Scrivere come donna negli anni del secondo conflitto mondiale

[…] soffermarsi su alcuni altri aspetti della sua [n.d.r.: di Irene Brin] pubblicistica che vanno dalla lettura di opere letterarie alla convergenza di queste con le questioni di costume; e verificare, inoltre, e per quanto è possibile, in che modo il suo lavoro abbia contribuito alla connotazione dell’«Almanacco della donna italiana» negli anni delle leggi razziali e poi della guerra (Ruggeri, 2004: 103-104), quali fossero le ragioni sottese a talune scelte e a taluni giudizi; quale, insomma, fosse il personale canone di letture e di preferenze di questa finissima penna emergente […] Gli aspetti della lettura dei fenomeni femminili realizzata da Irene Brin [n.d.r.: al secolo, Maria Vittoria Rossi] negli anni del conflitto è ancora un terreno da dissodare. Restano alcune zone d’ombra che solo in parte il dettato simpaticamente canzonatorio può mitigare; e anche la collocazione editoriale dei suoi contributi non aiuta a comprendere fino a che punto ella usasse il filtro ironico per dissimulare vedute non allineate al Regime o se si trattasse solo di forme manierate. In Usi e costumi 1920-1940, che Brin pubblicherà una volta caduto il fascismo, si legge che “la generazione delle donne italiane […], sebbene terribilmente cosciente di sé, era ignara di dover soggiacere alle costrizioni più assurde. Nel sentirsi libere da ogni vincolo morale, sentimentale e fisico da non accorgersi se non troppo tardi, che avevano perduto la loro libertà” (Brin, 1981: 92).
Leggiamo, cioè, una lucida e ferma analisi della condizione della donna sotto il fascismo, di quanto la sua libertà venisse soppressa dalla “nazionalizzazione” delle sue stesse passioni e della sua identità fisica. Ma se scorriamo “I libri che ho letto” dell’annata 1941 dobbiamo fare almeno due osservazioni: innanzitutto che la percezione dell’identità femminile in Irene Brin non era tale da evitarle una prosa intinta nel borghesismo più tradizionale. E così una amica, tra le sue più stimate, rimane fatalmente “la moglie di Manlio Lupinacci”; questa donna che Irene Brin porta ad esempio perché “usa tenere un registro, minuzioso, delle sue letture, contrassegnando con asterischi, che han valore di onorificenze, i loro singoli pregi” (Brin, 1941: 155) dev’essere identificata mediante la notorietà del marito (in quegli anni Irene Brin scriveva con Manlio Lupinacci sul settimanale «Oggi», diretto da Mario Pannunzio [Serri, 2008: 22]). In secondo luogo si presti attenzione alle prime righe dell’articolo: “Per me la guerra 1940, quando la racconterò ai miei figlioli, avrà sfondo variato, ma sempre agreste, il paesino abruzzese dove ho ascoltato, a giugno, il discorso del Duce, il villaggio, prossimo all’antica frontiera di San Luigi, dove mi ha raggiunta la voce dell’armistizio e, da allora in poi, i prati, i fiumi, gli alberi, i campanili del Veneto, dove ancora vivo: singolare scenario, candido e marziale, di accampamenti: le trombe della sveglia, della ritirata, del rancio e del silenzio mi sono diventate orologio, e la mia vita si è fatta semplice, serenissima, grazie alla serena semplicità che mi circonda”. (Brin, ivi).
Irene Brin riesce, con una prosa delicata, ad attenuare la carica emotiva di un conflitto appena intrapreso: l’entrata in guerra dell’Italia, annunciata dalla roboante retorica mussoliniana, e l’armistizio che la Francia siglerà con la Germania, sono come il sottofondo virile accettato e accolto da una donna che potrà dedicarsi con serenità alla lettura dei propri libri, alla contemplazione della campagna, alla piacevolezza di un soggiorno ameno. Il sottofondo “candido e marziale” che ha accompagnato un anno di vita e di letture è il manto patinato e davvero borghese di una donna assai cosciente della propria forza scrittoria e del proprio acume intellettuale.
Ora le questioni di donne sono piuttosto questioni atte a sondare la disponibilità di una qualsiasi donna a salire i gradini della considerazione sociale e, pertanto, sono spesso interne alla persona medesima di Irene Brin la quale talora preferisce porre il proprio talento a disposizione di una scelta di campo più o meno esplicita.
