Quegli ebrei sul Pentcho in cerca della salvezza

La motonave Rodi, adibita per il trasporto fra le isole del Dodecaneso – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

L’avvento al potere di Hitler, in Germania, e la sua politica antiebraica, spinse gli ebrei tedeschi a trovare rifugio nei paesi vicini per cercare di emigrare verso la Palestina, sottoposta, dalla Società delle Nazioni, al protettorato britannico. Il progressivo aggravarsi della situazione in Germania e in Europa spinse gli ebrei a cercare di abbandonare l’Europa centrale con ogni mezzo. Una delle vie preferenziali fu la discesa lungo il Danubio o sugli altri fiumi navigabili dell’Europa Centrale che permettevano di raggiungere il Mar Nero, e quindi, attraverso gli Stretti turchi, l’Egeo e la Palestina.
[…] Il primo caso di coinvolgimento italiano è segnalato da Ester Fintz Menascé, che in una nota di un suo libro dichiara esserci numeri discordanti. (3)
L’autrice cita una nave, il RIM, battente bandiera panamense, che a Costanza (Romania) aveva imbarcato circa 600 persone, e che il 30 giugno 1939 fece sosta a Rodi, dove imbarcò altre 200 persone, alle quali, in base alle appena promulgate leggi razziali, era stata revocata la cittadinanza italiana acquisita dopo la prima guerra mondiale e che avrebbero dovuto già essere state espulse.
Ripartito a luglio, il RIM si incendiò poco dopo (il 19 agosto, secondo il sito della Jewish Virtual Library) e fece naufragio nelle acque dell’isola di Simi, sempre del Dodecaneso. L’intervento di unità navali italiane salvò i passeggeri, che furono portati a Rodi e alloggiati sotto tende militari montate nello stadio cittadino “L’arena del sole”. All’inizio del 1940 fu trovata un’altra nave, che portò tutti i superstiti in Palestina. Secondo altre fonti si tratterebbe del Parota (o Parita), con a bordo 859 migranti.
Di tale episodio non è stata trovata traccia nella documentazione presente presso l’Ufficio Storico della Marina, fuorché una lettera, del marzo 1984, di un cittadino del New Jersey che stava scrivendo un libro sugli italiani e sugli ebrei (1940-1945); in essa la nave del trasporto in Palestina è indicata come Fiume. (4)

Carta dell’Egeo – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

Il traffico locale fra le isole era assicurato dalla motonave Rodi, della Società Adriatica, di 662 tsl che, in navigazione fra Rodi e Simi, fu affondata alle 13:10 del 24 settembre 1942 da un siluro lanciato dal sommergibile greco Nereus, sette miglia a nord-ovest di Rodi. La nave affondò in un minuto. Dal 16 giugno 1940 era stato armato con un piccolo cannone.
Il secondo caso è molto meglio documentato.

M.A.S. della classe “500” in navigazione ad alta velocità – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

Il Diario di Guerra del Comando Marina di Stampalia (capitano di fregata Giuseppe Orlando) riporta al giorno 5 ottobre 1940, sabato, un’operazione contro un sommergibile nemico, segnalato dalla Stazione Vedetta di Pervole, condotta dai M.A.S. dell’XI Squadriglia della 3a Flottiglia MAS.
“Alle 15.00, ora nella quale i M.A.S., cessato l’ascolto, rientrano a Porto Scala scortando P.fo bulgaro “Pentcho” trovato nelle nostre acque territoriali.
Alle 16.00 entrano a porto Scala i M.A.S. che scortano P.fo bulgaro. Si esegue visita e si trovano tutte le carte in ordine.
Alle 07.30 del giorno 7 P.fo Bulgaro Pentcho parte scortato dal G.24 fino a 6 miglia dalle nostre coste”.
Il Diario di Guerra del Comando Zona Militare Marittima dell’Egeo, alla data del 6 ottobre 1940, XVIII riporta:
“15.00 – Mas 523 avvista a Nord di Ponticusa il fumo di una nave che dirige si [sic] Stampalia. Avvicinatosi accerta trattarsi P/fo bulgaro “Pentheo” [sic] che trovandosi in acque territoriali italiane è fatto proseguire per Stampalia.
16.55 – Piroscafo “Pentheo” giunge a Stampalia ove è sottoposto a visita di accertamento; risultato partito da Bretislava e diretto a Mersina con carico 509 passeggeri israeliti di nazionalità varie”.
Alla data del 7 ottobre:
“07.30 – P/fo Bulgaro “Pentheo” parte per Stampalia scortato da G.24 fino fuori acque territoriali”.
Il MAS 523 era comandato dal tenente di vascello Mario Stroscia; con lui operava il MAS 521 del sottotenente di vascello Roviglio. Ponticusa è un’isola poco a ponente di Stampalia.

Il Pentcho ormeggiato a Debra. Si noti il battellino a remi in dotazione – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

Bratislava, capitale della Slovacchia, era stata lasciata cinque mesi prima; Mersina era in Turchia. A bordo, oltre al piccolo equipaggio, vi erano 509 passeggeri, di cui 142 donne e 9 bambini, ebrei espatriati dalla Germania e dalla Cecoslovacchia, diretti in Paraguay.
[…] A tal fine associazioni ebraiche e sioniste, quali il Betar Youth Movement e la National Zionist Organization (NZO), con sede a Londra, si adoperarono per cercare di evacuare ebrei europei (ne furono trasferiti 20 000 entro il 1939) verso la Palestina, sfruttando la navigazione sul Danubio, dando la preferenza ai giovani, uomini e donne, con un certo addestramento militare ed esperienze nel campo agricolo. L’attenzione si appuntò anche sui giovani slovacchi.
[…] Una terza nave, la Sakaraya di 1645 tsl, con 2200 fra austriaci, cecoslovacchi e polacchi, a febbraio del 1940 era presente nell’estuario del Danubio in attesa che la Commissione Internazionale del Traffico sul Danubio si esprimesse sulla possibilità di proseguire la navigazione.(5)
Intanto le organizzazioni ebraiche cercavano di seguire la non facile strada dell’acquisto di qualche battello da impiegare allo scopo.
[…] Il battello fu ribattezzato, dal mediatore,Pentcho, parola appartenente allo slang bulgaro.(6)
Nel frattempo era stata avanzata la richiesta del certificato romeno necessario per poter partire da Sulina. In primavera avvenne il definitivo trasferimento a Bratislava, e si procedette al recupero, a Praga, divenuta capitale del Protettorato di Boemia e Moravia, di 280 passaporti per giovani ebrei slovacchi con visto per il Paraguay.
[…] L’equipaggio era costituito dal comandante, un apolide di origine russa bianca, già ufficiale della Marina zarista, Igor Markeyevitch – morfinomane – con la moglie, anche lei apolide, quattro marinai, un’accompagnatrice paraguaiana. A bordo vi erano circa 400 passeggeri ebrei (di cui 100 paganti).(7) La partenza da Bratislava avvenne domenica 19 maggio 1940. Le sole visibili a bordo erano 20 persone che avrebbero dovuto costituire l’equipaggio.
Dopo due giorni di navigazione il battello passò Buda e Pest, giungendo nel piccolo porto carbonifero ungherese di Mohacs, vicino al confine iugoslavo.
Il battello rischiò di capovolgersi, perché tutti i passeggeri si spostarono contemporaneamente verso la parte della riva. Il Pentcho fu fatto entrare in porto e fermato per cinque giorni. Le autorità locali ritennero che far tornare la nave indietro avrebbe costituito un pericolo maggiore per la navigazione che non farla proseguire, per cui ebbe l’autorizzazione a partire verso il Mar Nero. A bordo salirono un anziano professore viennese e un giovane che aveva perso la nave a Bratislavia. L’ultimo giorno la nave ricevette l’ingiunzione di imbarcare altri 75-100 ebrei, ma questi non arrivarono.
Si trattava di 101 austriaci e polacchi, internati in campi di concentramento tedeschi, appena liberati dopo una trattativa fra neo sionisti e SS tedesche, che avevano deciso: “Il Danubio o lo discendono o ci finiscono …”. Alla partenza imbarcò il tenente di vascello Zalan Petnchazy della Flotta Reale Ungherese del Danubio.
Il 6 giugno il Pentcho giunse nel porto iugoslavo di Bezdan, dove attese l’arrivo del nuovo gruppo di passeggeri.
[…] Un tentativo di forzare il blocco fu sventato dal comandante del porto di Debra, captain Arpod Biecescu. Si pensò allora di trasferire i passeggeri nel campo di transito iugoslavo di Kladovo, posto su un affluente del Danubio, dove erano stati internati i 1200 ebrei di uno dei trasporti fluviali precedenti che non era riuscito. Per fortuna il progetto fu abbandonato; quegli ebrei infatti furono catturati dai nazisti al termine della campagna di Iugoslavia, nella primavera del 1941, e uccisi, con tanto di documentazione fotografica.
Il 28 luglio 1940 fu raggiunto un accordo fra Hitler e il presidente della Slovacchia, con stabilimento in Slovacchia di un regime nazional-socialista; il principale assistente fu Adolf Eichmann, e consigliere del governo per gli Affari ebraici fu nominato il maggiore delle SS Dieter Wicliceny.
Dopo lunghe discussioni e rinvii, improvvisamente il governo iugoslavo decise di far partire la nave e, così, tre mesi dopo l’inizio del viaggio, arrivò il rimorchiatore Cibija, con due chiatte; queste furono messe ai lati del battello, che doveva essere rimorchiato lungo l’attraversamento della strettoia.

