Se non ci ammazza i crucchi…

Porto Valtravaglia (VA) – Fonte: Mapio.net
Soldati del Presidio di Porto Valtravaglia schierati davanti al Municipio (Ap. P. De Micheli) – Fonte: Se non ci ammazza i crucchi…, cit. infra
Lettera del procuratore della Società Anonima Vetreria Milanese Lucchini e Perego al podestà di Porto Valtravaglia (ACPo) – Fonte: Se non ci ammazza i crucchi…, cit. infra

Con questo libro si compie un doveroso atto di riconoscenza nei confronti degli uomini del gruppo di militari e di giovani che si raccolsero attorno al tenente colonnello Carlo Croce in una delle prime formazioni di volontari, che verranno chiamati partigiani, costituitesi dopo l’8 settembre per opporsi alla occupazione tedesca e per riscattare l’onore della Patria. Fino ad ora a testimoniare quella pagina di storia combattuta in condizioni difficili vi è stato solo il piccolo opuscolo, pubblicato dalla Provincia di Varese, che riproduce una relazione, datata 1945, dell’allora Vice-comandante del gruppo, capitano Campodonico. Numerosi antifascisti e partigiani (De Bortoli, G. Macchi), storici (Giannantoni), giornalisti (Bocca) hanno scritto del gruppo “Cinque giornate”, nel contesto di studi più ampi e generali, esprimendo anche giudizi, a volte ingenerosi, sulle scelte militari compiute dal Comandante, scelte sicuramente non conformi alle norme di una guerra per bande e che si consolideranno solo dopo le esperienze compiute, anche dolorose, come dolorosa è stata la conclusione della vicenda di questa formazione.
Questo libro è il primo e unico tentativo di una accurata descrizione degli avvenimenti di quella formazione.
Una sola considerazione vale a testimoniare il valore della scelta compiuta da questi uomini, la scelta di rimanere a resistere e a combattere sul San Martino in Valcuvia, una piccola montagna dalla quale si vedono a due passi le vicine e ridenti località della Svizzera, tanto desiderate in quei giorni e mesi di legittime aspirazioni ad un rifugio sicuro dagli orrori della guerra e della tremenda repressione nazifascista. Già l’avere resistito a questa tentazione è stata una prova di coraggio, riconfermata poi dalla scelta compiuta da tanti appartenenti al gruppo che, dopo la ritirata in Svizzera seguita alla sconfitta subita nello scontro militare, decideranno di ritornare in Italia per riprendere la lotta e, come avvenne per il comandante Carlo Croce, lasciarvi eroicamente la vita. Questa pubblicazione, che esce con il contributo determinante del Sindacato pensionati della Cgil, vuole essere una rivisitazione della storia del gruppo partigiano che si riteneva giustamente parte integrante dell’esercito italiano. Infatti, come stabiliranno le istituzioni democratiche italiane alla fine del conflitto, verrà riconosciuta ad ogni partigiano di tutte le formazioni guidate dal comando del Corpo Volontari della Libertà […]
Angelo Chiesa, Presidente del Comitato provinciale dell’Anpi di Varese, Premessa in Francesca Boldrini, “Se non ci ammazza i crucchi … ne avrem da raccontar”. La battaglia di San Martino – Varese, 13-15 novembre 1943, I libri del sindacato pensionati della Lombardia, 2006, pp. 8,9

[…] Occorre tener conto che il Clnai non è riconosciuto, in quel periodo, come organismo dirigente della lotta nell’Italia occupata.
La direzione compete agli alleati e ai loro servizi d’informazione Soe e Oss, in subordine, con molte difficoltà, al Governo del Regno del Sud. Si possono solo formulare delle ipotesi, mancando oggettivamente dei riscontri documentali, sul progetto che vede il colonnello Croce come il perno su cui imbastire una formazione armata combattente legata al Governo del Sud. Si sono trovati tutti in Svizzera, Alessi, Croce, Fojanini, Motta e tutti hanno fatto riferimento al generale Tancredi Bianchi della Legazione del Regno del Sud a Berna. Il tentativo di dare una struttura compiuta, su tutto il territorio dell’Italia occupata, che rappresenti la forza armata del Governo del Sud è il compito che si era assunto il gruppo dei Volontari Armati d’Italia [Vai/VAI/V.A.I.] con a capo il Kulczycki. I militari che sono rientrati dalla Svizzera potevano rappresentare l’ossatura di una formazione militare che si sviluppava partendo da un territorio in cui c’era una rete di appoggio. La media Valtellina appariva come un territorio ideale, difficili ma non impossibili i contatti con la Svizzera, una rete locale con cui è possibile intendersi senza troppi problemi, la possibilità dei collegamenti con la valle Camonica dove il generale Masini ha sviluppato il gruppo delle Fiamme Verdi, il collegamento naturale con le bande dell’alta valle. Una traccia che corrobora questa ipotesi è un documento che si trova in mano al Ponti, lo Statuto del Vai «145».
Anche le interviste a Placido Pozzi, Alonzo, e Antonio Sala della Cuma Scipione «146» confermano lo sviluppo della rete del Vai. Sala della Cuma è assistente dell’Azienda Elettrica Municipale di Milano presso il cantiere della centrale di Lovero – paese lungo la strada tra Tirano e Sondalo-, dove i lavori iniziarono nel 1942, in piena guerra, e poterono essere conclusi solo a guerra finita nel marzo del 1948. É lui che tessa la rete che lo lega tramite il direttore dei lavori alla stessa Aem e poi alla Edison dove, oltre a Parri e in subordine Corti, lavora il fratello di Kulczycki «147». Sono gruppi che si sviluppano in alta valle: nel bormiese il gruppo Alonzo, a Grosio e Grosotto il Visconti-Venosta.
Nei dintorni di Sondrio il Comitato che si era formato si è andato gradualmente sbandando, nella primavera resiste ancora il gruppo di Torti sopra Spriana, all’inizio della Valmalenco, è su questo gruppo e sui suoi contatti che Croce pensa di sviluppare la rete? Sembra di sì.
D’altra parte Sala della Cuna, di orientamento «repubblicano e con un nonno garibaldino» «148», il 10 settembre si incontra con l’ing. Carulli dell’Aem a Sondrio, poi è a colloquio con Alessi e Fojanini, quattro giorni dopo, munito di un lasciapassare dell’Aem è a Bergamo, nel castello di Valverde – nella zona della città alta – dove incontra il colonnello degli alpini Modesto Antonio Leonardi. Il militare si presenta come responsabile del Vai «149». Il 2 ottobre ha un nuovo incontro a Sondrio con Gola, Torti e Alessi, il 6 ottobre è a Milano, dove incontra Parri e Corti. Il 27 novembre avviene una riunione con Parri, Leonardi, l’ing. Carulli e Sorini dell’Aem e Luigi Gagetti «150».
Luigi Gagetti, assieme al fratello Giovanni, si era dato da fare incontrando il gen. Roberto Landreani e don Felice Cantoni a quel tempo parroco di Vervio. Nella riunione del 27 novembre Luigi Gagetti, Tiberio, è indicato come comandante del Vai della Valtellina. Diversa la via che segue Placido Alonzi il quale solo nel dicembre del ’43 per tramite del maresciallo dei CCRR Martucci e del tenente Pugliesi della Guardia di Finanza si mette in contatto con il generale Masini «151» che sta organizzando le Fiamme Verdi. Già a novembre però le formazioni, che si erano date al recupero delle armi e a stabilire forme di finanziamento per le formazioni in montagna, si assottigliano. Dove finiscano gli uomini che erano in montagna, non è certo, possiamo ipotizzare che alcuni uomini valtellinesi si rifugino nella vicina Svizzera, altri rimangono nelle loro baite in montagna, qualcuno riesce a regolarizzare la propria posizione e rientra nei paesi. Mentre sta arrivando l’inverno, si pensa solo a come superarlo senza incappare nelle milizie fasciste. Tutto sembra fermarsi fino al primo arrivo di Croce in Valtellina.
[…] Da quest’alpe si può o scendere verso Spriana oppure direttamente verso Tresivio con un percorso ancora faticoso. La durezza di questi percorsi ha sempre spinto il contrabbando o verso il fondovalle nella zona di Tirano o verso la valle Grosina. La scelta di questi sentieri si presenta utile negli anni 1943-1945 perché sono più liberi dai fascisti della Gnr di Frontiera che presidiano il territorio.
Croce è ferito nello scontro a fuoco, portato a valle su di una rudimentale barella dagli uomini del Ten. del Curto della GNR Confinaria che ha un distaccamento a Chiesa di Valmalenco (960 m) ed un presidio a Campo Francia (1518 m). La discesa non deve essere facile, il trasporto di un uomo ferito, anche se barellato in una valle relativamente ripida come la val Togno impegna gli uomini e deve durare qualche giorno.
I militi della GNR sanno subito che tra gli uomini catturati, c’è un «colonnello Croce», questo gli dice il famoso fascio di documenti che è trovato sul luogo dello scontro, ma non sanno chi sia. Croce è uno sconosciuto. La relazione indirizzata dal tenente Dal Curto del distaccamento di Chiesa Valmalenco della Milizia Confinaria comprende l’elenco del denaro recuperato e delle rispettive valute (200.000 lire e 375 franchi svizzeri), un elenco di documenti personali che fanno riferimento a Alberto e Carlo Croce, George(s) Vabre Brevi (sic!), Silvio Prestini, Mario Brevi – probabile sia lo stesso George-. Vi è anche una comunicazione al colonnello Giustizia [ Carlo Croce nda] in merito alle forze fasciste e tedesche in Varese; alcuni stralci dei giornali svizzeri del 17.11.1943: Popolo e Libertà, Gazzetta Ticinese, Libera Stampa; una lettera in francese di Georges Vabre «152 »dal campo di Ceuterschwill «153», due comunicazioni del gruppo 5 giornate, lo stralcio della rubrica alfabetica, un elenco nominativo contenuto nel ruolino a quaderno.
Con il colonnello nello scontro sono catturati: il capitano Meschi (morto poi a Mauthausen) i tenenti Monti e Tibiaca, il tenente francese Vabre e altri due sconosciuti «154». Il ferito è portato all’ospedale di Sondrio, gli altri in carcere. All’interno della struttura agisce come spia tale Seschiatti. Si fa passare per detenuto per reati comuni e in cella cerca di carpire notizie dagli arrestati. La manovra è coordinata dal questore ausiliario di Sondrio Antonio Pirrone con il concorso di tali Cabibbo e Germanò «155». L’operazione ha buon esito, i «due sconosciuti» catturati in alta Valmalenco sono i capitani Sacchi e Bogren: è quest’ultimo che in cella con Seschiatti svela l’identità del ferito. In conseguenza a questo il colonnello Croce dopo le prime cure all’ospedale di Sondrio è trasferito a Bergamo, dove c’è il tribunale militare tedesco, ma non sopravvivrà e morirà in ospedale il 24 luglio 1944.
Se l’avventura di Croce finisce in modo tragico, perché muore per i postumi delle ferite aggravate dal trasporto in montagna, se l’avventura di alcuni suoi uomini si definirà nella deportazione, per altri l’avventura in Valtellina continuerà nei mesi seguenti.
Personaggio che merita attenzione è il francese Vabre. Nel dopoguerra in contatto con Giacinto Lazzarini ci lascia una dichiarazione in cui afferma che dopo gli interrogatori a Sondrio e a Bergamo, viene tradotto a Milano nel carcere di S. Vittore. In seguito è trasferito nel campo di concentramento di Bolzano e, da lì, ai campi di concentramento di Dachau il 9 ottobre 1944, a Buchenwald il 9 novembre 1944 e, infine al campo di lavoro di Ohrdruf il 15 novembre 1944. Evaso da detto luogo il 27 marzo 1945, è recuperato dagli americani, il 3 aprile 1945, che lo portano in Francia e lo fanno ricoverare presso l’Ospedale Militare di Bercy il 12 maggio 1945. Queste dichiarazioni sono accompagnate da due lettere che segnano una svolta nei rapporti con il Lazzarini.
Vabre accusa senza mezzi termini che la causa della sua (e conseguentemente di Croce e compagni) cattura è di Campodonico della cui collaborazione con i fascisti non abbiamo conferme. Tra la prima e la seconda lettera poi c’è una modifica dei rapporti con il destinatario, sembra che il Lazzarini eviti accuratamente di incontrare il Vabre, soprattutto alla presenza di altri, ignori anche una commemorazione dei fatti del San Martino; il Vabre sente odore di bruciato e, seppur cortesemente, esprime le sue rimostranze «156».
L’operazione tentata dal colonnello Croce non potrebbe essere stata la sola, c’è un riferimento, che non ha trovato altri riscontri in due documenti della 40a brigata Garibaldi G. Matteotti Fronte Nord «157». Tale colonnello Ventura è arrivato in val Chiavenna dalla Svizzera, ha effettuato un sopralluogo garantendo la possibilità di far rientrare dalla Confederazione uomini e materiali. Chiede altresì di far avere al «Comitato di Milano» la relazione da lui preparata; Dionisio Gambaruto, che la invia, la accompagna con una nota di giudizio negativo. L’unica altra nota trovata è l’interrogativo se Ventura ed il colonnello Cavallero [Cavaleri nda] non siano la stessa persona «158».