In questo senso vanno intese le sferzate che Irene Brin lancia all’indirizzo di Tommaso Landolfi prima e del gruppo fiorentino degli ermetici poi. Nella finzione della signora affascinata o della ingenua ragazza che prova attrazione per il primo uomo col quale trova familiarità appena varcata la soglia di casa, ella intende denunciare quella che Piero Bigongiari (uno degli obiettivi della sua penna acuminata nelle pagine di questa annata) chiamò, a metà degli anni Ottanta (Bigongiari, 2002: 129) <5 , la parola di “terza generazione” (Guerrieri, 2016: 383) <6:
“Landolfi! Con il suo ostentato amore a certe forme antiquate e la sua segreta passione per le formule recentissime, falsamente paesano, e nel profondo del cuore mondanissimo, Landolfi realizza compiutamente il tipo del Giovane Cugino, mistero e delizia di ogni famiglia borghese. Le sue citazioni, la sua epigrafica soddisfazione: e quell’oscillar perpetuo tra Leopardi e Lautréamont, quel labirinto di parentele letterarie, di affinità elettive. […] Naturalmente il Giovane Cugino Nazionale scrollerebbe le spalle, come, appunto, fanno i giovani cugini: e nebulosamente ripartirebbe, verso il Mar delle Blatte, e noi resteremmo là, con sentimenti feroci, di odio amoroso, di ammirazione diffidente”. (Brin, ibid.: 155-156)
Il sottocutaneo richiamo al Mar delle blatte <7 forse si può riconnettere alla pungente satira del fascismo che alcuni hanno visto o hanno voluto vedere nel funambolico bestiario surrealista dello scrittore di origine ciociara (ancora oggi la questione è aperta, ma francamente essa appare piuttosto pretestuosa), ma è di certo mordace e brillante la riduzione della verve linguistica di una vera e propria scuola poetica alle evoluzioni sentimentali e irruente di un giovane artista in vena di conquiste. L’insistito e non del tutto chiaro appellativo di “Giovane Cugino” forse ha a che vedere anche con un curioso antecedente letterario che, per materia, timbro tonale e ambientale, non doveva essere ignoto a Irene Brin, ossia “Le médicin confesseur, ou la jeune émigrée” di Victor Ducange <8, passato in Italia con una traduzione dal francese nella seconda metà dell’Ottocento dal titolo “Il medico e la giovane emigrata”, storia di una baronessa che intendeva affidare sua nipote Clotilde al “giovane cugino” medico, ignara (o forse no) del naturale fascino che costui poteva esercitare sulla ragazza. Il medesimo fascino che Irene Brin assegna a Landolfi, una “simpatica canaglia” della prosa che si diverte – a suo dire – a sottrarre al lettore la bussola dell’intessuto linguistico e a disorientarlo con inserti deliberatamente irreali (Franchini, Pacini, Soldani, 2007: 434-435).
Appare, tuttavia, difficile credere che una lettrice così ricettiva non solo delle novità nazionali ma anche, se non soprattutto, delle lettere europee, faticasse a comprendere la proposta landolfiana. Resta, quindi, il dubbio che dietro le sue parole vi fosse il desiderio di spartire nomi fra schieramenti, forse anche editoriali, che a loro volta riflettevano questioni più profonde. Se a Landolfi Brin oppone il meno conclamato Nicola Lisi (“sì, diciamo e pensiamo molto male di Tomaso – sic! – Landolfi: ma non riusciamo a dimenticarlo; succede proprio così con i Giovani Cugini. Però non dimentichiamo neppure Nicola Lisi, e di lui pensiamo e diciamo molto bene, da molto tempo” [Brin, ibid.: 156]) ciò si deve – è probabile – a simpatie per consorterie intellettuali alle quali la scrittrice si sentiva vicina: Nicola Lisi (Lisi, 1976) era parte – come d’altronde il già citato Lupinacci – di «Primato», la rivista che Giuseppe Bottai aveva inaugurato pochi mesi prima (Tronfi, 2011: 309-324 passim; Candeloro, 2002: 127).
Di Lisi Brin apprezza una specie di realismo poetico (“per intenderci, non ci sono né Padron Bista, né Comare Rosa, in Lisi, ma uomini, donne, bambini, asini, morti, stendardi, proprio come ci sono venti, erbe, nuvole: perché ci devono essere” [Brin, ibid.: 157]) da contrapporre – è chiaro – a quella che ella giudica una pretestuosa ricerca di effetti, una volontaria quanto inutile rincorsa alla riscrittura di quadri sensoriali.