Passaggio delle Porte di ferro – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

La partenza avvenne la mattina del 14 agosto. Passate le Porte di ferro, rimorchiatore e chiatte non servirono più.
La nave risultò impopolare anche per i paesi della riva destra, che erano bulgari come la bandiera che il battello batteva.
Il battello cercò di rifornirsi a Vitin, 100 miglia dopo le Porte di ferro, ma giunse a bordo il comandante del porto con alcuni poliziotti armati, e l’unico risultato fu che il comandante del porto se ne andò portandosi via la bandiera bulgara!
Fu deciso di proseguire, e per cinque giorni la macchina di bordo fu alimentata con il legno reperibile. Percorse altre 200 miglia, mancando anche il legno, il Pentcho dette fondo davanti una spiaggia deserta. Il viaggio poteva considerarsi concluso.
Dopo tre giorni giunse una lancia romena, che rifornì la nave di olio combustibile e il battello poté ancorarsi al centro del fiume, con a sinistra Giurgiu (Romania) e a destra Ruschuk (Bulgaria), con l’ordine di non partire, cosa d’altra parte impossibile senza il combustibile.
La mattina successiva i romeni misero sulla riva un piccolo distaccamento.
A bordo mancavano i viveri e l’acqua; fu adoperata l’acqua del fiume, con conseguenti problemi intestinali. Si videro transitare truppe tedesche dirette verso la foce del fiume per andare a presidiare i campi petroliferi romeni. Il 26 agosto venne inalberata la bandiera della Croce Rossa ed esposto uno striscione con la scritta “senza cibo”.
Si verificarono fughe da bordo verso la sponda bulgara. La mattina successiva si verificarono altre fughe, ma i romeni spararono e riportarono a bordo quasi tutti. (8) Un aiuto giunse dal vescovo di Ruschuk. All’ottavo giorno di permanenza giunse a bordo una pattuglia ufficiale romena per informarsi sulle necessità del battello. Fu chiesto di contattare l’Ufficio Trasporti Revisionista e Bucarest. Pochi giorni dopo il battello fu rimorchiato nel porto di Giurgiu, dove venne rifornito di combustibile, viveri e acqua. Il 4 settembre la navigazione verso la foce riprese fino a dare fondo a Sulina, il 14. Una settimana prima il generale romeno filo-nazista Ian Antonescu aveva
effettuato il colpo di stato che aveva deposto il re Carol.
Intanto, sul Pentcho l’equipaggio originale era stato pagato quando si era raggiunta Braila e congedato, assumendo un altro equipaggio di quattro greci (fra cui il direttore di macchina, Yannis), due turchi e un ebreo romeno (Yosi Rosenberg).
A bordo non vi era radio, nessun ausilio alla navigazione, né carte nautiche appropriate, solo una delle quattro imbarcazioni di salvataggio (per sei persone) era agibile. Una collisione con la lancia della polizia costrinse a fare riparazioni per i danni riportati dalle pale, e la sosta a Giurgiu si prolungò per sette giorni, mentre si svolgevano violente manifestazioni antisemite da parte della Guardia di ferro. Il console britannico, Evans, fece un tentativo per bloccare la partenza, ma da bordo fu risposto che la destinazione non era certo la Palestina, ma il Paraguay; Evans rispose minacciando severe sanzioni contro i membri dell’equipaggio nel caso il battello fosse stato catturato in acque palestinesi.
Il 21 avvenne la partenza: scortato da tre unità della Marina romena (a bordo del Pentcho ci si riteneva “un gregge di pecore scortato al macello”) il battello affrontò la navigazione nel Mar Nero. Quarantasei persone che avevano sempre dormito in coperta furono alloggiate sotto coperta, aumentando il disagio all’inverosimile. Si scatenò anche una tempesta, e un’onda sollevò il battello facendolo girare di 180°. Superata la tempesta con difficoltà, la nave entrò nel Bosforo, giungendo, dopo 24 ore, a Istanbul, dove cercò di affiancarsi al Ponte di Galata, che unisce la città al Corno d’Oro. Giunsero due imbarcazioni della polizia turca, che invitarono il battello ad allontanarsi.
Il Pentcho eseguì e diede fondo all’ancora, chiedendo, nel contempo, acqua. I turchi risposero: “Togliete l’ancora o la tagliamo”, e costrinsero il battello a ripartire.
Il giorno dopo fu attraversato il Mar di Marmara, e quello ancora successivo furono oltrepassati i Dardanelli.(9)
Entrato in Egeo, il Pentcho diresse per Lesbo. Una cannoniera greca l’intercettò; poiché non mostrava bandiera, la cannoniera sparò un colpo a prora per fermarlo. Dopo averlo affiancato, essa scortò il battello a Lesbo, nel porto di Mitilene. A bordo fu confezionata una nuova bandiera bulgara e si procedette all’acquisto di frutta e verdura.
Dopo due giorni il Pentcho ripartì, dirigendo verso il Pireo, che raggiunse dopo una navigazione di due giorni, il 30 settembre. Qui avvenne un incontro con due membri della comunità greco-ebraica, che si mostrarono più contenti quando furono informati che il Comitato Americano di distribuzione congiunta si sarebbe accollato tutte le spese effettuate per l’acquisto del carburante e dei viveri.
Il 2 ottobre cadeva il capodanno ebraico (5701), e la comunità ebraica di Atene decise di fare dono della carne fresca ai passeggeri del Pentcho; ma vi furono problemi religiosi di kosher e, quindi, fu deciso che la carne sarebbe stata cotta a terra. La partenza avvenne la sera del 3 ottobre con scorta navale greca. Il consiglio del Revisionist Leadership, attraverso i capi della comunità ebraica, aveva fornito alcune informazioni e consigli […] Il battello diresse verso il passaggio fra Creta e Caso. Fu su questa rotta che avvenne l’avvistamento da parte del MAS 523.
Durante la sosta a Stampalia il battello fu rifornito di frutta e verdura ricevuta in dono. Un ufficiale italiano inviò una scatola di cioccolatini per i bambini.
Dopo il predetto allontanamento da Stampalia, il Pentcho diresse verso sud, per raggiungere Creta e, poi, accostare per levante. Ma si verificarono diverse avarie, più che altro per la scarsezza di acqua per la caldaia, per cui si iniziò a utilizzare una miscela di acqua dolce e di acqua di mare. Si verificò uno scoppio della caldaia, che immobilizzò il battello a circa 100 miglia a ovest di Rodi e 50 a nord di Creta.