Uno scorcio di Val Chiavenna – Foto: Simone Perego

145 La presenza dello Statuto del Vai nell’archivio privato di Angelo Ponti è citata in M. FINI, F. GIANNANTONI, La Resistenza più lunga, cit., p. 51. Il testo dello statuto è in P. PAOLETTI, Jerzy Sas Kulczycki Colonnello Sassi”. Il primo organizzatore militare della resistenza in Veneto (settembre-dicembre 1943), Edizioni Menin, Schio, 2004, p. 92; idem, Volontari Armati Italiani (V.A.I.) in Liguria (1943-1945), cit., p. 27.
146 Intervista a Placido Pozzi e a Antonio Sala Della Cuna, Issrec, Fondo: Anpi di Sondrio, Fascicolo: “Relazioni e interviste Bassa valle”; Testimonianze, Busta 2, Fasc. 18 carte sd [1945 – 1970];
147 relazione sulla costituzione e l’attività del gruppo Visconti Venosta, Issrec, fondo ANPI, b. 2, fsc. 12 brigata Mortirolo”. Jerzy non ha fratelli ma sorelle, potrebbe trattarsi di qualcun altro famigliare (cfr. https://www.geni.com/people/Sigismondo-Sas-Kulczycki/6000000000687378316)
148 Antonio Sala della Cuna, (Scipione)- commissario della brigata Mortirolo” della 1a Divisione Alpina Valtellina G.L., IscComo, fondo Franco Giannantoni, b. Valtellina n. 1. La scala temporale non è molto precisa, il V.A.I. ha bisogno di tempo per organizzare la sua rete e non può essere già presente a ridosso dell’otto settembre.
149 In base a quanto afferma la moglie del col. Modesto Antonio Leonardi «Il castello di Valverde era stato abbandonato [dopo l’otto settembre nda] per motivi di sicurezza […] il colonnello Leonardi, ricercato da nazisti e tedeschi, era andato in Svizzera dove si era incontrato con Maria Josè»; appunti sull’incontro con la moglie del col. Modesto Antonio Leonardi (aprile 1978), IscComo, fondo Franco Giannantoni, b. Valtellina n. 1, fasc. 7° cap.
150 Luigi Gagetti di Michele e di Nella Maria nato a Vervio il 29 dicembre 1920, caduto a Boscaccia di Sondrio il 19 agosto 1944 allo scopo di procurarsi armi, Issrec, fondo Teresio Gola, b. 5, fasc. 37.
151 Interessante notare che nella ricerca di Franco Catalano questa rete di relazioni non viene nominata e non viene citato neppure il Vai. Una nota meritano anche i rilevamenti che Teresio Gola e Cesare Marelli fanno alla ricerca di Franco Catalano dove, anche qui, non si trova nessun riferimento al Vai. È Ferruccio Scala, forse il più profondo conoscitore della Resistenza in Valtellina, che ritiene «inquadrati subito nel Vai» i comandi che difendono le centrali elettriche. Non si perde neppure la polemica politica post-liberazione tra socialisti e comunisti, Scala che scrive su L’Adda (settimanale del Pci) considera in blocco socialisti gli appartenenti del Vai.
152 F. GIANNANTONI, La notte di Salò (1943-1945), cit., p. 202. George Vabre Brevi e Mario Brevi potrebbero essere la stessa persona, secondo Francesca Boldrini «Il francese tenente Vabre anagramma il cognome e si presenta come Brevi per garantirsi un certo anonimato.» idem, Se non ci ammazza i crucchi…, cit. p. 76
153 Località non individuata.
154 cfr. GIANFRANCO BIANCHI, E’ necessario spogliare dai paludamenti retorici e dall’agiografia la storia della Resistenza, cit. I due tenenti Monti e Tibiaca non risultano negli elenchi dei documenti sequestrati. Meschi Lorenzo. Nato a Olmo al Brembo (BG) il 15.02.1901. Socialista. Viene poi incarcerato a San Vittore, matr. 2938, cella 60, raggio 5°, è citato come Renzo. Parte il 7.9.1944 per Bolzano campo. Da qui riparte il 14.12.1944 e giunge il 19.12.1944 a Mauthausen. Matr. 114030. Il 21.2.1945 viene spostato a St. Aegyd (Mau). Muore durante la marcia St.Aegyd/Mauthausen che giunge a destinazione il 5.4.1945. La sua vicenda burocratica legata al riconoscimento partigiano è in Issrec, fondo ANPI, fasc. caduti, ad nomen.
155 Cfr. Cronaca Giudiziaria, della Corte di Assise Straordinaria, anno 1, n. 1, Sondrio 14 giugno 1945, in Issrec, fondo ANPI Sondrio, b. 2, fasc. 20.
156 Cfr. Lettera di Giorgio Vabre, del 3 novembre 1970, indirizzata a Giacinto Lazzarini, Museo Civico di Storia Naturale ‘M. Ambrosiani’, Comune di Merate, Archivio Giacinto Lazzarini, busta Profili, fasc. Vabre George. Il passaggio di Vabre nel carcere di San Vittore non è certificato (probabile il suo ingresso nel raggio tedesco), né si ha un ricontro della sua presenza nei campi. Questo è possibile anche se nella sua lettera Ohrduf ha la grafia sbagliata e i campi diventano tutti campi di eliminazione. Il passaggio da San Vittore potrebbe essere oscurato dalla detenzione nel braccio tedesco, di cui abbiamo i registri ma non per il periodo di detenzione Vabre. Il rapporto con Giacinto Lazzarini, che non è argomento di questo studio, ha in ogni caso interesse perché il Lazzarini sarà un gran narratore di storie nella zona del lecchese. Anche Enrico Campodonico sembra sfuggirci nella deportazione ma viene incontrato nel rietro
in Italia da Franco Mariconti che lo incontra a Insbruck proveniente da Mauthausen: G. MARICONTI, Memoria di vita e inferno. Percorso autobiografico dalla spensieratezza alla responsabilità, Il Papiro Editrice, s.d., p. 199; anche in http://www.deportati.it/wp-content/static/upl/ma/mariconti.pdf, ultimo contatto 25.01.2018, copia in possesso degli autori.
157 Fondazione Istituto Gramsci, Brigate Garibaldi Lombardia,40 brigata “Matteotti”, 10 luglio 1944-10 luglio 1945, IG 503, IG 511.
158 F. GIANNANTONI, L’ombra degli americani sulla Resistenza al confine tra Italia e Svizzera, Essezeta-Arterigere, Varese, 2007, ad nomen. Nonostante la disinvoltura di accorpare documenti, non si comprende perché Ventura diventi Venturi, né quest’ipotesi che dietro lui ci fosse Titta Cavaleri. Non depone in questo senso la richiesta di inviare a Milano la relazione da lui preparata né l’interrogativo che si trova in: Fondazione IG, Brigate Garibaldi Lombardia, 1a Divisione “Lombardia”, doc. 0712. La richiesta di controllare se Ventura e Cavallero siano la stessa persona in: Raggruppamenti Divisioni d’Assalto garibaldine Lombarde. Comando. Al Comando Regionale Lombardo; Fondazione IG, Brigate Garibaldi, Raggruppamento divisioni garibaldine lombarde, doc. 01190.
Massimo Fumagalli e Gabriele Fontana, Formazioni Patriottiche e Milizie di fabbrica in Alta Valtellina. 1943-1945, Associazione Culturale Banlieu

Celebrazione dell’XI° anniversario della battaglia del San Martino, Mesenzana, 15 novembre 1954. Da destra: Antonio De Bortoli, Alberto Croce, Albertina Seveso Croce, Ada Croce (ACM)- Fonte: Se non ci ammazza i crucchi…, cit.