Allo stesso modo ella difende Giovanni Comisso dagli aspri giudizi di Vigorelli (Urettini, 2009: 156) <9: naturalmente pesano i trascorsi del critico milanese, già inviso al Regime, e la concomitante adesione dello stesso Comisso alla rivista di Bottai (“Comisso, per esempio, con la sua “Felicità dopo la noia”, succoso, arioso, risentito, rappresenta solo un pretesto per Vigorelli, il quale poi conclude seccamente: ‘Comisso lavora a rovescio, e dopo aver tentato il romanzo, così dall’esterno, ancora esternamente vuol far prosa’” [Brin, ivi]).
Il recupero e quasi il patrocinio a favore di un vecchio narratore degli “arditi” <10 ci dà intanto una conferma: Irene Brin non era solamente una lettrice competente, una scrittrice del tutto a conoscenza degli strumenti come dei meccanismi e degli itinerari epistemologici della critica del tempo; ella non era neppure soltanto una fautrice della pubblicistica femminile. Anzi, questo connotato, talvolta esibito con la fierezza della portabandiera, rivela una visione e una idea della donna più vicina a forme di “statizzazione” che di autentico affrancamento sociale.
La tendenza stessa a cercare una sponda nella stampa di Stato, qualche volta anche a incoraggiare provocatorie polemiche di parte, sacrificando lungimiranza critica e acume d’analisi alle ragioni delle consorterie intellettuali, denota un profilo non del tutto esente da riserve morali, di moralità culturale s’intende. La intemerata proseguirà anche nel numero dell’anno seguente, nel quale Brin, con la pezza d’appoggio di Montale e di una intelligente quanto sagace ammissione di colpa sulla lettura poco approfondita delle “Occasioni” <11, si lascia andare a una pesante requisitoria contro i critici e, di nuovo, contro i poeti ermetici.
[NOTE]
5 Si tenga presente il seguente passo: «Furono gli anni in cui una generazione esplose alla vita, e alla vita della poesia, mentre il regime dominante avviava l’Italia verso quel senso di terra morta insito nell’alleanza con la Germania nazista. Firenze fu l’ultimo segnacolo di libertà in nome della poesia. […] I giovani poeti e critici dell’ermetismo vissero in un sodalizio esaltante e scrissero parole sofferenti di libertà e di rivolta alle parole d’ordine della cultura ufficiale del regime».
6 Si tenga presente il seguente passo contenuto nel saggio: «La parola della terza generazione nasce dunque in opposizione all’eloquio codificato imposto dal fascismo, e svolge il proprio apprendistato poetico e critico proprio sulle pagine di quei “fogli di fortuna”, quali furono “Campo di Marte” e “Corrente”».
7 Tommaso Landolfi pubblica “Il mar delle blatte e altre storie” nel 1939. In alcuni ambienti la raccolta e, in specie, il racconto che ad essa dà il nome, era stata letta come una sarcastica metafora dello squadrismo fascista. A questo proposito può essere utile rimandare alla monografia sull’autore curata da Giancarlo Pandini per la collana “Il castoro” della Nuova Italia (1975, p. 63 e ss.) e al volume di Giulio Carnazzi dal titolo “La satira politica nell’Italia del Novecento”, edito da Il Principato (1975, p. 13).
8 “Le médicin confesseur, ou la jeune émigrée” è un romanzo di Victor Henri-Joseph Brahain Ducange, pubblicato in prima edizione nel 1825. In Italia registriamo l’edizione napoletana di Carlo Zomach (Il medico e la giovane emigrata, 1864) con la traduzione dal francese di Angelo Orvieto da Livorno.
9 È il caso di riportare almeno un passaggio del critico: «Vigorelli rileva tuttavia in quei personaggi convenzionali, in quella prosa a tratti impacciata, così lontana dalla “bella pagina” comissiana, un “atteggiamento morale” verso gli “uomini, gli eventi”, che non si trovava nelle sue avventure terrene».