Il Pentcho incagliato a Kamila Nisi – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

Fu alzata una vela di fortuna, e il battello andò alla deriva finendo per incagliare sullo scoglio di Kamila Nisi alle 19:40 del giorno 9 ottobre. (10) La gente poté infine scendere a terra.

I naufraghi sullo scoglio – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

Nel disperato tentativo di trovare urgenti mezzi di soccorso, dato che l’isolotto risultava disabitato e non disponeva di acque e di legna, si decise di inviare l’unica imbarcazione disponibile, a remi, verso terra. Vi presero imbarco cinque uomini: Zoltan Schelk (in altra documentazione Schalk o Echelk Ziltan), Emerich Lichenfeld, Ferdinand Lunes (Lanes), Josef Herm (Hers) e il turco Alì Vasfi (Vasfo), membro dell’equipaggio. Si era alla vigilia di una tempesta.
Quando l’imbarcazione giunse in vista di costa, e si riusciva a distinguere alcune luci, fu ributtata al largo dalla tempesta.
Dopo quattro giorni, il battello fu avvistato da uno dei biplani Swordfish della portaerei Illustrious, e i cinque uomini furono raccolti dal cacciatorpediniere Nubian. Il battellino fu affondato a colpi di mitragliera.
Il giorno dopo la formazione navale subì attacchi di aerei e di sommergibili.
Alle 18:55 del 14 ottobre 1940 un siluro colpì gravemente a prora l’incrociatore Liverpool (nella bibliografia disponibile indicato erroneamente come Newcastle), che fu rimorchiato di poppa ad Alessandria d’Egitto, dove le navi rientrarono, il 15 ottobre, con a bordo i cinque naufraghi.(11) Questi furono internati nel campo prigionieri di Mustafà, da cui il turco (neutrale) fu rimandato in Turchia e gli altri quattro si unirono alle Forze Libere Cecoslovacche in Nord Africa.(12)
Il maltempo che aveva spinto il Pentcho verso lo scoglio si trasformò in una tempesta che durò diversi giorni.
Intanto i britannici avvertirono del naufragio il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), che richiese al governatore delle Isole Italiane dell’Egeo, Cesare Maria de Vecchi, di fornire un salvacondotto ai naufraghi per proseguire il viaggio.(13)

La richiesta dei soccorsi – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

A Rodi il naufragio era passato inosservato. Fu disposto che la ricognizione aeronavale effettuasse un sorvolo dello scoglio, ed effettivamente un aereo lo sorvolò il giorno dello Yom Kippur, ma il tempo nuvoloso non consentì di vedere nulla.
Le prime notizie a Roma arrivarono con il rapporto giornaliero del 15 ottobre, riferentesi al 14, giorno in cui un aereo della ricognizione marittima probabilmente individuò la nave incagliata.
[…] Secondo il racconto dei superstiti, il salvataggio avvenne in tre fasi: un primo prelevamento di donne, bambini e malati fra il pomeriggio e la sera del 18; il giorno dopo fu la volta degli uomini. Rimasero sullo scoglio solo 20 uomini e i bagagli.
Un Comitato Israelita (non meglio identificato, probabilmente proveniente dalla Grecia o da Creta) che si recò a Kamila Nisi per soccorrere i naufraghi, fu informato che la maggior parte di essi era stata raccolta da un vapore italiano. Il comitato lasciò ai presenti viveri e acqua con la promessa di ritornare nei giorni successivi, dopo aver fatto quanto era nelle proprie possibilità per trovare un sistema per farli proseguire verso la Palestina. Il 17° giorno (26 ottobre) dopo il naufragio, gli ultimi 20 rimasti e i bagagli furono imbarcati da un mezzo italiano. I membri del comitato ebraico, tornati qualche giorno dopo la precedente visita, trovarono l’isola deserta. Supposero che anche gli ultimi naufraghi fossero stati raccolti da un vapore italiano.

L’accampamento a Rodi detto Campo Stadion – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

Giunti a Rodi, i naufraghi furono alloggiati in tende militari installate nel campo di calcio (il “Campo Stadion”), che però si allagava, diventando fangoso. La situazione alimentare dell’isola non era delle migliori, e 500 persone in più potevano rappresentare un problema (vedasi scheda sul rifornimento del Dodecaneso). I bambini furono affidati a famiglie locali. La comunità ebraica del luogo forniva i viveri.
[…] Le organizzazioni ebraiche estere inviarono 12 500 £ da distribuire fra i naufraghi più bisognosi. La Delasem (Delegazione italiana per l’Assistenza degli Emigrati ebrei) inviava, ogni mese, 30 000 £ Giunsero anche rimesse in denaro dai parenti a Bretislava e da altri paesi. (14)
L’equipaggio fu rimandato a casa; rimase il comandante, che però morì nell’estate successiva.
A novembre il governatore delle Isole, De Vecchi, fu sostituito dal generale Ettore Bastico, il quale fece presente a Roma la difficile situazione alimentare locale premendo per un trasferimento altrove dei 500 naufraghi. I naufraghi fecero qualche tentativo di contattare direttamente il governatore.
L’11 dicembre 1940 il CICR inviava all’Ufficio Prigionieri di Guerra notizie relative a una domanda d’aiuto pervenuta al Comitato per emigrati israeliti raccolti a Rodi (Campo Stadion) dopo il naufragio della nave bulgara Pentcho che li trasportava in Palestina. Era infatti giunta una lettera di uno di questi che raccontava dell’accoglienza generosa ricevuta, ma che trattandosi di un elevato numero di persone, tra cui bambini e malati, molti di questi si trovavano in stato di bisogno.
[…] Il 19 dicembre la Croce Rossa Italiana scriveva al governatorato di Rodi comunicando che sarebbe stata messa a disposizione una piccola somma per i naufraghi e chiedendone la lista.
Il 24 dicembre 1940 avvenne il trasferimento dei naufraghi, in camion, dallo stadio alla caserma San Giovanni, posta vicino al centro della città, con la sistemazione in tre grandi garage. Questo divenne il “Campo San Giovanni” indicato nelle comunicazioni ufficiali.
Uno degli internati, austriaco, Heinz Wida, avendo un visto portoghese, raggiunse Roma, dove incontrò papa Pio XII, proseguendo poi per Lisbona.
La presenza di tante giovani donne sbocciò in un amore fra un’internata e un milite della Milizia, che fu allontanato, inviandolo a Lindos, dall’altra parte dell’isola.
Il 14 gennaio 1941 il Comitato Internazionale della Croce Rossa (C.I.C.R.) scriveva alla C.R.I. per chiedere informazioni sui cinque naufraghi che avevano lasciato lo scoglio in cerca di aiuti. Il governo delle Isole Italiane dell’Egeo, interpellato dalla C.R.I., diede le già dette informazioni sulla sorte dei cinque.
Il 24 gennaio il governo delle Isole aveva risposto che nel campo di concentramento “San Giovanni” si trovavano 512 ebrei naufraghi, dei quali 61 elencati in allegato, sprovvisti di mezzi e di indumenti, perduti durante il naufragio. Un sussidio e l’invio di pacchi da parte del Comitato Internazionale della Croce Rossa sarebbe stato da essi molto gradito. Il Comitato Internazionale aveva ricevuto una richiesta da parte del Comitato Britannico, che voleva sapere come tali pacchi di aiuto sarebbero stati inviati.
Il 20 marzo 1941, con lettera a firma Suzanne Ferrière, membro del C.I.C.R., si chiedeva l’elenco degli internati, dato che le richieste di informazioni dei parenti dei naufraghi si accumulavano.
[…] A luglio il governatore Bastico fu sostituito dall’ammiraglio di squadra Inigo Campioni.

