contegno virile ed esemplare…”.
“Virile” l’ho cancellato – gli ho detto, sentite, levate “virile” perché proprio non lo reggo. A Roma nella Resistenza, armata e non armata, le donne erano tantissime, e contavano molto. Però non perché ci fosse una rivendicazione femminista. Vedo che le donne sono più pratiche: probabilmente avevano visto questa guerra così malcondotta, non so… Le persone che hanno risposto di più, quelle che erano antifasciste, al Mamiani, dove stavo io al liceo, erano le ragazze; poi sono andata all’università e ho trovato altre donne.
Io pensavo che dovevamo fare queste cose per cacciare i tedeschi da Roma. Questo era il fine, non era certamente l’idea di ammazzare la gente che mi piacesse. Però in quel momento ci ragionavo poco; pensavo che era una cosa utile. Le mie figlie dicono, ma come, non riflettevi su queste cose? Io ho detto, in realtà non ci volevo nemmeno riflettere perché se ci avessi molto riflettuto mi sarei impaurita, non lo so, non avrei poi avuto la forza, la tensione nervosa era molto forte. Eravamo come se avessimo uno scudo intorno, quasi ci volessimo difendere da questa cosa, perché era una cosa talmente anormale per una persona come noi. Per me non è tanto la paura quanto il timore che dandomi un po’ poi a un certo punto mi sarei anche afflosciata. Anche il fatto di non aver voluto stabilire grandi amicizie con gli altri dei Gap, sempre rimanere un po’ isolata. Io per esempio di sposare Franco Calamandrei non mi passava manco per la testa. Io mi sono sposata il 13 giugno, dieci giorni dopo la liberazione, perché a un certo punto lui ha deciso così. M’ha talmente frastornata, ha detto, “ah, no io mi posso sposare solo una che ha fatto la gappista, non c’è altra scelta”; e poi è curioso perché questo attaccamento così forte che c’era fra di noi è resistito nel tempo, questa è la cosa più strana, perché uno che si sposa così un po’ all’avventura… mi sembrava un po’ strano.
Dopo la guerra siamo andati a Milano perché lui doveva fare un giornale e io sono stata messa nel direttivo della Federazione. Poi Franco è diventato corrispondente dall’Inghilterra dell’Unità, e io ho cominciato a mandare dei pezzi da lì per il Nuovo Corriere. Poi sono andata in Cina, in Tibet, e in Vietnam […]
(a cura di) Alessandro Portelli, “La mia vita di parte”. La testimonianza di Maria Teresa Regard, Storia XXI Secolo

Carla Capponi, Con cuore di donna
Par Maurizia Morini : Lectrice d’italien MAE et historienne – ENS de Lyon
Publié par Damien Prévost le 04/12/2007
Il libro, autobiografico, ripercorre gli anni dell’occupazione delle truppe del terzo Reich a Roma; la scrittrice, all’epoca giovane partigiana, faceva parte del gruppo che mette una bomba in via Rasella. L’ordigno causa la morte di soldati altoatesini, inquadrati nell’esercito tedesco, a questo attentato segue la rappresaglia tedesca e il successivo massacro di civili alle Fosse Ardeatine. Carla Capponi racconta le ragioni della scelta che l’hanno portata a lottare e della vita a Roma durante il fascismo e la Resistenza. La narrazione si colloca quindi nell’intreccio fra storia e vita personale cioè fra memoria e racconto di sé.
[…] Carla Capponi racconta le ragioni della scelta che l’hanno portata a lottare e della vita a Roma durante il fascismo e la Resistenza. La narrazione si colloca quindi nell’intreccio fra storia e vita personale cioè fra memoria e racconto di sé. È la biografia di una donna straordinaria per le scelte di vita che ha compiuto ma nello stesso tempo mostra una sorta di ritrosia nel parlare della sua esperienza che considera normale.
Questo carattere di normalità, che è stato anche di tante altre donne partigiane, assume un carattere politico, poiché vi è un passaggio fra il sentimento di avversione alla violenza fascista e l’adesione a forme politiche organizzate.
