Roma e Madrid erano all’avanguardia nella elaborazione e nella ricezione delle politiche culturali comunitarie

Nell’aprile del 2019 il più antico giornale francese, Le Figaro, ospitava un’analisi di Klaus Geiger, editorialista del quotidiano tedesco Die Welt. Oggetto dell’inconsueto intervento era un’analisi delle antinomie che frenavano il processo d’integrazione europea. La diagnosi prendeva le mosse dalla riscoperta delle virtù del «sentiment national» («une success story», si assicurava), da cui l’autorevole commentatore traeva un invito diretto ai governi del Vecchio continente, chiamati a costruire su tale modello «un sentiment national européen» <904. In altri termini, spiegava, «l’Europe doit développer une identité à l’échelle du continent, de la même manière que l’identité nationale est apparue au XIXe siècle» <905.
In realtà, come è emerso dalla prima parte della presente ricerca, il sillogismo evocato da Geiger non costituiva un elemento inedito in seno al dibattito sulla costruzione europea: i primi tentativi di rafforzare la dimensione culturale risalivano infatti agli anni Settanta, quando le autorità europee promossero le prime episodiche azioni dirette a corroborare l’immaginario collettivo europeista attraverso simboli, progetti in ambito musicale e iniziative volte ad accentuare la circolazione dei beni culturali, fino a giungere, nel 1984, alla formalizzazione del Consiglio dei ministri europei della Cultura. In seguito, il ventaglio dell’offerta culturale comunitaria si sarebbe ampliato dal punto di vista qualitativo così come sotto il profilo quantitativo, con l’introduzione del programma di Città europea della cultura, implementato su proposta greca, e con l’avvio del progetto Erasmus, che nel medio-lungo periodo avrebbe contribuito in misura notevole alla fermentazione dei primi germogli del senso di appartenenza europeo tra le giovani generazioni.
Ciò nonostante, il panorama complessivo palesava le perduranti vischiosità dell’azione culturale promanante delle autorità di Bruxelles. Nel 1992, introducendo per la prima volta la cultura nel novero delle competenze comunitarie, il Trattato di Maastricht segnò il passaggio da attività molteplici ma disorganiche a una pianificazione più adatta a soddisfare le ambizioni di un autentico progetto di ingegneria sociale. Tuttavia, benché fosse ormai pienamente accreditata sotto il profilo giuridico, nel campo delle politiche culturali la valenza periodizzante del Trattato sull’Unione europea non potè comunque obliterare i vistosi tratti di continuità con la stagione precedente, giacché i limiti di tale impegno continuavano pur sempre a manifestarsi in maniera evidente: si trattava di carenze di disponibilità economica, innanzitutto, ma anche di ostacoli di natura politica, come dimostravano le continue resistenze dei Paesi del Nord Europa (Gran Bretagna, Germania e Olanda su tutti), ostili a cedere alle istituzioni sovrannazionali poteri effettivi in un ambito, quello culturale, suscettibile di delicate ripercussioni sulle coordinate identitarie nazionali. Così, a titolo d’esempio, lo scetticismo tedesco contribuì in maniera significativa al ridimensionamento del progetto di canale televisivo paneuropeo, Euronews, mentre la diffidenza britannica causò il procrastinare dell’avvio del programma Raffaello, dedicato alla promozione dei beni culturali su scala continentale.
L’analisi comparata permette di individuare nella sfera dell’azione culturale dell’UE una sorta di cartina al tornasole della dialettica interna alle istituzioni comunitarie, poiché anche in questo settore la cautela degli Stati nordici faceva da contraltare all’appassionata adesione dei Paesi latini, manifestatasi in misura ricorrente: il progetto di Città europea della cultura ricevette infatti nuovo impulso dall’edizione madrilena del 1992 (in quello che divenne ben presto l’annus mirabilis della Spagna), mentre le reti televisive pubbliche di Francia, Italia e Spagna furono le principali fautrici del progetto Euronews. E se l’ostilità alla legislazione sull’esportazione dei beni artistici e museali espressa dall’asse dei Paesi mediterranei (in primis Italia e Grecia), contrapposti all’orientamento ultraliberista anglosassone, introduceva delle sfumature nel generale clima di tripudio, permettendo di apprezzare la tenue sussistenza dei motivi riconducibili alla difesa dell’interesse nazionale, d’altra parte l’entusiastico coinvolgimento di Roma e di Madrid rivelò ancora la sua importanza nel corso della faticosa gestazione del primo grande progetto-quadro attivato da Bruxelles in ambito culturale, articolato nei tre programmi Arianna, Caleidoscopio e Raffaello.