La motonave requisita Calino – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

Il 12 gennaio 1942 le donne (140), i bambini (9) e i malati, per un totale di 200 persone, imbarcarono sulla motonave requisita Calino (comandante militare tenente di vascello Nunzio Lo Faso).
Il giorno dopo la nave, scortata dal cacciatorpediniere Francesco Crispi, lasciava, alle 03:50, Rodi per Lero, dove giunse il 13 alle 09:45. Ne ripartì il 27 diretta al Pireo, dove giunse il 28 alle 12:13. Ripartì il 29 diretta a Patrasso, dove giunse il 30 alle 11:35. Qui la nave fu impegnata in alcuni trasferimenti di personale e materiale per Marimorea. Ripartì il 10 febbraio, giungendo a Bari l’11 febbraio. Sulla nave nacque un bambino, che fu chiamato
Benito, figlio di Belly Ehilich.(15)
Il 27 gennaio il governo delle Isole Italiane dell’Egeo, a firma del capo di gabinetto, tenente colonnello Marchini, trasmetteva “L’elenco degli internati ebrei naufragati, del piroscafo “Pentcho” partiti da questo Possedimento per l’Italia in seguito a disposizioni impartite a questo Regio Governo dal Ministero degli Interni. Secondo le dette disposizioni i rimanenti 306 internati dovranno raggiungere il Regno. Circa le destinazioni dei predetti, nulla è stato notificato a questo Governo. Codesta Presidenza potrà rivolgere analoga domanda al Ministero degli Interni”.
Il 6 febbraio la C.R.I. accusava ricevuta e richiedeva l’elenco nominativo dei 306 rimasti. Alla stessa data la C.R.I. comunicava al C.I.C.R. a Ginevra che 200 internati ebrei avevano già lasciato Rodi per l’Italia. Si trattava delle donne e dei bambini del Pentcho.

Cartolina indirizzata a uno degli imbarcati sul Pentcho, diretta a Belgrado, presso la Judisch Stilfbund Schiff “Pencho” – Fonte: G. Manzari, Op. cit. infra