[…] Il compito ricevuto dal generale Tancredi Bianchi, delegato militare italiano a Berna, era quello di assumere il comando militare delle formazioni moderate operanti in alta Valtellina ed in Val Camonica, inquadrate in ‘Giustizia e Libertà’ e sostenute economicamente dalle industrie elettriche, dalla Edison all’Orobia, dalla Falck all’Azienda Elettrica Milanese, proprietarie delle numerose centrali e delle dighe della zona 23.
Germano Bodo, con il fratello Gianni, Carlo Baruffi, Adolfo Folatti e Pedrola, un alpino di Ardenno, abbandona la Svizzera il 14 giugno 1944. A Poschiavo è atteso da Gaetano Mitta e dal cognato Isacco che lo accompagnano lungo il percorso Passo Confinale, Alpe Musella, Torre S. Maria. Raggiunge dopo alcuni giorni Tresivio per incontrare Caterina Guicciardi e Lei, referenti di Croce in zona, per concordare quale sia la via più sicura per il rientro del colonnello.
Si decide per la Val Malenco, potendo contare su un sicuro servizio di accompagnamento e sulla collaborazione dei partigiani di Sondrio che hanno garantito sostegno alla costituzione delle basi logistiche e adeguati rifornimenti di mezzi, viveri e armamenti.
Le decisioni scritte su lettera vengono spedite al colonnello Croce tramite i Mitta, ma non si hanno riscontri se il colonnello abbia o meno ricevuto tale missiva. Come non lo ha mai raggiunto, perché censurata dal servizio di censura dell’internamento, una comunicazione del dottor Konig del comitato svizzero di soccorso operaio di Lugano, spedita il 28 giugno 1944, nella quale si chiedeva di “parlare urgentemente con lei [Croce].” 24.
Nel frattempo Bodo e i suoi uomini si trasferiscono a Spriana in località Castellaccio, zona impervia e raggiungibile solo a piedi e con ampia visuale sulla Val Malenco e sulla Val di Togno, presso baite che possono ospitare decine di uomini, con l’intenzione di mantenere i collegamenti con la signora Guicciardi nel caso che il colonnello avesse deciso di intraprendere un itinerario diverso.
I gruppi di militari, che rientrano senza preavviso dalla Svizzera, vengono convogliati al Castellaccio. Questi espatri in Val Malenco non passano inosservati e allarmano i nazifascisti che intensificano i loro controlli. Per maggior cautela il gruppo di Germano Bodo, in attesa di Croce, si trasferisce all’interno della Val di Togno.
Croce, probabilmente a Poschiavo o appena superato il confine svizzero, si ritrova con altri fuoriusciti, il capitano Meschi, i tenenti Monti e Tibiaca, Vabre e altri due uomini e, insieme a loro, si dirige al Painale, come risulta dalla comunicazione ricevuta dai partigiani valtellinesi acquartierati al Boirolo 25.
Il 13 luglio il gruppetto è intercettato all’Alpe del Painale, nella baita denominata ‘Cascina Palù’, da una pattuglia della Prima Compagnia Confinaria guidata dal tenente Aldo Del Curto, impegnata in un rastrellamento.
Durante il fermo intimato dai fascisti, Croce viene colpito ad entrambe le braccia da due colpi di moschetto sparati contro di lui, da una distanza di 15 metri, dal caporale Domenico Vedovatti. Il ferito, che presenta lo sfracellamento del gomito destro e la rottura dell’arteria omerale sinistra appena sotto il gomito sinistro 26, rimane all’interno della baita, sorvegliato da due uomini, finché giunge a prelevarlo un gruppo di altri militi. Su una barella di fortuna, dopo un cammino di ore con una sosta a metà strada presso una Caserma della Guardia di Finanza, Croce, giunto a valle, è trasportato il 17 luglio 1944 27 all’ospedale di Sondrio sotto il falso nome di Carlo Francesco Montuoro 28.
23 F. Giannantoni, La notte di Salò (1943-1945). L’occupazione nazifascista di Varese dai documenti delle camicie nere, Arterigere, Varese, 2001, vol. I, p. 130.
24 AFBe, vol. 917, Dossier E 5791-1 Zensur Personal Dossier Italianer.
25 Testimonianza di Caterina Boggio Marzet Guicciardi in M. Fini, F. Giannantoni, La Resistenza più lunga. Lotta partigiana e difesa degli impianti idroelettrici in Valtellina: 1943-1945, Sugarco, Milano, 1984, p. 40.
26 Ap Alberto Croce, Relazione manoscritta del professor Edoardo Preto del 6 giugno 1945 avente come oggetto “Relazione sulla degenza del Colonnello Croce Carlo in questo ospedale”.
27 Ap Alberto Croce, Cartella clinica del colonnello Croce rilasciata dall’Ospedale Civile di Sondrio.
28 Montuoro Carlo Francesco era il nome di uno zio di Carlo Croce ed era il nome che Croce intendeva utilizzare per celare la propria identità in caso di arresto e interrogatorio. La perfetta conoscenza di un nome impedisce di cadere in contraddizione o di correre il rischio di improvvise amnesie.
Francesca Boldrini, Il tenente colonnello Carlo Croce in Op. cit., pp. 37,38

Carlo Croce
Fonte: Italiani in guerra, cit. infra

Carlo Croce nasce a Milano il 15 aprile 1892, si arruola nel Regio Esercito, come soldato di leva, nel Distretto di Milano, dal quale viene congedato il 4 giugno 1912, ma subito richiamato in servizio attivo il 5 agosto dello stesso anno., ed assegnato al 5º Reggimento bersaglieri. Promosso caporale, fece carriera rapidamente, promosso caporale maggiore (5 dicembre 1913), e sergente (31 ottobre 1914), il 25 ottobre del 1915 diviene Aspirante ufficiale, ed è promosso sottotenente di complemento il 17 dicembre successivo, in forza al 7º Reggimento bersaglieri.
Tenente dal 29 dicembre 1916, diviene capitano il 1 agosto 1918, prestando poi servizio nel 22°, 12° ed ancora al 7º Reggimento bersaglieri. Congedato il 9 aprile 1920, si stabilisce a Milano avviando l’attività di industriale nel settore delle carrozzelle per disabili. Promosso 1º capitano il 26 dicembre 1930, diviene maggiore il 22 febbraio 1939. […] Tutto questo materiale fu trasferito al Quartier generale nella ex caserma “Luigi Cadorna” di Vallalta di San Martino, dove Croce stabili la sede del comando, su camion militari e automezzi civili requisiti. L’impegno successivo fu di dare un nome al reparto, che fu battezzato ufficialmente Esercito Italiano-Gruppo Militare “Cinque Giornate” Monte San Martino di Vallata Varese. Croce ormai soprannominato colonnello “Giustizia”, ribattezzò il San Martino “ Zona d’Onore”.
Nel frattempo, benché gran parte dei soldati avesse tentato il ritorno a casa, la formazione fu poi rimpolpata dall’afflusso di altri ex-sbandati intenzionati a prendere le armi contro i tedeschi: non solo italiani (militari e civili) ma anche prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento, fino a raggiungere la consistenza di 170 unità tanto che il 22 ottobre 1943 il gruppo venne diviso in tre compagnie.
Inizialmente le azioni del gruppo “Cinque Giornate” si limitarono all’irrobustimento delle fortificazioni e delle postazioni, allo scavo di fossati e trincee, alle “puntate” a valle per il rifornimento di viveri e alla sorveglianza delle strade vicine. Da notare è il fatto che Croce organizzò la formazione come un vero e proprio reparto del Regio Esercito, avendo in mente una linea “attendista” e non una guerra mobile che si avvaleva della conoscenza del terreno: l’esatto contrario della tattica che in seguito sarebbe stata adottata dalle formazioni partigiana.

Fonte: Italiani in guerra, cit. infra

Le disposizioni da accettare per assere accolti nel gruppo “Cinque Giornate”
Fonte: Italiani in guerra, cit. infra