Al netto della reciproca e indiscutibile interazione tra i due piani, è arduo stabilire con precisione categorica in che misura gli orientamenti interni ai singoli Stati abbiano influito sulla pianificazione comunitaria, e quanto sia stata invece quest’ultima a modellare l’opinione pubblica dei Paesi membri. Seppur tenendo in conto tale doverosa premessa, una ricognizione a volo d’aquila sembra comunque suggerire la prevalenza della prima casistica: ancor più della programmazione culturale imbastita a Bruxelles, rispetto alla quale presentavano finalità convergenti, erano le disposizioni emotive e gli orientamenti politici presenti a livello intranazionale a provocare gli effetti più significativi sull’opinione pubblica. Tanto in Spagna come in Italia la pietra angolare della strategia culturale europeista era costituita dall’elaborazione teorica delle culture politiche maggioritarie, a propria volta intimamente connessa alle riflessioni maturate in seno alla classe dirigente economica.
A tale proposito, il sondaggio degli atti parlamentari e l’analisi delle dichiarazioni registrate dalla stampa periodica e dalle tribune televisive ha permesso di confermare la tesi interpretativa avanzata a suo tempo da Barbara Sassatelli <906. A partire da un caso di studio specifico quale l’organizzazione della città europea della cultura a Bologna, nel 1999, quest’ultima aveva sottolineato la pervasività della logica del framing europeista, tesa a ricondurre le diverse posizioni ideologiche e le più svariate iniziative culturali all’insegna della comune cornice rappresentata dall’entusiasta adesione all’orizzonte di senso comunitario. Sotto questo aspetto, i percorsi di Italia e Spagna presentano considerevoli caratteristiche comuni, nelle quali è possibile riscontrare un fenomeno di «europeizzazione» rigida e flessibile allo stesso tempo: rigida in quanto la cornice, il frame, non era mai messo in discussione, flessibile perché all’interno del riferimento comune c’era spazio per sensibilità e inclinazioni diverse, che spaziavano dagli empiti centrifughi di catalanisti e fautori dell’indipendenza padana («l’Europa dei popoli») alle ambizioni modernizzatrici dell’arcipelago progressista, fosse esso rappresentato dal PSOE o dall’Ulivo («l’Europa» come traguardo salvifico).
Alla luce di questi motivi di fondo, senza dubbio condizionanti il dibattito pubblico e le concrete azioni culturali, non ci si può dunque stupire nel rilevare come Roma e Madrid si trovassero all’avanguardia nella elaborazione e nella ricezione delle politiche culturali comunitarie: più che dalle continue suggestioni facenti capolino nelle pagine della manualistica scolastica, la testimonianza più evidente di tale ruolo da capofila è plasticamente rappresentata dalla classifica dei Paesi beneficiari dei progetti Arianna, Raffaello, Caleidoscopio ed Erasmus, per i quali i due Stati latini figuravano costantemente nella zona di vertice. D’altronde, tale scenario veniva confermato dalla scarsa fortuna dei tentativi di mobilitazione in senso euroscettico caldeggiati da Fernando Sánchez Dragó in Spagna e da Ida Magli in Italia, rivelatisi poco più che testimonianze catacombali, per nulla in grado di incidere nella fenomenologia del genius sæculi.
Questa tensione condivisa nei confronti dell’approdo alla moneta unica celava comunque delle divergenze di metodo e di contenuto. All’europeismo ortopedico del «vincolo esterno», caratterizzante il panorama politico italiano, faceva infatti da contraltare l’ottimismo modernizzatore interiorizzato dalle principali culture politiche iberiche, che nel traguardo comunitario scorgevano la catarsi rispetto a una storia di declino cominciata un secolo prima, con il proverbiale “Desastre de 1898”. Anche le modalità e gli strumenti attraverso i quali perorare le ragioni del progetto comunitario tra le masse differivano: se nel caso spagnolo spiccava il protagonismo del Ministerio de Cultura (a prescindere dallo spostamento degli equilibri parlamentari), cui si accompagnava la contemporanea latitanza delle organizzazioni non governative europeiste, la situazione italiana rappresentava elementi distintivi di segno opposto.