Secondo la ponderosa contabilità dei campi di concentramento baresi di Alberobello e Gioia del Colle in tali campi giunsero da Rodi a Bari, il 12 febbraio 1942, duecento ebrei con le navi Calino e Vesta.(16)
Il 13 febbraio cinque elementi presenti a Rodi, compreso il dentista, misero in atto una fuga verso la non lontana Turchia, utilizzando un’imbarcazione.
Questa, però, risultò avere un buco creato intenzionalmente, e affondò.
Due dei fuggitivi annegarono e gli altri, catturati, furono condannati all’ergastolo e trasferiti nel neo costituito campo di Appolona, situato nella parte opposta dell’isola, rimanendovi sette mesi. Furono poi mandati in Italia in ottobre.
Il 17 febbraio il governo delle Isole, Ufficio Centrale Speciale, nella persona del suo capo, il tenente colonnello dei carabinieri Ferdinando Mittino, restituiva alla C.R.I. alcuni messaggi diretti a internati già partiti per l’Italia.
Il 2 marzo l’ammiraglio Biancheri, da Rodi, inviò a Supermarina Roma il seguente messaggio:
“Domani invierò in Italia trecento ebrei su piroscafo VESTA provvisto sistemazioni salvataggio collettivo et individuale et sistemazioni vita sufficienti. Prego informare eccellenza Campioni”.
Il 4 marzo lasciarono Rodi altri 298 ebrei, con il Vesta, diretto a Bari via Lero. Si trattava degli uomini del Pentcho.
Il Ministero dell’Interno, l’11 marzo, comunicava alla C.C.I.R. che i 200 ebrei erano giunti in Italia ed erano internati nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia.
Il 16 marzo giunsero sempre a Bari altri 294 ebrei provenienti da Rodi.
Il 17 marzo il governo delle Isole trasmetteva alla C.R.I. l’elenco nominativo dei rimanenti ebrei naufraghi partiti per l’Italia il 4 marzo. Il 18 marzo la C.R.I. inviava al Comitato Internazionale la lista dei 200 internati a Ferramonti (lista presente nel fascicolo).
Il 27 marzo la C.R.I. ringraziava il governo delle Isole per l’elenco dei 298 naufraghi partiti per l’Italia il 4 marzo. La lista è presente nel fascicolo.
Durante la permanenza a Rodi si erano avuti i seguenti eventi fra i naufraghi:
– 5 erano stati i morti per cause naturali (vecchiaia) e per malattia;
– 2 morti per annegamento durante un tentativo di fuga;
– 3 rimasti a Rodi per condanna a seguito del tentativo di fuga;
– 1 uomo, rimasto, perché pellicciaio;
– 4 erano i nati a Rodi;
– 2 donne, rimaste per aiutare il pellicciaio o, forse, per matrimonio.(17)
[…] Nel 1943 alcuni internati del Pentcho furono trasferiti a Marano Piave.
Il 27 agosto aerei alleati colpirono un padiglione del campo uccidendo quattro internati (fra cui una donna e un uomo del Pentcho) e ferendone altri undici. Il 14 settembre avanguardie corazzate dell’8a Armata britannica raggiunsero il campo, trasformandolo in campo per Displased Persons. Successivamente il campo fu raggiunto da un piccolo gruppo di soldati e civili dell’AMGOT (Allied Military Governement of Occupied Territories). Il 26 settembre giunsero camion con uomini in uniforme britannica e la scritta “Palestine” sul braccio, fra cui anche Reuven Franco, l’uomo che aveva dato il nuovo nome al Pentcho.(18) Nel maggio 1944, 350 ebrei di Ferramonti, con altri 167 di altri campi (fra cui quello di Campagna, vicino a Salerno) partirono da Taranto per la Palestina. A giugno, da Taranto partì il piroscafo passeggeri polacco Bathory, che trasferì ad Alessandria d’Egitto parte dei passeggeri del Pentcho. Qui giunti furono trasferiti in treno ad Atlit, raggiungendo, quindi, la sospirata Palestina.
Nel 1945, 34 superstiti del Pentcho partirono da Napoli sulla Henry Gibbins per gli Stati Uniti d’America.
Durante la guerra, 10 000 dei 15 000 ebrei della comunità ebraica di Bratislava furono eliminati nei campi di sterminio nazisti […]
(3) Ester Fintz Menascé è autrice del libro Buio nell’isola del Sole, Rodi 1943-1945, Firenze, Giuntino, 1995. Alle pagine 179-181 riporta un articolo di Moise Capelluto, apparso su Los Maestros, n. 19, giugno 1995.
(4) Il colonnello Fanizza, parlando dei piccoli convogli che portarono i soldati italiani a occupare le isole Cicladi e Sporadi dopo la resa della Grecia, accenna alla presenza del piccolo piroscafo Fiume, il cavallo da tiro dell’Egeo; cfr. R. Fanizza, De Vecchi, Bastico, Campioni. Ultimi governatori dell’Egeo, Forlì, S.A.C. Stabilimento Tipografico Valbonesi (s.d., ma prima del 1947), p. 63. A p. 77 riporta la storia del suo armamento con un piccolo cannone, il 16 giugno 1940, e l’affondamento nel settembre 1942.
(5) Fra aprile e settembre del 1939 gli ingressi illegali in Palestina furono circa 11 000.
(6) A Bratislava vi erano circa 20 000 ebrei su 140 000 abitanti.
(7) Sembra che il costo del viaggio si aggirasse sui 100 dollari a testa.
(8) Uno almeno dei fuggiaschi riuscì nel suo intento: si trattava di Jan Guttmann, che raggiunse, a piedi, la Grecia e, dopo la guerra, emigrerà in Canada.
(9) Durante la Campagna di Gallipoli, nella prima guerra mondiale, sul fronte dei Dardanelli era presente un’unità ebrea, il “Zion Mule Corps”.
(10) A seconda delle fonti l’isolotto viene indicato come Khamili, Kamila Nisi, Kamilloni, Camilloni.
(11) Fra la notte del 12 e la notte del 14 si verificarono scontri nel centro dello Ionio e in Egeo fra navi italiane e britanniche che scortavano un convoglio diretto a Malta e altri due convogli, uno da Malta ad Alessandria e uno dall’Egeo all’Egitto, unitisi all’altezza di Gaudo. Il mattino del 13 la portaerei Illustrious, con due incrociatori e quattro caccia, entrò in Egeo per attaccare, con i suoi velivoli, Porto Lago (Lero), le cui infrastrutture furono colpite, verso mezzanotte, da 23 aerei imbarcati con 92 bombe.
(12) Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, il 14 gennaio 1941, chiese all’Ufficio Prigionieri della C.R.I. informazioni sui superstiti, e in particolare su questi cinque. Il 6 febbraio la C.T.O. inviava una specifica richiesta a Rodi e, l’8 marzo, il governo delle Isole italiane dell’Egeo rispondeva alla C.R.I. che i cinque si erano allontanati da Camillonisi con una barca e risultavano successivamente raccolti da una nave sconosciuta e portati ad Alessandria d’Egitto. Ciò corrispondeva a quanto successo. Deve ritenersi che l’informazione al riguardo fosse giunta ai superstiti internati a Rodi.
(13) Il conte Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, quadrumviro della rivoluzione fascista, deputato, sottosegretario nel primo governo Mussolini, fu governatore della Somalia nel 1924. Comandante generale della Milizia. Nel 1929 fu il primo ambasciatore italiano presso la Santa Sede. Ministro per l’educazione nazionale nel 1935-1936, fu governatore delle Isole Italiane dell’Egeo dall’ottobre 1936 al 27 novembre 1940. Solo nel marzo 1939, richiamato da Roma, emise l’esplicito decreto richiesto per l’applicazione, anche nel possedimento, delle leggi razziali; come conseguenza, il comandante militare marittimo, ammiraglio Ascoli, fu richiamato in Patria. Nominato generale dell’Esercito, alla data dell’armistizio comandava la divisione costiera responsabile della difesa della costa toscana a cavallo di Piombino.
(14) Nata il 1° dicembre 1939, operò dal 1939 al 1947.
(15) La motonave requisita Calino (5186 tsl), della Società di Navigazione Adriatica, a partire dal 1° dicembre 1940 effettuava viaggi di collegamento fra l’Italia e Rodi, trasportando personale, combustibile e viveri. Nel viaggio di ritorno trasportava anche prigionieri. Quello in argomento era il tredicesimo viaggio. Il 10 gennaio 1943 urtò una mina di uno sbarramento italiano e affondò circa 3 miglia a nord est di Capri.
(16) La notizia relativa al Vesta non è corretta. Cfr. V.A. Leuzzi, M. Pansini, F. Terzulli, Fascismo e leggi razziali in Puglia, Bari, Progedit, 1999, p. 148.
(17) A Rodi rimasero Sidney Fahn, con la giovane moglie, il fratello di uno dei due e un loro figlio appena nato. Tutti furono deportati assieme alla comunità ebraica dell’isola, che, assieme a quella più piccola di Coo, fu una delle ultime a essere deportata dai tedeschi nei campi di sterminio, venendo quasi distrutta. Nella recente produzione bibliografica sull’argomento sembra quasi che gli italiani siano stati i responsabili di quanto accaduto, ma, in effetti, gli italiani, specie i militari (compreso l’ammiraglio Campioni e l’ammiraglio Mascherpa, difensore, fino a metà novembre 1943, di Lero), furono essi stessi vittime degli eventi e dei tedeschi.
(18) Soldati ebrei hanno combattuto nei vari reparti degli eserciti alleati impegnati nella Campagna d’Italia. Reparti specifici parteciparono alle operazioni nell’Esercito britannico. Già dal 1941, il Comando britannico del Medio Oriente accettò il reclutamento volontario individuale di arabi ed ebrei di Palestina, che furono inseriti nelle varie unità dell’Esercito, confluendo, successivamente, nel Palestine Regiment. Furono anche costituite piccole unità ausiliarie specializzate (PLUGOT) da impiegare nei specifici compiti ove esse erano necessarie. Ognuna di esse comprendeva circa 250 uomini, che sulla spalla portavano la dicitura PALESTINE. Tali unità furono impiegate anche in
Italia, prima della costituzione della Brigata ebraica. Alcune delle unità si distinsero nelle attività assistenziali a favore dei profughi ebrei non italiani che si trovavano in Italia. In Sicilia sbarcò una piccola unità di tale tipo, la 20th Map Depot. A Salerno sbarcò un distaccamento della 148a Compagnia autocisterne-acqua, che rifornì anche Napoli. Successivamente giunsero altre “compagnie autotrasporti”, che furono le prime a incontrare profughi ebrei presenti in Italia meridionale (specie a Ferramonti).
Giuliano Manzari, Il salvataggio di naufraghi ebrei nelle Isole Italiane dell’Egeo. L’avventura del Pentcho, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare – Giugno 2013