La stesura del libro è vissuta come un dovere: la Capponi non voleva essere testimone reticente, ha avuto paura di dimenticare e per questo ha inteso ricordare, per sé e per gli altri; compiendo un’operazione in cui tende a mettersi da parte come soggetto protagonista ed è un tramite per far conoscere altri personaggi, situazioni, il suo tempo giovanile.
L’autrice parlando di sé fa apparire l’aspetto umano di chi di fronte alla durezza della situazione non si abbatte, non è indolente ma reagisce con determinazione, impegno e soprattutto con “il cuore”.
Il libro inizia dalla decisione dell’autrice di ricostruire, attraverso la scrittura, gli anni della giovinezza, della famiglia, della casa e del quartiere di San Lorenzo a Roma. Una dimensione questa, di realtà quotidiana che fa i conti negli anni Venti, con il fascismo, la scuola di regime e con la difficoltà ad aderire a idee e stili di vita non condivisi. Successivamente, negli anni Trenta, le leggi razziali, la loro applicazione nei confronti di amici e del medico di famiglia. Ed anche quando la scrittrice è studentessa ventenne, la guerra in Africa poi in Europa e le conseguenze quotidiane fatte di rinunce e di difficoltà per sé e la sua famiglia.
Dall’estate del 1943 la casa di Capponi, testimone diretta e sconvolta di morti ad opera dei nazisti e che lavora ora come impiegata, diventa un luogo di riunioni clandestine di giovani comunisti. Dopo l’8 settembre, con naturalezza vi è l’adesione alla Resistenza con compiti di staffetta, di collegamento, di volantinaggio e scrittura di messaggi. Sono mesi di attività che mostrano un grande coraggio e insieme una grande paura; l’autrice è costretta alla clandestinità, sfugge a rastrellamenti e prende le armi; diventa cioè una combattente e partecipa all’evento di via Rasella.
Si snoda in tal modo un racconto preciso, narrato con estrema semplicità, relativo a decisioni coraggiose, prese con la consapevolezza della loro durezza e tragicità.
Segue la guerra partigiana sui monti vicino a Roma e le pagine relative descrivono la quotidianità della vita partigiana, fatta di cura dei feriti, dello studio delle azioni da compiere, del collegamento con altre formazioni. […]
Maurizia Morini, “Carla Capponi, Con cuore di donna”, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), décembre 2007. URL: http://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/bibliotheque/carla-capponi-con-cuore-di-donna

Nelle memorie e nei diari pubblicati nel dopoguerra, ricorre con insistenza il tema di una guerra collettiva portata avanti nella solitudine. Carla Capponi descrive così la sensazione di liberazione quando le venne ordinato di abbandonare Roma per raggiungere Palestrina:
“avevo riflettuto a lungo su quanto la lotta fosse diversa in città, per le strade e le piazze di Roma, dove ogni albero era un fortino tedesco e i fascisti giravano in branchi armati. Stare nascosti nella cantina di Duilio, vagare di notte per effettuare colpi di mano alle colonne tedesche in transito verso il fronte, girare armati sapendo che a ogni angolo potevi essere perquisito, arrestato, ucciso; conoscere i luoghi della tortura e persino i volti degli aguzzini e dei nemici che opprimevano la città: tutto questo ci aveva tenuti in una tensione continua. A Palestrina le cose erano diverse: la lotta armata si svolgeva a viso aperto e gli scontri, anche se impari, avvenivano a faccia a faccia con il nemico. Io mi sentivo serena, tranquilla nella coscienza di assolvere un dovere. Il gappista tende un agguato e non vede quasi mai le vittime del suo attacco, mentre il partigiano non solo vede in faccia il nemico ma ne vede anche la morte e ne deve seppellire il corpo per impedire conseguenze sulle popolazioni civili” <11.
11 Carla Capponi, Con cuore di donna, il Saggiatore, Milano 2000, pp. 277-278; cfr. anche R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, a cura di M. Ponzani, Einaudi, Torino 2011, pp. 110-111.
Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune line di ricerca in Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea, II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici, Rivista di storia contemporanea, 3 (2015) ISSN 2240-7413