A nulla servì il tentativo di un rappresentante del CLNAI di convincere Croce a suddividere i suoi uomini in gruppi di minore consistenza, ma più agili e adatti alla guerriglia, che avrebbero prolungato la sopravvivenza della formazione aumentandone anche l’efficacia. Inoltre la scarsa segretezza che contraddistingueva il reparto, da notare che gli appartenenti allo stesso, avevano regolari carte di identità militari con tanto di fotografia, lo rese facilmente infiltrabile dallo spionaggio nemico, così che non fu difficile raccogliere informazioni sulla consistenza e sui punti deboli del Gruppo.
Per le prime settimane il “Cinque Giornate” non sembrò preoccupare troppo i tedeschi, ma con l’avanzare dell’inverno si temette che la formazione “ribelle” potesse costituire un intralcio nel controllo del territorio, per cui il 13 novembre fu proclamato lo stato d’assedio e il giorno seguente tutti gli uomini dai 15 ai 65 anni furono rastrellati dai paesi siti ai piedi delle montagne e rinchiusi negli edifici pubblici o nelle chiese.
Il 14 novembre 1943 i tedeschi lanciarono un massiccio attacco contro le fortificazioni del San Martino: anche se largamente inferiori di numero, gli uomini di Croce riuscirono a tenere testa a ben duemila soldati della Wehrmacht. Dopo la battaglia, il 16 Novembre, parte con 42 uomini superstiti e raggiunge la Svizzera dove viene trasferito al campo di internamento di Buren.
Qui ha modo di dare un giudizio negativo riguardo le operazioni partigiane e per questo motivo nascono delle incomprensioni con i suoi uomini che porteranno alla nascita di due gruppi distinti. Riesce a instaurare comunicazioni con i partigiani italiani, con i Servizi segreti francesi, il Servizio svizzero della frontiera, la Legazione Militare Italiana, esponenti del Servizio informazioni inglese, Office of Strategic Services (americani che aiutano il rientro degli italiani pronti a lottare contro i fascisti).
In questo periodo progetta di far entrare in Italia, e più precisamente in Valtellina, 500 uomini dalla Svizzera. Con l’amico Alessi (comandante dei carabinieri di Sondrio) pianifica una strutturazione dei gruppi che si sono formati in Valtellina, questo progetto viene definito “Operazione Valtellina”. Nel 1944 esce clandestinamente dalla Svizzera per incontrare altri partigiani e programmare il rientro clandestino di molti esuli.
In Valtellina avviene l’incontro ma sorge il sospetto di essere spiati, infatti la casa dove soggiorna Croce viene circondata dalle SS. L’incontro quindi si interrompe e il colonnello torna in Svizzera. Nei mesi successivi si continuano a disporre nuovi progetti e programmi e il colonnello intanto cerca adesioni per un nuovo progetto di rimpatrio ma allo stesso tempo viene scoperto un giro di spie all’interno del gruppo.
Croce lascia la Svizzera con don Mario Limonta tramite ferrovia, ad una fermata il prete dimentica un pacco e perciò chiede al conduttore del treno di farlo recuperare e spedirlo ad un indirizzo di Poschiavo, questo insospettisce i gendarmi svizzeri che sottopongono il sacerdote ad un controllo con esito negativo. Poco dopo però viene arrestato dalla polizia militare ma Croce, riesce a sfuggire all’arresto ed a rifugiarsi in Valtellina.
Alcuni contatti del colonnello programmano il suo rientro e inviano dei mitra, ma non sono sicuri che questi siano stati ricevuti. Croce si dirige allora con un gruppo fuoriusciti al Painale. Il gruppo però viene intercettato e durante il fermo intimato dai fascisti Croce viene colpito dal caporale Vedovatti, ferita a un braccio che gli venne amputato. Il ferito rimane all’interno di una baita finchè un altro gruppo di militi lo trasporterà all’ospedale di Sondrio sotto il falso nome di Carlo Francesco Montuoro.
Gli altri partigiani vengono trasferiti dalla prigione di Sondrio al carcere di Milano e di questa cattura viene informato direttamente Benito Mussolini. Croce nonostante le proprie condizioni critiche cercò di rimanere in ospedale il più possibile così da organizzare una nuova fuga o prendere contatti con altre persone della Resistenza. I capi tedeschi intuirono il pensiero di Croce e trasferirono il comandante da Sondrio a Bergamo.
Durante il trasporto, il comandante chiese il perdono per chi l’aveva ferito a morte Arrivato all’ospedale militare della Clementina venne chiamato il cappellano militare don Matanza il quale darà l’estrema unzione al comandante che spirerò il 24 luglio del 1943. Lo stesso sacerdote celebrerà il funerale nel cimitero di Bergamo contro il volere dei tedeschi.
La signora Croce viene a conoscenza della sepoltura del marito grazie al maresciallo dei carabinieri Giovanni Rossi che lavorava presso il Comando tedesco e nonostante il rischio di essere arrestata, continuò a visitare la salma del marito. Il corpo del comandante verrà recuperato, dopo la Liberazione, da alcuni familiari che trasferirono il corpo a Milano nonostante l’opposizione degli americani. La salma verrà poi sepolta al San Martino insieme a quelle dei suoi compagni.
Il colonnello è stato insignito della medaglia d’oro al valor militare alla memoria con la seguente motivazione:
«Comandante di distaccamento del terzo reggimento bersaglieri a Porto Val Travaglia, con i suoi soldati e con alcuni patrioti organizzava, dopo l’armistizio, la resistenza all’invasore tedesco mantenendo le posizioni fortificate di San Martino di Vallalta. Più volte rifiutate le offerte del nemico, il 13 novembre 1943, con soli 180 uomini, sosteneva per quattro giorni di furiosa lotta l’attacco di 3000 tedeschi, infliggendo gravi perdite, abbattendo un aereo, distruggendo alcune autoblinde incappate su campo minato. Ferito e serrato senza apparente via di scampo, con ardita azione, sì apriva la strada fino al confine svizzero, trasportando gli invalidi e ritirandosi per ultimo dopo aver fatto saltare il forte. Insofferente di inazione e dopo un primo fallito tentativo di rientrare in Italia, varcava nuovamente il confine con sei compagni. Attorniato da nemici e gravemente ferito ad un braccio cadeva prigioniero. Prelevato dalle SS. dall’ospedale di Sondrio, poche ore dopo di avere subita l’amputazione del braccio destro, veniva barbaramente torturato senza che gli aguzzini altro potessero cavargli di bocca se non le parole: « Il mio nome è l’Italia ». Salvava con il silenzio i compagni, ma, portato irriconoscibile all’ospedale di Bergamo, chiudeva nobilmente poche ore dopo la sua fiera vita di soldato»
– Bergamo, 24 luglio 1944
Redazione, Il Colonnello Carlo Croce e il gruppo “Cinque giornate”, Italiani in guerra, 24 luglio 2018

[…] La mattina del 12 settembre [1943] Croce, con un centinaio di uomini e con tutto il materiale che riuscì a trasportare, tra cui la dotazione di un battaglione di bersaglieri ciclisti in fuga verso il confine, si trasferì a Roggiano e si acquartierò nelle postazioni militari costruite durante la prima guerra mondiale, in prossimità di Cascina Fiorini. In questo luogo si fermò per circa una settimana.
Le incursioni nelle caserme abbandonate di Luino e Laveno consentirono un buon rifornimento di armi, munizioni e viveri che il 19 settembre, caricati su autocarri militari e automezzi civili, furono trasferiti a Vallalta di San Martino in Villa San Giuseppe (zona ritenuta più idonea per la difesa della vallata), ex Caserma Luigi Cadorna, residenza estiva dell’Istituto Sordomute Povere di Milano, messa a disposizione degli undici militari rimasti: il tenente colonnello Carlo Croce, il tenente Germano Bodo, il sottotenente Franco Rana, il sottotenente Dino Cappellaro e sette soldati.
Il primo impegno fu quello di dotarsi di un nome: Esercito Italiano – Gruppo Militare Cinque Giornate Monte San Martino di Vallata Varese e di un motto: Non si è posto fango sul nostro volto.
Nei giorni successivi si apportarono miglioramenti alla caserma, si rese impraticabile, con un fossato e uno sbarramento, l’imbocco della strada per Mesenzana, si ripristinarono le postazioni in caverna, si realizzarono nuove postazioni all’aperto per mitragliatrici e si avviarono attività volte al recupero di materiale bellico e di viveri.
Il gruppo divenne ogni giorno più numeroso (per il continuo affluire di militari italiani e di soldati dei comandi alleati fuggiti dai campi di prigionia) fino a raggiungere la consistenza di centosettanta unità, tanto che il 22 ottobre 1943 il gruppo venne diviso in tre compagnie.
La Compagnia Comando presso il Forte era agli ordini del tenente Carlo Hauss, la Prima Compagnia nelle gallerie basse era comandata dal tenente Giorgio Wabre, la Seconda Compagnia nella Villa San Giuseppe obbediva al capitano Enrico Campodonico. Gli ufficiali subalterni erano il tenente Dino Cappellaro (nome di battaglia Barba) e il tenente Alfio Manciagli (nome di battaglia Folco). Furono nominati aiutante maggiore del colonnello Croce, il tenente Germano Bodo (nome di battaglia Lupo) e il cappellano della formazione, don Mario Limonta.
Importante si rivelò il sostegno del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) di Varese, la collaborazione di buona parte del clero locale e della popolazione dei paesi adiacenti al San Martino che iniziò gradualmente a realizzare fossati, sbarramenti e postazioni di difesa.
Con l’avvicinarsi dell’inverno e l’ingrossarsi delle fila partigiane i tedeschi si resero conto che l’azione partigiana avrebbe potuto costituire un serio pericolo, soprattutto in vista dell’arrivo degli eserciti anglo-americani, perciò andarono consolidando nel Varesotto la loro presenza con l’arrivo l’1 novembre 1943 di una compagnia di Polizia di montagna.
I nazifascisti iniziarono anche a costituire una rete di spionaggio con infiltrati nel gruppo e con gente del posto disposta a collaborare, o per condivisione dell’ideologia o per un riscontro economico. Per questa ragione, già ai primi di novembre, i comandi tedeschi erano a conoscenza dei componenti del gruppo, della provenienza dei rifornimenti, della dotazione di armi, dell’ubicazione delle fortificazioni.
Lo scontro si avvicinava, ma il colonnello Croce rifiutò i suggerimenti del C.N.L di Varese di abbandonare le posizioni poco difendibili e rifiutò anche il patteggiamento con gli emissari fascisti, messaggeri di proposte di resa. La sua risposta fu: “Deporremo le armi solo quando i tedeschi avranno lasciato l’Italia e l’Italia sarà liberata dal fascismo”.
A Rancio Valcuvia fu insediato il comando tedesco del 15° Reggimento di Polizia agli ordini del tenente colonnello Von Braunschweig, giunsero uomini della Guardia di Frontiera, pattuglie di artiglieri, Milizia fascista e Carabinieri.
Il 13 novembre 1943 fu diramato lo stato d’assedio in tutta la Lombardia, tutti gli esercizi pubblici furono chiusi fino a nuovo ordine e fu bloccata l’uscita dei quotidiani.
Il 14 novembre, con la collaborazione di carabinieri e milizia fascista, si diede inizio al rastrellamento della popolazione residente alle pendici del monte, furono catturati tutti gli uomini dai quindici ai sessantacinque anni e rinchiusi negli edifici pubblici o nelle chiese.
A Rancio Valcuvia i tedeschi concentrarono un numero considerevole di uomini considerati partigiani o collaboratori dei partigiani che subirono durissimi interrogatori, sevizie e torture. Tutte le persone rastrellate vennero poi liberate nelle giornate del 17 e 18 novembre al termine della battaglia.
Il 15 novembre Croce affidò il compito di disturbare l’arrivo delle pattuglie nemiche a gruppi mobili di partigiani, bloccando le strade.
A Duno tre partigiani attaccarono i primi automezzi e le prime pattuglie tedesche con bombe a mano che provocarono morti e feriti.
Una compagine di dieci uomini, agli ordini del tenente Alfio Manciagli (nome di battaglia Folco), spianò le armi contro il gruppo d’assalto tedesco proveniente da Arcumeggia, composto da circa ottanta uomini del Reggimento di Polizia e contro il plotone della Guardia di Frontiera e i gruppi di polizia in arrivo da San Michele.
Le azioni dovevano costituire motivo di disturbo nei confronti dei tedeschi per rallentare la loro discesa verso le postazioni fortificate di Vallalta.
Sul piazzale antistante l’ex caserma in Vallalta, crocevia di tutte le strade che salendo da valle portano sulla cima del monte San Martino, la mattina del 15 Novembre 1943 i mitraglieri della Seconda Compagnia della formazione partigiana impegnarono seriamente le pattuglie tedesche che tentarono di accerchiarli, infliggendo loro pesanti perdite.
Verso le ore dodici ci fu un attacco della Luftwaffe, un durissimo bombardamento aereo contro le postazioni arroccate sulla montagna.
I partigiani opposero estrema resistenza anche nel corso del bombardamento aereo fino all’esaurimento delle munizioni che li costrinse a ritirarsi nel sottostante Forte.
La Compagnia Comando era posizionata a difesa del Forte e dell’accesso da San Michele e la Prima Compagnia a protezione della strada per Mesenzana.
A quel punto i tedeschi attaccarono la vetta. Nonostante l’eroica resistenza, i partigiani furono sopraffatti e sei di loro catturati. Tedeschi e fascisti attaccarono il resto della formazione con armi di ogni tipo.
Parecchi ragazzi della Prima Compagnia, terrorizzati dalla ferocia della lotta, abbandonarono le loro postazioni in cerca di una via di fuga.
Alcuni furono catturati dai tedeschi e fucilati il giorno successivo, dopo interrogatori e sevizie di ogni genere, con tutti gli altri partigiani fatti prigionieri nel corso della battaglia.
L’arrivo dell’oscurità costrinse i tedeschi a sospendere ogni azione permettendo così ai partigiani di ricompattarsi, distruggere i materiali rimasti, occludere gli accessi alle gallerie e organizzare la fuga verso la Svizzera, che raggiunsero all’alba del 16 novembre.
Anche Croce, pur ferito, si diresse verso la Svizzera, trasportando gli altri feriti. Successivamente, insofferente per l’inazione, varcò nuovamente il confine con sei compagni. Circondato da nemici, gravemente ferito a un braccio, fu fatto prigioniero. Prelevato dalle SS (Schutzstaffeln – reparti di difesa) dall’ospedale di Sondrio poche ore dopo aver subito l’amputazione del braccio destro, venne barbaramente torturato. Morì a Bergamo il 24 luglio 1944. Dopo la fine della guerra fu insignito della Medaglia d’oro al Valor militare alla memoria. […]
Redazione, La battaglia di Monte San Martino (VA), Le pietre raccontano, Comune di Cinisello Balsamo