Bratislava capitale del neonato stato Slovacco, era sede di un importante porto fluviale sul Danubio e nella città era attiva una sezione del Betar sostenuta dalla N.Z.O. Nel corso del 1939 i suoi dirigenti affidarono a due giovani, Zoltan Schalk e Alexander Czitrom l’incarico di acquistare una nave e di organizzarne l’equipaggio, per portare fuori dal paese il maggior numero di ebrei possibile.
La partenza sarebbe dovuta avvenire nell’agosto del 1939, ma numerose difficoltà ritardarono di qualche mese la realizzazione del progetto. Solo nell’inverno del 1939, infatti, un agente bulgaro della N.Z.O – Reuben Franco – potè acquistare nel porto sul Danubio della città rumena di Braila, il piroscafo Stefano adibito in precedenza al trasporto di animali.
L’imbarcazione fu registrata presso la capitaneria di porto bulgara come Pentcho che era il nome di battaglia di Franco; su di essa dovettero essere eseguiti numerosi e costosi lavori di riadattamento, che però non riuscirono a renderla adeguata al viaggio che avrebbe dovuto affrontare fin dal suo spostamento. Per raggiungere Bratislava dal porto in cui era ancorata, infatti, la nave avrebbe dovuto risalire il Danubio ed affrontare le gole denominate Porte di ferro, al confine tra la Serbia e la Romania. Le autorità internazionali preposte al controllo della navigazione ritenevano quel passaggio troppo pericoloso, e solo a fatica Schalk riuscì a vincere la loro opposizione alla partenza ed a far arrivare la nave nel porto dove era attesa.
Nel frattempo Czitrom raccoglieva il gruppo dei partenti, che risultò composto da 407 persone, un numero già troppo elevato rispetto a quello che la nave avrebbe potuto ospitare. I passeggeri erano muniti di passaporti per l’Europa, l’Asia, di certificati per entrare nell’allora Palestina e di un permesso collettivo falso per il Paraguay.
Ultimate le operazioni di imbarco, il Pentcho lasciò Bratislava il 18 maggio del 1940.
Non erano solo le cattive condizioni del natante ad ostacolare l’impresa. L’Inghilterra, perfettamente informata del fatto che il Danubio costituiva una via di fuga degli ebrei dall’Europa verso la Palestina, faceva infatti pressione sui paesi balcanici affinchè fermassero le navi che li trasportavano, se battenti bandiera di un paese rivierasco.
Il governo del primo paese attraversato, l’Ungheria, obbedì a questa richiesta e il Pentcho, giunto a Mohacs, dovette bloccarsi.
Furono le autorità fluviali, anche a seguito dell’intervento dei rappresentati della locale Comunità ebraica, a far rispettare le regole dell’internazionalizzazione del Danubio ed a fare in modo che la nave venisse scortata dalla stessa marina ungherese fino porto jugoslavo di Bezdani.
Qui avvenne l’incontro con un gruppo composto da 101 ebrei polacchi, tedeschi, austriaci i quali erano stati liberati da Dachau a patto che lasciassero la Germania nel più breve tempo possibile. Questi si aggiunsero ai passeggeri già presenti sulla nave, che diventarono, secondo un rapporto inviato da Czitrom alla N.Z.O. di Bucarest.
Rifornimenti di acqua e viveri non mancarono, grazie agli aiuti forniti dalla Comunità israelitica della città, ma si pose il problema del passaggio attraverso le Porte di Ferro per il quale la Commissione internazionale per la navigazione sul Danubio – che temeva che un eventuale naufragio della nave all’interno della strettoia avrebbe provocato l’interruzione della navigazione sul fiume – negava decisamente il permesso. Il Pentcho potè ripartire solo quando il governo di Belgrado inviò un rimorchiatore che scortò la nave attraverso quelle pericolose gole.
Superato questo ostacolo, rimanevano da percorrere il fiume lungo i tratti rivieraschi appartenenti alla Romania ed alla Bulgaria. Entrambe le nazioni erano fortemente ostili all’impresa e cercarono di bloccarla in tutti i modi, principalmente impedendo che la nave ricevesse i rifornimenti che le erano necessari. Il momento più drammatico fu vissuto a Vidin, in Bulgaria: una commissione militare privò la nave della bandiera, lasciandola in uno stato di totale abbandono, tra il porto rumeno di Giurgiu e quello bulgaro di Rushtuk. A quel punto ai migrati non restò altro da fare che innalzare una sorta di bandiera con una grande croce rossa dipinta sopra e, accanto, uno striscione con con su una scritta con la quale si chiedeva aiuto. Più praticamente, qualche giorno dopo, tre giovani lasciarono la nave, attraversarono il fiume a nuoto e, dopo varie peripezie, raggiunsero clandestinamente la città di Rutshuk.
Qui, grazie all’intervento del vescovo presso le autorità locali, riuscirono ad ottenere che la Comunità ebraica della città rifornisse la nave di viveri. A quel punto anche dalla parte rumena arrivarono acqua, carburante ed altri viveri.
Il viaggio potè quindi proseguire, se pure fortunosamente, fino al Mar Nero.
Il 14 settembre 1940 il Pentcho attraccò nel porto di Sulina in Turchia, dove rimase per una settimana.
Superati gli Stretti sotto la scorta di navi turche, la nave tentò di raggiungere il Pireo, ma, intercettata dalla marina greca, fu condotta nel porto di Mitilene, sull’isola di Lesbo dove ai migranti fu consentito di rifocillarsi e riposare.
La Grecia, tuttavia, non poteva farsi carico a lungo della loro presenza, sia per la crisi economica che l’attanagliava, sia perché presa dai preparativi per contrastare l’attacco italiano ritenuto ormai imminente.
Celebrata la Pasqua, la nave riprese il viaggio, dirigendosi verso le isole del Dodecanneso ed entrando, nei primi giorni del mese di ottobre 1940, in acque territoriali italiane presidiate dalla Marina Militare.
Immediatamente intercettata da due MAS, fu scortata, stando ad alcune testimonianze orali, in modo da farle evitare zone minate e avviata verso il male aperto.
Esiste invece documentazione scritta del fatto che, prima di ripartire, essa fu sottoposta a fermo e controlli sull’isola di Stampalia.
Appurato che si trattava di un “mercantile” che trasportava – secondo quanto scrisse De Vecchi, in quel periodo governatore civile e militare di Rodi – “soliti ebrei vaganti nel Mediterraneo verso la Palestina”, la nave fu fatta ripartire il 7 ottobre, nonostante che le macchine fossero ormai al limite, l’equipaggio insufficiente e i passeggeri in evidente stato di prostrazione.
Poche ore dopo la partenza la nave si incastrò sugli scogli di un isolotto disabitato – Camilloni, oggi Kamilonisi – a 35 miglia a Nord di Creta e a circa 60 a Ovest di Rodi.
Non ci furono danni alle persone: i naufraghi ebbero il tempo di mettere in salvo i bagagli e qualche provvista, dopo di che il Pentcho affondò.
I soccorsi arrivarono dopo pochi giorni, nonostante i bombardamenti che avevano infuriato sul Dodecanneso: gli inglesi individuarono i naufraghi, avvisarono la Croce Rossa internazionale che, a sua volta, si mise in contatto con Rodi.
A De Vecchi che il 15 ottobre chiedeva a Roma istruzioni su come procedere, facendo notare che “viveri in Egeo sono strettamente razionati”, lo Stato Maggiore rispose autorizzando il soccorso ai “500 ebrei naufraghi” ma rassicurando il governatore sul fatto che il Ministero degli Affari Esteri avrebbe chiesto alla Bulgaria – nazione della quale il Pentcho portava la bandiera – di provvedere al reimbarco.
Una nave della Marina, il “Camogli”, comandata dal nocchiere di prima classe Carlo Orlandi, raggiunse l’isolotto il 18 ottobre ed iniziò le operazioni di soccorso che andarono avanti per due giorni. Il 20 ottobre tutti i naufraghi erano stati trasportati a Rodi e ricoverati sotto tende montate in tutta fretta nel campo sportivo.
Nei giorni immediatamente successivi, mentre il governo italiano inviava l’ultimatum alla Grecia, De Vecchi continuò ad insistere con Roma perché i naufraghi fossero portati via dall’isola.
Il tentativo di coinvolgere il governo bulgaro ben presto fallì, come quello di chiedere il rimpatrio dei profughi alla Slovacchia ed alla stessa Germania, paesi dai quali la maggioranza di essi proveniva. ii
Nella discussione fu coinvolto anche il Ministero dell’Interno al quale – viste le difficoltà di trasporto opposte in particolare dal governo tedesco all’eventualità di trasferire altrove gli ebrei naufraghi – il Ministero degli Affari Esteri cominciò a ventilare l’ipotesi di un loro spostamento in Italia.
Nell’attesa che la questione si risolvesse, i profughi vennero trasferiti nel campo di San Giovanni, alle porte della città di Rodi, dove fu loro applicato lo stesso regolamento in vigore per i prigionieri egei politicamente sospetti che vi erano stati rinchiusi all’inizio delle ostilità tra l’Italia e la Grecia.
La vigilanza interna al campo era affidata ai carabinieri, il controllo esterno al 201° battaglione camicie nere. Il regolamento stabiliva che non si poteva lasciare il campo per nessun motivo, né avere comunicazioni con l’esterno senza il preventivo assenso del Comandante dei carabinieri. Assolutamente vietato il contatto con i prigionieri politici. Nessuno scritto poteva entrare o uscire dal campo senza nullaosta o verifica dell’Ufficio Polizia.
Le razioni alimentari furono fin dall’inizio scarse, ridotte rispetto a quelle assegnate al resto della popolazione e, tra l’altro, accantonate solo per quattro settimane, nella convinzione, rivelatasi presto errata, che tanto sarebbe durata la permanenza dei naufraghi sull’isola.
Due mesi dopo il naufragio De Vecchi lasciò l’isola, sostituito da Ettore Bastico che rimase in carica fino al luglio del 1941, quando fu nominato governatore della Libia. Gli successe l’ammiraglio Inigo Campioni che dovette affrontare una situazione molto difficile, sia dal punto di vista militare – numerosi, in quel periodo, i bombardamenti da parte inglese – che da quello alimentare.
I naufraghi trascorsero l’inverno sotto le tende, quasi privi di vestiario e coperte, mentre l’ammiraglio continuava a denunciare a Roma quanto la loro presenza incidesse sul consumo delle riserve alimentari dell’isola.
Le organizzazioni assistenziali ebraiche, in primo luogo la DELASEM, per quanto si impegnassero, non riuscivano a rispondere completamente alle esigenze dei profughi che, anzi, si sentivano più sostenuti dalle guardie e dagli abitanti del luogo che dalla loro opera. In particolare alla DELASEM veniva rimproverato il fatto che limitasse il proprio ruolo esclusivamente alla trasmissione degli scarsi aiuti economici che i familiari spedivano ai naufraghi e il fatto che non agisse con più determinazione per consentire ai naufraghi di ripartire verso la loro meta.
Per molti dei naufraghi Rodi rappresentava solo una tappa – indesiderata – del viaggio iniziato a Bratislava. Per questo motivo, pur nelle condizioni disagiate e a tratti disperate che bisognava affrontare quotidianamente, continuava la ricerca di interventi che avrebbero dovuto consentire loro di lasciare l’isola per dirigersi di nuovo verso la meta prestabilita, cioè l’allora Palestina.
A tener viva questa idea era Alexander Czitrom che, nonostante le limitazioni imposte dalla censura, riusciva a tenersi in contatto con i rappresentanti a tutti i livelli del movimento revisionista.
Le risposte che riceveva erano, però, scoraggianti. Veniva ritenuto del tutto inutile, infatti, sperare in un rilascio da parte della Gran Bretagna di certificati di emigrazione da distribuire a tutti i naufraghi, anche in considerazione del fatto che quelli distribuiti negli anni precedenti erano rimasti inutilizzati da chi li aveva ricevuti, vista l’impossibilità di lasciare l’Europa a causa della guerra.
Una valutazione molto chiara dell’impossibilità di riprendere il viaggio si ritrova in una lettera inviata da Vittorio Valobra, segretario della DELASEM alla sezione della HICEMiii di Bratislava.
In essa vengono esposte innanzitutto le difficoltà insormontabili che rendono del tutto inattuabile una iniziativa di immigrazione illegale (Aliyà bet).
Di seguito Valobra accenna ad un progetto di emigrazione legale, secondo il quale si sarebbe potuto tentare di trasferire i naufraghi in Turchia, nazione neutrale da cui – ammesso che con qualche stratagemma si fosse potuto dimostrare che i naufraghi vi avessero sempre risieduto – si pensava che sarebbe stato più facile ottenere i certificati di immigrazione per tutti.
Anche questo progetto, concludeva lo scrivente, si era rivelato ben presto del tutto impraticabile. La lettera fu inviata anche al campo di Rodi, ma non bastò a scoraggiare Czitrom.
Tutte le sere – secondo quanto veniva riferito a Mittino, il capo dell’Ufficio Centrale Speciale dei carabinieri a Rodi – parlava ai compagni per tener viva la loro fede nel domani e chiamava infedeli coloro che volevano rinunciare al proposito di proseguire per la Palestina quando sarebbe presentata l’opportunità favorevole. Non tutti condividevano questi continui appelli, per cui nel campo si viveva anche un clima di discordia. Tra l’altro si ignorava il fatto che le trattative per l’allontanamento dall’isola di tutto il gruppo iniziate da De Vecchi nell’ottobre del 1940 non erano state mai interrotte […]
Redazione, Bratislava – Rodi – Ferramonti in Ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico (a cura di) Anna Pizzuti