10 Per comprendere l’indulgenza che Brin aveva nei riguardi di autori i cui lavori talora potevano essere giudicati artisticamente non del tutto riusciti, si leggano le parole contenute nell’ultimo numero della rubrica, allorquando la scrittrice scrive dello stesso Comisso e del suo “Un inganno d’amore” appena pubblicato. Sono proprio i trascorsi da narratore degli “arditi” e dei “legionari” dannunziani a garantire a Comisso la clemenza di Irene Brin, la quale, altrimenti, avrebbe condannato il nuovo lavoro senza appello: «Ancora una scabra nudità ha cercato Comisso in “Inganno d’amore” […]. Quasi si compiace nelle ricette di cucina, un timballo di maccheroni vien descritto con minuzie che i monti e i prati non ottengono, e si segue con stupore il cammino di un uomo avido solo, sembra, di mortificazioni e di rinuncie (sic!): ma da “Al vento dell’Adriatico”, fino ad oggi, crediamo pur sempre in Comisso».
11 Irene Brin conosce Montale a Firenze nel 1938. Si tenga presente l’articolo I. Brin, Le “Giubbe Rosse”, 9 aprile 1938 citato nel libro curato da Giuseppe Marcenaro e Piero Boragina “Una dolcezza inquieta”.
Antonio R. Daniele, La critica delle donne: le letture di Irene Brin sull’Almanacco della donna italiana in Escritoras italianas fuera del canon, Edición de Daniele Cerrato, Sevilla, 2017

Nel 1939-40, periodo di crisi per “Omnibus” a causa della censura imposta dal regime, Irene Brin è colta da un senso di insicurezza e precarietà, nonostante sia molto apprezzata come giornalista e collabori con altre testate, tra cui l'”Almanacco della donna italiana” <314. Per mantenersi in un frangente così precario e in un ambiente ostile per una donna come quello del giornalismo, accetta di scrivere per alcune iniziative editoriali di partito, finanziate dal MINCULPOP e dal Ministero della guerra, come “Il Fronte” e “Mediterraneo”, pubblicazioni destinate ai militari, alla propaganda e all’esaltazione delle imprese coloniali <315.
Il suo stile definito “brinate” o “brinismo”, diviene sempre più di moda e appare caratterizzato da argomentazioni che si direbbero frivole ma che sono invero supportate da una solida base culturale: partendo dall’analisi del quotidiano con un occhio indagatore e critico, ridicolizza le abitudini dell’italiano medio e ironizza sui suoi punti deboli o i luoghi comuni, lasciando fuori dai testi i grandi eventi contemporanei <316.
Nel 1941 la giornalista raggiunge il marito, il colonnello Gaspero del Corso (sposato il 3 aprile 1937), di stanza in Jugoslavia, dove continua il suo lavoro per “Il Fronte” come inviata di guerra: qui avviene uno sdoppiamento, infatti da un lato descriverà il conflitto per i canali ufficiali, esaltando il coraggio delle truppe e le relazioni con le popolazioni locali, dall’altro, con il romanzo “Olga a Belgrado”, racconterà una guerra diversa e logorante per i civili, mettendo in primo piano la crisi sociale e lasciando da parte quel sarcasmo e quell’ironia che erano il suo marchio di fabbrica <317.
[NOTE]
314 “L’Almanacco della donna italiana” esce per la prima volta nel 1920 su iniziativa dell’editore fiorentino Bomporad. Ogni numero presentava una struttura fissa: in apertura erano segnalate le occupazioni femminili di un determinato periodo dell’anno per poi passare ad approfondimenti legati alla moda, alla casa, all’arredamento, alla musica, ma anche alla politica, andando così a definire una cerchia di pubblico medio-alto. Cfr. C. Fusani, Mille Mariù…, cit.,
pp. 73-78, R. Carrarini, La stampa di moda dall’Unità ad oggi, …, cit., pp. 819-822; E. Turrini, L'”Almanacco della donna italiana”: uno sguardo al femminile nel ventennio fascista, in “Storia e futuro”, n. 40, marzo 2016, edizione digitale.
315 Rifiuterà incarichi più politicamente schierati, come il ruolo di addetta stampa per Galeazzo Ciano o il lancio pubblicitario dell’ultimo film con Miriam di San Servolo, sorella di Claretta Petacci. Cfr. C. Fusani, Mille Mariù…,
cit., pp. 73-78.
316 A. Cremonese, Irene Brin, cit., pp. 163-164.
317 Si veda I. Brin, Olga a Belgrado, Firenze 1943.
Silvia Lattuada, Arti del tessile e dell’ago nell’editoria di Gio Ponti tra “Lo Stile” e “Fili”, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016