[…] Era cominciata la Resistenza armata. Dopo i bombardamenti dell’agosto del ’43 che avevano semi distrutta e resa inabitabile la mia residenza di Milano, orfano del papà, con la mamma ero tornato nel basso novarese nella casa rurale dei nonni. Pendolavo tra Vespolate e Varese ospite degli zii e dove avevo molte amicizie.
L’episodio del San Martino mi aveva tenuto alquanto a lato. Eppure il mondo è tanto piccolo. Solo a guerra finita ho saputo che quel Colonnello Giustizia protagonista dell’eroica vicenda altri non era che il signor Carlo Croce che avevo conosciuto a Milano con l’officina in via Pietro Crespi all’angolo di Via Marco Aurelio, di rimpetto alla trattoria di mio zio Peppino.
[…] A guerra finita ho avuto la conferma dei miei convincimenti quando mi ritrovai con Raffaello Uboldi e Luigi Vismara, socialisti, giornalisti affermati al “Giorno” di Italo Pietra. Uno inviato speciale e l’altro corrispondente da Mosca.
Ero rimasto in contatto con Pino Vignali, un vero amico abitante a Melegnano, di famiglia povera ma succube di uno zio decisamente fascista.
[…] Non ero un “renitente” perché non avevo ancora obblighi di leva ma la vita era egualmente difficile per i giovani oggetto di rastrellamenti da parte di GNR, Brigate Nere, bande fasciste di ogni genere desiderose di offrire ai tedeschi braccia per il lavoro coatto. Scavare fortificazioni, nel migliore dei casi, o l’invio in Germania.
Pendolavo e pedalavo tra la casa dei nonni e quella degli zii a Varese. Qualche oretta di bicicletta a buon ritmo sperando di non incappare in qualche posto di blocco soprattutto attraversando il Ticino nei pochi punti praticabili.
Il Natale del ’43 mi trovò quindi ancora confuso “ alla finestra “ in frequente compagnia con un altro giovane di Vigevano nascosto in casa di parenti, col quale scambiavo apprensioni, paure e speranze. Ascoltavamo ogni sera Radio Londra da un mio super Phonola a 5 valvole mignon, che consentiva la ricezione in onde corte.
[…] La Resistenza contro i nazifascisti si era fatta più dura e avevo riannodato i contatti con il gruppo di vecchi amici e compagni antifascisti varesini. In un gruppo di azione partigiana partecipai ad alcune azioni di sabotaggio. Ero molto giovane e i più anziani che avevano già combattuto sui fronti di guerra poco si fidavano dall’imberbe studentello che si era aggregato a loro. Infatti mi affidavano la funzione del “palo” e di ricognizione del territorio prima del colpo. Inoltre prestavo la mia Beretta calibro 9, quella famosa trovata nella marmellata dell’ufficialetto in fuga l’8 settembre. C’erano moschetti e qualche mitra procurati disarmando fascisti repubblichini ma difettavano le armi corte.
Per me andava bene così. Non avevo la tempra dell’eroe e il mordi e fuggi, classico della guerriglia, lo condividevo perfettamente. Del resto tutta l’organizzazione era garibaldina, fantasiosa, rapida del decidere e attuare azioni di attacco. Aspetti questi senz’altro positivi uniti tuttavia a pericolosa precarietà organizzativa. La conferma ci venne più avanti con “l’ottobre di sangue” che portò dolore e morte in numerosi gruppi partigiani […]
Ambrogio Vaghi, Natali di guerra, RMF online.it Varese, 20 dicembre 2019

Fonte: Mostra cit. infra

È il diario di guerra della Guardia di frontiera tedesca. Ricostruisce i fatti accaduti tra l’estate 1943 e il febbraio 1944 nel Varesotto, punto strategico per gli ebrei che volevano attraversare il confine.
Doveva essere l’albo d’onore del corpo militare, ma è stato sottratto al Comando tedesco da un gruppo di partigiani nel marzo 1945 e oggi è una delle fonti più importanti sulla Resistenza nel Varesotto.
Le sue 300 fotografie mostrano i luoghi, i protagonisti e le azioni degli occupanti tedeschi.
[…] A metà novembre, i tedeschi decidono l’attacco, con largo impiego di uomini e di mezzi.
13 novembre. Nella notte è arrivato da Milano a Varese un battaglione del 15 reggimento di Polizia rinforzato da unità di Aviatori appiedati, Milizia e Carabinieri di Milano. Quella stessa notte è stata circondata la zona occupata dai partigiani. 14 Novembre. Il 14 novembre è stato ristretto l’accerchiamento intorno alla zona occupata dai partigiani”.
Il Comando del reggimento di Polizia dirige le operazioni dalla Casa Comunale di Rancio Valcuvia. La Guardia di Frontiera si stabilisce a Mesenzana. Circa 2000 soldati occupano tutti i paesi intorno alla montagna, bloccano le strade e le comunicazioni.
Nella mattina di sabato 14 novembre con azioni simultanee i fascisti, sia in divisa sia in borghese, supportati dai tedeschi, rastrellano nei paesi di Arcumeggia, Casalzuigno, Duno, Cantevria, Cassano, Mesenzana, Brissago Valtravaglia gli uomini dai 16 ai 65 anni. Li rinchiudono nelle scuole e nelle chiese, per poi trasferirli nella chiesa di Rancio. In tutto sono circa 500. Vi rimangono tre giorni, fino al termine della battaglia perché non aiutino i partigiani e non ostacolino le operazioni militari.
Alle 6 del mattino del 15 novembre i gruppi d’assalto della Polizia attaccano partendo da Arcumeggia, con artificieri e cannoni anticarro.
Contemporaneamente altri gruppi salgono da San Michele, Mesenzana e Duno.

Fonte: Mostra cit. infra

 

Fonte: Mostra cit. infra

Alle 10 tre apparecchi iniziano il bombardamento e colpiscono la cisterna dell’acqua.
Subito dopo il bombardamento conquistano la vetta del monte, dove sorgeva l’antica chiesa di San Martino in Culmine.

Fonte: Mostra cit. infra

La vetta è presidiata da nove volontari al comando del Tenente Manciagli, Folco, che hanno il compito di rallentare la discesa dei tedeschi verso le postazioni fortificate di Vallalta. Resistono con una mitragliatrice leggera e bombe a mano per circa tre quarti d’ora. Esaurite le munizioni, lanciano il grido dell’Esercito Italiano: “Savoia!” e si scagliano contro i tedeschi. Vengono sopraffatti, fatti prigionieri e uccisi.