[…] Pentcho era il nome del battello. Legno, ruggine e due gigantesche, sgangherate, buffissime ruote a pala sui fianchi. Ispirava tutto fuorché solidità. Nel maggio del 1940, durante l’occupazione tedesca, cinquecento ebrei – cechi, slovacchi, polacchi – decisero di salirci sopra lo stesso, al porto di Bratislava. L’idea era quella di navigare il Danubio fino al Mar Nero, dove li attendeva un’imbarcazione più grande che li avrebbe portati nella Palestina mandataria. Le cose non andarono esattamente così. Il Pentcho impiegò cinque mesi per scendere il fiume, tra blocchi, malfunzionamenti, mancanza di rifornimenti, malattie, incidenti. Quando arrivò a Sulina, la nave che li doveva raccogliere non c’era più. Decisero di affrontare il mare. Il battello finì per arenarsi su un’isola greca deserta, Camilonisi. E dopo dieci giorni, i naufraghi, ormai allo stremo, vennero salvati da una nave militare italiana, il Camogli. Furono portati a Rodi, territorio dell’Italia fascista, e internati un campo. E poi vennero trasferiti a Ferramonti di Tarsia, in Calabria, in un altro campo. Ma si salvarono tutti.
[…] Quella del Pentcho è una storia incredibile – di disperazione, di coraggio, di perseveranza – che viene voglia di ascoltare cento volte. Anche se si conosce il finale. Il regista Stefano Cattini ne ha fatto un capolavoro, intimo e coinvolgente. Il suo Pentcho, uscito nel novembre 2018, è un docu-film che dovrebbe circolare in tutte le aule di scuola. Che dovrebbe essere disponibile su tutte le piattaforme streaming e on demand (purtroppo non è così). Domani, alle 16, verrà proiettato al Salone degli Affreschi della Società Umanitaria (via San Barnaba 48). E ne seguirà un dibattito con il regista. Cattini ha ripercorso la rotta del Pentcho e incontrato i protagonisti, molti dei quali vivono oggi in Israele. Di uno in particolare, Karl, oggi novantenne, parla come si parla di un padre. Nel film è fissato il momento in cui Karl gli consegna del materiale che sarà poi utile per girare, con uno sguardo misto di orgoglio e stupore per l’interesse verso una storia che, fino a lì, nessuno era andato a cercare. «Quando gli ho spiegato il mio progetto – racconta il regista parmigiano -, Karl mi ha detto che avrei dovuto piuttosto concentrarmi sui marinai italiani che li avevano salvati, uomini che meritavano di essere finalmente ricordati». C’è voluto un po’ per convincerlo. «L’ho invitato a Parma – continua Cattini – ed è arrivato dall’aeroporto accompagnato in macchina da un amico. Hanno pagato mezz’ora di parcheggio. Invece sono rimasti fino a sera. Salutandomi, ha detto che lui aveva ormai 90 anni e che forse, sì, quello era il modo giusto per passare il testimone, consegnare la sua memoria». Il Pentcho è così ripartito, sulla pellicola del film. Ottanta minuti che fanno bene. E che restano.
Barbara Uglietti, Il docu-film. Il viaggio degli ebrei del «Pentcho» e l’avventura della testimonianza, Avvenire.it, 5 febbraio 2020