Nel corso degli anni Novanta la funzione del Ministero dei Beni culturali, sulla cui efficenza pendeva già l’ipoteca della propria natura ibrida, veniva ulteriormente erosa dal continuo avvicendarsi delle compagini di governo; in un Paese in cui l’europeismo affondava le sue radici in profondità, il ruolo dei movimenti europeisti risultò invece assai notevole, specie per quanto riguardava la creazione di reti, rapporti e legami intellettuali <907.
Può forse risultare eccessivo individuare nella fine del Ventesimo secolo il sorgere di una vera e propria religione civile europeista sulla base della sola analisi delle politiche culturali. Eppure, estendendo la prospettiva alle narrazioni invalse nei due Paesi, prime fra tutte la più imponente campagna di comunicazione pubblica dal dopoguerra, quella della moneta unica, assume tratti piuttosto definiti l’ipotesi di una progressiva europeizzazione delle masse, intesa come fenomeno di risignificazione dell’identità nazionale in senso europeista. Un fenomeno, questo, divenuto pervasivo al punto da tracimare dal dominio della pubblica opinione allo status di (pressoché) unanime convinzione, in Spagna come in Italia. Del resto, tale interpretazione viene suffragata con ilcrisma delle statistiche ufficiali: le elaborazioni dell’Eurobarometro relative al 1999 assegnarono ai due Paesi la palma del più convinto sentimento di appartenenza europea tra i soci comunitari (con la sola eccezione di un caso meno rappresentativo, quello del Lussemburgo) <908.
Il nuovo millennio si apriva all’insegna di un preciso motto coniato in sede comunitaria, quello dell’«unità nella diversità». Nella terza sezione della ricerca si è cercato di sottoporre a un rigoroso lavacro critico tale proclama di massima, cercando di capire se, e in quali maniere, il comune percorso di europeizzazione vissuto a fine secolo dai due Paesi presi in esame avesse influito sullo stato dei loro rapporti bilaterali. Le risultanze attestano che la cornice europea non giovò al rafforzamento della collaborazione italo-spagnola. Tutt’altro: seppur accomunate dall’adesione al progetto europeo, Roma e Madrid ostentavano un complesso di superiorità reciproco, ulteriormente esacerbato dalla rincorsa verso il traguardo della moneta unica, come è testimoniato dalle rappresentazioni veicolate dai principali mezzi di comunicazione, oltre al noto dissidio emerso tra Romano Prodi e José María Aznar nel 1996.
In un quadro complessivo improntato al chiaroscuro, anche i rapporti di cooperazione culturale, che pure vantavano una tradizione ultratrentennale, misero allo scoperto noncuranza e disinteresse, quando non aperta perplessità. Così, se l’Italia e la Spagna avevano ormai introiettato la dimensione europeista nel proprio orizzonte di senso, a livello bilaterale l’antico paradigma dell’«indifferenza simpatica» tendeva a lasciare spazio alla diffidenza reciproca.
In fondo, era un’altra declinazione della «unità nella diversità», ma a differenza dell’escatologia laicista promossa dall’UE e dai Governi nazionali essa rimandava al versante umbratile del percorso d’integrazione europea: quello delle sue aporie.
[NOTE]
904 Klaus Geiger, Osons construire un sentiment national européen, «Le Figaro», 14.04.2019.
905 Ibidem.
906 Barbara Sassatelli, Identità, cultura, Europa. Le “Città europeee della cultura”, FrancoAngeli, Milano, 2005, p. 182 e ss.
907 A titolo esemplificativo, si consideri qui il caso della Società europea di cultura, che annoverava tra le proprie fila protagonisti della vita culturale dall’affiliazione ideologica differente, ma dal comune sentire europeista, come
Giuseppe Galasso, Massimo Cacciari, Vincenzo Cappelletti.
908 European Commission, Eurobarometer. Report Number 52, Brussels 2000.
Matteo Giurco, L’europeizzazione delle masse: politiche culturali e narrazioni d’Europa in Italia e in Spagna, 1992-1999, Tesi di dottorato, Universidad Complutense de Madrid, 2021