Fonte: Mostra cit. infra

I partigiani catturati sono davanti alla caserma. Poi, in camicia o a torso nudo, vengono condotti presso il muro della trincea per essere uccisi con un colpo di pistola alla nuca.
Gli altri continuano a combattere fino a sera:
Un gruppo d’assalto della Polizia il 15 novembre, nel pomeriggio, è avanzato dalla posizione in cima al monte verso le casematte, situate più in basso. A circa 70 metri da uno degli ingressi principali delle casematte è stato colpito da un pesante fuoco d’artiglieria. Il gruppo d’assalto ha avuto 4 morti sul colpo e parecchi feriti. Nel frattempo era scesa l’oscurità ed il gruppo si è ritirato nell’edificio e vi si è trincerato. Anche la sede del Comando del Reggimento, difesa dalla Guardia di Frontiera, è finita sotto il fuoco dell’artiglieria nelle ore serali del 15 novembre. Durante la notte nelle casematte si sono verificate violente esplosioni.
Scesa l’oscurità, il colonnello Croce, ormai perse tutte le speranze, guida il gruppo in Svizzera, raggiunta all’alba del giorno successivo. Prima di fuggire attraverso le gallerie della Linea Cadorna, con un’esplosione provoca la distruzione di tutti i materiali perché non cadano nelle mani dei tedeschi.
Il 16 novembre si è constatato che i partigiani si erano dati alla fuga, dopo aver fatto saltare le scorte di munizioni ed il loro parco automezzi. Tutta la zona è stata setacciata dalla Polizia e dalla Guardia di Frontiera: si sono recuperati i morti e fatti prigionieri e bottino d’armi, munizioni e mezzi di sussistenza.
I prigionieri vengono trasferiti a Rancio Valcuvia e torturati fino alla morte.
Qualche mese dopo i partigiani rientrano in Italia per continuare la lotta. Alcuni sono traditi e inviati nei campi di concentramento. Croce si reca in Valtellina ma anche lui è vittima di un tradimento e muore il 21 luglio 1944. è…]

Soldati del Presidio di Porto Valtravaglia schierati davanti al Municipio (Ap. P. De Micheli) – Fonte: Se non ci ammazza i crucchi…, cit. infra
Lettera del procuratore della Società Anonima Vetreria Milanese Lucchini e Perego al podestà di Porto Valtravaglia (ACPo) – Fonte: Se non ci ammazza i crucchi…, cit. infra

Con questo libro si compie un doveroso atto di riconoscenza nei confronti degli uomini del gruppo di militari e di giovani che si raccolsero attorno al tenente colonnello Carlo Croce in una delle prime formazioni di volontari, che verranno chiamati partigiani, costituitesi dopo l’8 settembre per opporsi alla occupazione tedesca e per riscattare l’onore della Patria. Fino ad ora a testimoniare quella pagina di storia combattuta in condizioni difficili vi è stato solo il piccolo opuscolo, pubblicato dalla Provincia di Varese, che riproduce una relazione, datata 1945, dell’allora Vice-comandante del gruppo, capitano Campodonico. Numerosi antifascisti e partigiani (De Bortoli, G. Macchi), storici (Giannantoni), giornalisti (Bocca) hanno scritto del gruppo “Cinque giornate”, nel contesto di studi più ampi e generali, esprimendo anche giudizi, a volte ingenerosi, sulle scelte militari compiute dal Comandante, scelte sicuramente non conformi alle norme di una guerra per bande e che si consolideranno solo dopo le esperienze compiute, anche dolorose, come dolorosa è stata la conclusione della vicenda di questa formazione.
Questo libro è il primo e unico tentativo di una accurata descrizione degli avvenimenti di quella formazione.
Una sola considerazione vale a testimoniare il valore della scelta compiuta da questi uomini, la scelta di rimanere a resistere e a combattere sul San Martino in Valcuvia, una piccola montagna dalla quale si vedono a due passi le vicine e ridenti località della Svizzera, tanto desiderate in quei giorni e mesi di legittime aspirazioni ad un rifugio sicuro dagli orrori della guerra e della tremenda repressione nazifascista. Già l’avere resistito a questa tentazione è stata una prova di coraggio, riconfermata poi dalla scelta compiuta da tanti appartenenti al gruppo che, dopo la ritirata in Svizzera seguita alla sconfitta subita nello scontro militare, decideranno di ritornare in Italia per riprendere la lotta e, come avvenne per il comandante Carlo Croce, lasciarvi eroicamente la vita. Questa pubblicazione, che esce con il contributo determinante del Sindacato pensionati della Cgil, vuole essere una rivisitazione della storia del gruppo partigiano che si riteneva giustamente parte integrante dell’esercito italiano. Infatti, come stabiliranno le istituzioni democratiche italiane alla fine del conflitto, verrà riconosciuta ad ogni partigiano di tutte le formazioni guidate dal comando del Corpo Volontari della Libertà […]
Angelo Chiesa, Presidente del Comitato provinciale dell’Anpi di Varese, Premessa in Francesca Boldrini, “Se non ci ammazza i crucchi … ne avrem da raccontar”. La battaglia di San Martino – Varese, 13-15 novembre 1943, I libri del sindacato pensionati della Lombardia, 2006, pp. 8,9

[…] Occorre tener conto che il Clnai non è riconosciuto, in quel periodo, come organismo dirigente della lotta nell’Italia occupata.
La direzione compete agli alleati e ai loro servizi d’informazione Soe e Oss, in subordine, con molte difficoltà, al Governo del Regno del Sud. Si possono solo formulare delle ipotesi, mancando oggettivamente dei riscontri documentali, sul progetto che vede il colonnello Croce come il perno su cui imbastire una formazione armata combattente legata al Governo del Sud. Si sono trovati tutti in Svizzera, Alessi, Croce, Fojanini, Motta e tutti hanno fatto riferimento al generale Tancredi Bianchi della Legazione del Regno del Sud a Berna. Il tentativo di dare una struttura compiuta, su tutto il territorio dell’Italia occupata, che rappresenti la forza armata del Governo del Sud è il compito che si era assunto il gruppo dei Volontari Armati d’Italia [Vai/VAI/V.A.I.] con a capo il Kulczycki. I militari che sono rientrati dalla Svizzera potevano rappresentare l’ossatura di una formazione militare che si sviluppava partendo da un territorio in cui c’era una rete di appoggio. La media Valtellina appariva come un territorio ideale, difficili ma non impossibili i contatti con la Svizzera, una rete locale con cui è possibile intendersi senza troppi problemi, la possibilità dei collegamenti con la valle Camonica dove il generale Masini ha sviluppato il gruppo delle Fiamme Verdi, il collegamento naturale con le bande dell’alta valle. Una traccia che corrobora questa ipotesi è un documento che si trova in mano al Ponti, lo Statuto del Vai «145».
Anche le interviste a Placido Pozzi, Alonzo, e Antonio Sala della Cuma Scipione «146» confermano lo sviluppo della rete del Vai. Sala della Cuma è assistente dell’Azienda Elettrica Municipale di Milano presso il cantiere della centrale di Lovero – paese lungo la strada tra Tirano e Sondalo-, dove i lavori iniziarono nel 1942, in piena guerra, e poterono essere conclusi solo a guerra finita nel marzo del 1948. É lui che tessa la rete che lo lega tramite il direttore dei lavori alla stessa Aem e poi alla Edison dove, oltre a Parri e in subordine Corti, lavora il fratello di Kulczycki «147». Sono gruppi che si sviluppano in alta valle: nel bormiese il gruppo Alonzo, a Grosio e Grosotto il Visconti-Venosta.
Nei dintorni di Sondrio il Comitato che si era formato si è andato gradualmente sbandando, nella primavera resiste ancora il gruppo di Torti sopra Spriana, all’inizio della Valmalenco, è su questo gruppo e sui suoi contatti che Croce pensa di sviluppare la rete? Sembra di sì.
D’altra parte Sala della Cuna, di orientamento «repubblicano e con un nonno garibaldino» «148», il 10 settembre si incontra con l’ing. Carulli dell’Aem a Sondrio, poi è a colloquio con Alessi e Fojanini, quattro giorni dopo, munito di un lasciapassare dell’Aem è a Bergamo, nel castello di Valverde – nella zona della città alta – dove incontra il colonnello degli alpini Modesto Antonio Leonardi. Il militare si presenta come responsabile del Vai «149». Il 2 ottobre ha un nuovo incontro a Sondrio con Gola, Torti e Alessi, il 6 ottobre è a Milano, dove incontra Parri e Corti. Il 27 novembre avviene una riunione con Parri, Leonardi, l’ing. Carulli e Sorini dell’Aem e Luigi Gagetti «150».
Luigi Gagetti, assieme al fratello Giovanni, si era dato da fare incontrando il gen. Roberto Landreani e don Felice Cantoni a quel tempo parroco di Vervio. Nella riunione del 27 novembre Luigi Gagetti, Tiberio, è indicato come comandante del Vai della Valtellina. Diversa la via che segue Placido Alonzi il quale solo nel dicembre del ’43 per tramite del maresciallo dei CCRR Martucci e del tenente Pugliesi della Guardia di Finanza si mette in contatto con il generale Masini «151» che sta organizzando le Fiamme Verdi. Già a novembre però le formazioni, che si erano date al recupero delle armi e a stabilire forme di finanziamento per le formazioni in montagna, si assottigliano. Dove finiscano gli uomini che erano in montagna, non è certo, possiamo ipotizzare che alcuni uomini valtellinesi si rifugino nella vicina Svizzera, altri rimangono nelle loro baite in montagna, qualcuno riesce a regolarizzare la propria posizione e rientra nei paesi. Mentre sta arrivando l’inverno, si pensa solo a come superarlo senza incappare nelle milizie fasciste. Tutto sembra fermarsi fino al primo arrivo di Croce in Valtellina.
[…] Da quest’alpe si può o scendere verso Spriana oppure direttamente verso Tresivio con un percorso ancora faticoso. La durezza di questi percorsi ha sempre spinto il contrabbando o verso il fondovalle nella zona di Tirano o verso la valle Grosina. La scelta di questi sentieri si presenta utile negli anni 1943-1945 perché sono più liberi dai fascisti della Gnr di Frontiera che presidiano il territorio.
Croce è ferito nello scontro a fuoco, portato a valle su di una rudimentale barella dagli uomini del Ten. del Curto della GNR Confinaria che ha un distaccamento a Chiesa di Valmalenco (960 m) ed un presidio a Campo Francia (1518 m). La discesa non deve essere facile, il trasporto di un uomo ferito, anche se barellato in una valle relativamente ripida come la val Togno impegna gli uomini e deve durare qualche giorno.
I militi della GNR sanno subito che tra gli uomini catturati, c’è un «colonnello Croce», questo gli dice il famoso fascio di documenti che è trovato sul luogo dello scontro, ma non sanno chi sia. Croce è uno sconosciuto. La relazione indirizzata dal tenente Dal Curto del distaccamento di Chiesa Valmalenco della Milizia Confinaria comprende l’elenco del denaro recuperato e delle rispettive valute (200.000 lire e 375 franchi svizzeri), un elenco di documenti personali che fanno riferimento a Alberto e Carlo Croce, George(s) Vabre Brevi (sic!), Silvio Prestini, Mario Brevi – probabile sia lo stesso George-. Vi è anche una comunicazione al colonnello Giustizia [ Carlo Croce nda] in merito alle forze fasciste e tedesche in Varese; alcuni stralci dei giornali svizzeri del 17.11.1943: Popolo e Libertà, Gazzetta Ticinese, Libera Stampa; una lettera in francese di Georges Vabre «152 »dal campo di Ceuterschwill «153», due comunicazioni del gruppo 5 giornate, lo stralcio della rubrica alfabetica, un elenco nominativo contenuto nel ruolino a quaderno.
Con il colonnello nello scontro sono catturati: il capitano Meschi (morto poi a Mauthausen) i tenenti Monti e Tibiaca, il tenente francese Vabre e altri due sconosciuti «154». Il ferito è portato all’ospedale di Sondrio, gli altri in carcere. All’interno della struttura agisce come spia tale Seschiatti. Si fa passare per detenuto per reati comuni e in cella cerca di carpire notizie dagli arrestati. La manovra è coordinata dal questore ausiliario di Sondrio Antonio Pirrone con il concorso di tali Cabibbo e Germanò «155». L’operazione ha buon esito, i «due sconosciuti» catturati in alta Valmalenco sono i capitani Sacchi e Bogren: è quest’ultimo che in cella con Seschiatti svela l’identità del ferito. In conseguenza a questo il colonnello Croce dopo le prime cure all’ospedale di Sondrio è trasferito a Bergamo, dove c’è il tribunale militare tedesco, ma non sopravvivrà e morirà in ospedale il 24 luglio 1944.
Se l’avventura di Croce finisce in modo tragico, perché muore per i postumi delle ferite aggravate dal trasporto in montagna, se l’avventura di alcuni suoi uomini si definirà nella deportazione, per altri l’avventura in Valtellina continuerà nei mesi seguenti.
Personaggio che merita attenzione è il francese Vabre. Nel dopoguerra in contatto con Giacinto Lazzarini ci lascia una dichiarazione in cui afferma che dopo gli interrogatori a Sondrio e a Bergamo, viene tradotto a Milano nel carcere di S. Vittore. In seguito è trasferito nel campo di concentramento di Bolzano e, da lì, ai campi di concentramento di Dachau il 9 ottobre 1944, a Buchenwald il 9 novembre 1944 e, infine al campo di lavoro di Ohrdruf il 15 novembre 1944. Evaso da detto luogo il 27 marzo 1945, è recuperato dagli americani, il 3 aprile 1945, che lo portano in Francia e lo fanno ricoverare presso l’Ospedale Militare di Bercy il 12 maggio 1945. Queste dichiarazioni sono accompagnate da due lettere che segnano una svolta nei rapporti con il Lazzarini.
Vabre accusa senza mezzi termini che la causa della sua (e conseguentemente di Croce e compagni) cattura è di Campodonico della cui collaborazione con i fascisti non abbiamo conferme. Tra la prima e la seconda lettera poi c’è una modifica dei rapporti con il destinatario, sembra che il Lazzarini eviti accuratamente di incontrare il Vabre, soprattutto alla presenza di altri, ignori anche una commemorazione dei fatti del San Martino; il Vabre sente odore di bruciato e, seppur cortesemente, esprime le sue rimostranze «156».
L’operazione tentata dal colonnello Croce non potrebbe essere stata la sola, c’è un riferimento, che non ha trovato altri riscontri in due documenti della 40a brigata Garibaldi G. Matteotti Fronte Nord «157». Tale colonnello Ventura è arrivato in val Chiavenna dalla Svizzera, ha effettuato un sopralluogo garantendo la possibilità di far rientrare dalla Confederazione uomini e materiali. Chiede altresì di far avere al «Comitato di Milano» la relazione da lui preparata; Dionisio Gambaruto, che la invia, la accompagna con una nota di giudizio negativo. L’unica altra nota trovata è l’interrogativo se Ventura ed il colonnello Cavallero [Cavaleri nda] non siano la stessa persona «158».