Il 29 settembre scorso il Presidente della Repubblica Slovacca, Andrej Kiska, ha concesso la medaglia commemorativa in memoriam al capo nocchiere Carlo Orlandi. Il marinaio napoletano è stato insignito di questa importante onorificenza grazie agli sforzi dell’ambasciata slovacca che lo ha riconosciuto degno di tale onorificenza per l’opera di salvataggio che l’Orlandi svolse nell’ottobre del 1940. Principale motore per questo riconoscimento è stata la pubblicazione del volume Il viaggio del Pentcho – Le anime salvate (di E. Tromba – S.N. Sincroni – A. Sorrenti). Il volume, curato dal centro studi ebraici Beth Midrash e presentato nella primavera dello scorso anno presso l’Ambasciata slovacca in Roma, racconta la storia di oltre 500 ebrei dell’Europa centrale che, per sfuggire alle persecuzioni naziste, affrontarono un viaggio in battello per giungere in Palestina, nella terra dei Padri. Pentcho era il nome del battello fluviale che questo gruppo di profughi, prevalentemente slovacchi, ma anche cechi, slavi, rumeni, tedeschi, austriaci e polacchi, aveva recuperato per iniziare quel folle viaggio. Scendendo lungo il Danubio, avrebbero raggiunto il Mar Nero, poi l’Egeo ed infine in Israele. Il viaggio fu, però, estremamente difficoltoso e tribolato per diversi motivi. I vari Paesi attraversati raramente diedero un aiuto: alcuni per paura delle repressioni naziste, altri per timore di quelle inglesi; inoltre il carico umano superava abbondantemente il limite previsto; le condizioni igienico sanitarie diventavano sempre più precarie. Infine, una volta giunti in mare aperto, la situazione peggiorò ulteriormente visto che si trattava di un battello fluviale. Fu così che il Pentcho nell’ottobre del 1940, dopo cinque mesi di navigazione e di stenti, naufragò su un isolotto sperduto del mar Egeo. Gli oltre 500 ebrei naufraghi furono tratti in salvo dalla nave della Reale Marina Italiana, Camogli, guidata dal comandante Carlo Orlandi. La Camogli raggiunse l’isola di Rodi e gli sventurati si ritrovarono internati in un campo di concentramento. Dopo oltre un anno riuscirono in due momenti distinti, con un altro lungo viaggio, a giungere a Bari ed essere internati al Campo di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza. Il libro offre al lettore l’opportunità di avere uno spaccato esatto e dettagliato della vita a Ferramonti. La presenza di decine di documenti riprodotti, lascia intendere il lavoro di ricerca che sta alla base della stesura del volume. Il viaggio del Pentcho si inserisce in un filone di ricerca ancora più vasto, iniziato con la pubblicazione (sempre degli stessi Autori) del libro Il Kaddish a Feramonti – Le anime ritrovate. Questa prima pubblicazione aveva ritrovato i documenti d’archivio di quanti avevano perso la vita a Ferramonti, iniziando a delineare la vita che si svolgeva nel campo di concentramento. Con Il viaggio del Pentcho continua questo percorso di conoscenza ed approfondimento de più grande campo di concentramento per ebrei stranieri costruito dal regime fascista. Corollario importante dell’opera è la presenza dei tantissimi documenti che gli Autori hanno rinvenuto principalmente presso l’Archivio centrale di Stato di Roma, ma anche presso vari archivi della provincia di Cosenza. La tematica affrontata nel volume è, inoltre, strettamente attuale perché si colloca in un panorama ed in un quotidiano che è molto simile a quello raccontato nel libro: allora come oggi gli uomini della Marina Italiana salvano vite in mare, senza distinzione di colore, etnia o religione. Allora come oggi, altre navi di altri stati avrebbero potuto fare qualcosa, ma solo la marina Italiana intervenne e salvò dalla morte oltre 500 uomini, donne e bambini. Dovremmo essere portavoce presso le Istituzioni statali affinché venga riconosciuto un’onorificenza. Oserei andare oltre: penso che sia doveroso riflettere con noi stessi e porci questa domanda: ma se salvare una vita significa salvare il mondo, cosa significa salvarne oltre 500? È giusto che questo atto meriti un riconoscimento a Yad Vashem. Ma il Pentcho è strettamente legato anche alla Comunità ebraica di Roma, anche se apparentemente non sembrerebbe, dato che si parla di ebrei mitteleuropei… Nella navigazione del Pentcho, quando il battello incontrò il confine tra Romania e Bulgaria si trovò in grande difficoltà. Leggendo con attenzione questo passaggio si scopre che gli ebrei furono aiutati da un vescovo e da un rabbino, il nome del rabbino è Naftali Roth. Per una strana coincidenza quel rabbino era il nonno di rav Riccardo Di Segni. L’altro importante avvenimento è che coloro che provenivano dal Pentcho, una volta giunti a Ferramonti, aprirono una nuova sinagoga, la terza, dove per ben due volte il rabbino capo di Genova, Riccardo Pacifici, si recò in visita per celebrare matrimoni e bar mitzva. Infine, tra coloro che, imbarcati sul Pentcho, troveranno la morte, compare Wald Schachne. Egli si fermerà per poco a Ferramonti, perché si ricongiungerà con il figlio Pesach a Roana. Dopo l’8 settembre entrambi si recheranno a Roma e lì verrano arrestati e uccisi alle Fosse Ardeatine. Inizialmente sarebbe stato difficile ricondurre il Pentcho alla realtà romana, ma rileggendolo con attenzione è chiaro come questa avventura appartenga alla Comunità ebraica. Una domanda spontanea: perché ancora silenzio su avvenimenti così importanti? Fortunata questa nuova generazione che ha l’opportunità di conoscere dopo 75 anni cose che non erano state ancora svelate […]
Redazione, Il viaggio, l’eroismo, le anime salvate del Pentcho, moked, 7 marzo 2017

Una risposta a “Quegli ebrei sul Pentcho in cerca della salvezza”

  1. Esiste un bellissimo libro su questa storia scritta dal regista e scrittore slovacco Jaro Rihak nel 2015. Il libro “Pentcho, príbeh parníka “
    ( Pentcho, la storia di un battello) purtroppo ancora non tradotto in lingua italiana , rimane così sconosciuto al interesse del grande pubblico italiano.

I commenti sono chiusi.