Uno scorcio di Val Chiavenna – Foto: Simone Perego

145 La presenza dello Statuto del Vai nell’archivio privato di Angelo Ponti è citata in M. FINI, F. GIANNANTONI, La Resistenza più lunga, cit., p. 51. Il testo dello statuto è in P. PAOLETTI, Jerzy Sas Kulczycki Colonnello Sassi”. Il primo organizzatore militare della resistenza in Veneto (settembre-dicembre 1943), Edizioni Menin, Schio, 2004, p. 92; idem, Volontari Armati Italiani (V.A.I.) in Liguria (1943-1945), cit., p. 27.
146 Intervista a Placido Pozzi e a Antonio Sala Della Cuna, Issrec, Fondo: Anpi di Sondrio, Fascicolo: “Relazioni e interviste Bassa valle”; Testimonianze, Busta 2, Fasc. 18 carte sd [1945 – 1970];
147 relazione sulla costituzione e l’attività del gruppo Visconti Venosta, Issrec, fondo ANPI, b. 2, fsc. 12 brigata Mortirolo”. Jerzy non ha fratelli ma sorelle, potrebbe trattarsi di qualcun altro famigliare (cfr. https://www.geni.com/people/Sigismondo-Sas-Kulczycki/6000000000687378316)
148 Antonio Sala della Cuna, (Scipione)- commissario della brigata Mortirolo” della 1a Divisione Alpina Valtellina G.L., IscComo, fondo Franco Giannantoni, b. Valtellina n. 1. La scala temporale non è molto precisa, il V.A.I. ha bisogno di tempo per organizzare la sua rete e non può essere già presente a ridosso dell’otto settembre.
149 In base a quanto afferma la moglie del col. Modesto Antonio Leonardi «Il castello di Valverde era stato abbandonato [dopo l’otto settembre nda] per motivi di sicurezza […] il colonnello Leonardi, ricercato da nazisti e tedeschi, era andato in Svizzera dove si era incontrato con Maria Josè»; appunti sull’incontro con la moglie del col. Modesto Antonio Leonardi (aprile 1978), IscComo, fondo Franco Giannantoni, b. Valtellina n. 1, fasc. 7° cap.
150 Luigi Gagetti di Michele e di Nella Maria nato a Vervio il 29 dicembre 1920, caduto a Boscaccia di Sondrio il 19 agosto 1944 allo scopo di procurarsi armi, Issrec, fondo Teresio Gola, b. 5, fasc. 37.
151 Interessante notare che nella ricerca di Franco Catalano questa rete di relazioni non viene nominata e non viene citato neppure il Vai. Una nota meritano anche i rilevamenti che Teresio Gola e Cesare Marelli fanno alla ricerca di Franco Catalano dove, anche qui, non si trova nessun riferimento al Vai. È Ferruccio Scala, forse il più profondo conoscitore della Resistenza in Valtellina, che ritiene «inquadrati subito nel Vai» i comandi che difendono le centrali elettriche. Non si perde neppure la polemica politica post-liberazione tra socialisti e comunisti, Scala che scrive su L’Adda (settimanale del Pci) considera in blocco socialisti gli appartenenti del Vai.
152 F. GIANNANTONI, La notte di Salò (1943-1945), cit., p. 202. George Vabre Brevi e Mario Brevi potrebbero essere la stessa persona, secondo Francesca Boldrini «Il francese tenente Vabre anagramma il cognome e si presenta come Brevi per garantirsi un certo anonimato.» idem, Se non ci ammazza i crucchi…, cit. p. 76
153 Località non individuata.
154 cfr. GIANFRANCO BIANCHI, E’ necessario spogliare dai paludamenti retorici e dall’agiografia la storia della Resistenza, cit. I due tenenti Monti e Tibiaca non risultano negli elenchi dei documenti sequestrati. Meschi Lorenzo. Nato a Olmo al Brembo (BG) il 15.02.1901. Socialista. Viene poi incarcerato a San Vittore, matr. 2938, cella 60, raggio 5°, è citato come Renzo. Parte il 7.9.1944 per Bolzano campo. Da qui riparte il 14.12.1944 e giunge il 19.12.1944 a Mauthausen. Matr. 114030. Il 21.2.1945 viene spostato a St. Aegyd (Mau). Muore durante la marcia St.Aegyd/Mauthausen che giunge a destinazione il 5.4.1945. La sua vicenda burocratica legata al riconoscimento partigiano è in Issrec, fondo ANPI, fasc. caduti, ad nomen.
155 Cfr. Cronaca Giudiziaria, della Corte di Assise Straordinaria, anno 1, n. 1, Sondrio 14 giugno 1945, in Issrec, fondo ANPI Sondrio, b. 2, fasc. 20.
156 Cfr. Lettera di Giorgio Vabre, del 3 novembre 1970, indirizzata a Giacinto Lazzarini, Museo Civico di Storia Naturale ‘M. Ambrosiani’, Comune di Merate, Archivio Giacinto Lazzarini, busta Profili, fasc. Vabre George. Il passaggio di Vabre nel carcere di San Vittore non è certificato (probabile il suo ingresso nel raggio tedesco), né si ha un ricontro della sua presenza nei campi. Questo è possibile anche se nella sua lettera Ohrduf ha la grafia sbagliata e i campi diventano tutti campi di eliminazione. Il passaggio da San Vittore potrebbe essere oscurato dalla detenzione nel braccio tedesco, di cui abbiamo i registri ma non per il periodo di detenzione Vabre. Il rapporto con Giacinto Lazzarini, che non è argomento di questo studio, ha in ogni caso interesse perché il Lazzarini sarà un gran narratore di storie nella zona del lecchese. Anche Enrico Campodonico sembra sfuggirci nella deportazione ma viene incontrato nel rietro
in Italia da Franco Mariconti che lo incontra a Insbruck proveniente da Mauthausen: G. MARICONTI, Memoria di vita e inferno. Percorso autobiografico dalla spensieratezza alla responsabilità, Il Papiro Editrice, s.d., p. 199; anche in http://www.deportati.it/wp-content/static/upl/ma/mariconti.pdf, ultimo contatto 25.01.2018, copia in possesso degli autori.
157 Fondazione Istituto Gramsci, Brigate Garibaldi Lombardia,40 brigata “Matteotti”, 10 luglio 1944-10 luglio 1945, IG 503, IG 511.
158 F. GIANNANTONI, L’ombra degli americani sulla Resistenza al confine tra Italia e Svizzera, Essezeta-Arterigere, Varese, 2007, ad nomen. Nonostante la disinvoltura di accorpare documenti, non si comprende perché Ventura diventi Venturi, né quest’ipotesi che dietro lui ci fosse Titta Cavaleri. Non depone in questo senso la richiesta di inviare a Milano la relazione da lui preparata né l’interrogativo che si trova in: Fondazione IG, Brigate Garibaldi Lombardia, 1a Divisione “Lombardia”, doc. 0712. La richiesta di controllare se Ventura e Cavallero siano la stessa persona in: Raggruppamenti Divisioni d’Assalto garibaldine Lombarde. Comando. Al Comando Regionale Lombardo; Fondazione IG, Brigate Garibaldi, Raggruppamento divisioni garibaldine lombarde, doc. 01190.
Massimo Fumagalli e Gabriele Fontana, Formazioni Patriottiche e Milizie di fabbrica in Alta Valtellina. 1943-1945, Associazione Culturale Banlieu

Celebrazione dell’XI° anniversario della battaglia del San Martino, Mesenzana, 15 novembre 1954. Da destra: Antonio De Bortoli, Alberto Croce, Albertina Seveso Croce, Ada Croce (ACM)- Fonte: Se non ci ammazza i crucchi…, cit.

[…] Il compito ricevuto dal generale Tancredi Bianchi, delegato militare italiano a Berna, era quello di assumere il comando militare delle formazioni moderate operanti in alta Valtellina ed in Val Camonica, inquadrate in ‘Giustizia e Libertà’ e sostenute economicamente dalle industrie elettriche, dalla Edison all’Orobia, dalla Falck all’Azienda Elettrica Milanese, proprietarie delle numerose centrali e delle dighe della zona 23.
Germano Bodo, con il fratello Gianni, Carlo Baruffi, Adolfo Folatti e Pedrola, un alpino di Ardenno, abbandona la Svizzera il 14 giugno 1944. A Poschiavo è atteso da Gaetano Mitta e dal cognato Isacco che lo accompagnano lungo il percorso Passo Confinale, Alpe Musella, Torre S. Maria. Raggiunge dopo alcuni giorni Tresivio per incontrare Caterina Guicciardi e Lei, referenti di Croce in zona, per concordare quale sia la via più sicura per il rientro del colonnello.
Si decide per la Val Malenco, potendo contare su un sicuro servizio di accompagnamento e sulla collaborazione dei partigiani di Sondrio che hanno garantito sostegno alla costituzione delle basi logistiche e adeguati rifornimenti di mezzi, viveri e armamenti.
Le decisioni scritte su lettera vengono spedite al colonnello Croce tramite i Mitta, ma non si hanno riscontri se il colonnello abbia o meno ricevuto tale missiva. Come non lo ha mai raggiunto, perché censurata dal servizio di censura dell’internamento, una comunicazione del dottor Konig del comitato svizzero di soccorso operaio di Lugano, spedita il 28 giugno 1944, nella quale si chiedeva di “parlare urgentemente con lei [Croce].” 24.
Nel frattempo Bodo e i suoi uomini si trasferiscono a Spriana in località Castellaccio, zona impervia e raggiungibile solo a piedi e con ampia visuale sulla Val Malenco e sulla Val di Togno, presso baite che possono ospitare decine di uomini, con l’intenzione di mantenere i collegamenti con la signora Guicciardi nel caso che il colonnello avesse deciso di intraprendere un itinerario diverso.
I gruppi di militari, che rientrano senza preavviso dalla Svizzera, vengono convogliati al Castellaccio. Questi espatri in Val Malenco non passano inosservati e allarmano i nazifascisti che intensificano i loro controlli. Per maggior cautela il gruppo di Germano Bodo, in attesa di Croce, si trasferisce all’interno della Val di Togno.
Croce, probabilmente a Poschiavo o appena superato il confine svizzero, si ritrova con altri fuoriusciti, il capitano Meschi, i tenenti Monti e Tibiaca, Vabre e altri due uomini e, insieme a loro, si dirige al Painale, come risulta dalla comunicazione ricevuta dai partigiani valtellinesi acquartierati al Boirolo 25.
Il 13 luglio il gruppetto è intercettato all’Alpe del Painale, nella baita denominata ‘Cascina Palù’, da una pattuglia della Prima Compagnia Confinaria guidata dal tenente Aldo Del Curto, impegnata in un rastrellamento.
Durante il fermo intimato dai fascisti, Croce viene colpito ad entrambe le braccia da due colpi di moschetto sparati contro di lui, da una distanza di 15 metri, dal caporale Domenico Vedovatti. Il ferito, che presenta lo sfracellamento del gomito destro e la rottura dell’arteria omerale sinistra appena sotto il gomito sinistro 26, rimane all’interno della baita, sorvegliato da due uomini, finché giunge a prelevarlo un gruppo di altri militi. Su una barella di fortuna, dopo un cammino di ore con una sosta a metà strada presso una Caserma della Guardia di Finanza, Croce, giunto a valle, è trasportato il 17 luglio 1944 27 all’ospedale di Sondrio sotto il falso nome di Carlo Francesco Montuoro 28.
23 F. Giannantoni, La notte di Salò (1943-1945). L’occupazione nazifascista di Varese dai documenti delle camicie nere, Arterigere, Varese, 2001, vol. I, p. 130.
24 AFBe, vol. 917, Dossier E 5791-1 Zensur Personal Dossier Italianer.
25 Testimonianza di Caterina Boggio Marzet Guicciardi in M. Fini, F. Giannantoni, La Resistenza più lunga. Lotta partigiana e difesa degli impianti idroelettrici in Valtellina: 1943-1945, Sugarco, Milano, 1984, p. 40.
26 Ap Alberto Croce, Relazione manoscritta del professor Edoardo Preto del 6 giugno 1945 avente come oggetto “Relazione sulla degenza del Colonnello Croce Carlo in questo ospedale”.
27 Ap Alberto Croce, Cartella clinica del colonnello Croce rilasciata dall’Ospedale Civile di Sondrio.
28 Montuoro Carlo Francesco era il nome di uno zio di Carlo Croce ed era il nome che Croce intendeva utilizzare per celare la propria identità in caso di arresto e interrogatorio. La perfetta conoscenza di un nome impedisce di cadere in contraddizione o di correre il rischio di improvvise amnesie.
Francesca Boldrini, Il tenente colonnello Carlo Croce in Op. cit., pp. 37,38

Carlo Croce
Fonte: Italiani in guerra, cit. infra

Carlo Croce nasce a Milano il 15 aprile 1892, si arruola nel Regio Esercito, come soldato di leva, nel Distretto di Milano, dal quale viene congedato il 4 giugno 1912, ma subito richiamato in servizio attivo il 5 agosto dello stesso anno., ed assegnato al 5º Reggimento bersaglieri. Promosso caporale, fece carriera rapidamente, promosso caporale maggiore (5 dicembre 1913), e sergente (31 ottobre 1914), il 25 ottobre del 1915 diviene Aspirante ufficiale, ed è promosso sottotenente di complemento il 17 dicembre successivo, in forza al 7º Reggimento bersaglieri.
Tenente dal 29 dicembre 1916, diviene capitano il 1 agosto 1918, prestando poi servizio nel 22°, 12° ed ancora al 7º Reggimento bersaglieri. Congedato il 9 aprile 1920, si stabilisce a Milano avviando l’attività di industriale nel settore delle carrozzelle per disabili. Promosso 1º capitano il 26 dicembre 1930, diviene maggiore il 22 febbraio 1939. […] Tutto questo materiale fu trasferito al Quartier generale nella ex caserma “Luigi Cadorna” di Vallalta di San Martino, dove Croce stabili la sede del comando, su camion militari e automezzi civili requisiti. L’impegno successivo fu di dare un nome al reparto, che fu battezzato ufficialmente Esercito Italiano-Gruppo Militare “Cinque Giornate” Monte San Martino di Vallata Varese. Croce ormai soprannominato colonnello “Giustizia”, ribattezzò il San Martino “ Zona d’Onore”.
Nel frattempo, benché gran parte dei soldati avesse tentato il ritorno a casa, la formazione fu poi rimpolpata dall’afflusso di altri ex-sbandati intenzionati a prendere le armi contro i tedeschi: non solo italiani (militari e civili) ma anche prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento, fino a raggiungere la consistenza di 170 unità tanto che il 22 ottobre 1943 il gruppo venne diviso in tre compagnie.
Inizialmente le azioni del gruppo “Cinque Giornate” si limitarono all’irrobustimento delle fortificazioni e delle postazioni, allo scavo di fossati e trincee, alle “puntate” a valle per il rifornimento di viveri e alla sorveglianza delle strade vicine. Da notare è il fatto che Croce organizzò la formazione come un vero e proprio reparto del Regio Esercito, avendo in mente una linea “attendista” e non una guerra mobile che si avvaleva della conoscenza del terreno: l’esatto contrario della tattica che in seguito sarebbe stata adottata dalle formazioni partigiana.

Fonte: Italiani in guerra, cit. infra

Le disposizioni da accettare per assere accolti nel gruppo “Cinque Giornate”
Fonte: Italiani in guerra, cit. infra

A nulla servì il tentativo di un rappresentante del CLNAI di convincere Croce a suddividere i suoi uomini in gruppi di minore consistenza, ma più agili e adatti alla guerriglia, che avrebbero prolungato la sopravvivenza della formazione aumentandone anche l’efficacia. Inoltre la scarsa segretezza che contraddistingueva il reparto, da notare che gli appartenenti allo stesso, avevano regolari carte di identità militari con tanto di fotografia, lo rese facilmente infiltrabile dallo spionaggio nemico, così che non fu difficile raccogliere informazioni sulla consistenza e sui punti deboli del Gruppo.
Per le prime settimane il “Cinque Giornate” non sembrò preoccupare troppo i tedeschi, ma con l’avanzare dell’inverno si temette che la formazione “ribelle” potesse costituire un intralcio nel controllo del territorio, per cui il 13 novembre fu proclamato lo stato d’assedio e il giorno seguente tutti gli uomini dai 15 ai 65 anni furono rastrellati dai paesi siti ai piedi delle montagne e rinchiusi negli edifici pubblici o nelle chiese.
Il 14 novembre 1943 i tedeschi lanciarono un massiccio attacco contro le fortificazioni del San Martino: anche se largamente inferiori di numero, gli uomini di Croce riuscirono a tenere testa a ben duemila soldati della Wehrmacht. Dopo la battaglia, il 16 Novembre, parte con 42 uomini superstiti e raggiunge la Svizzera dove viene trasferito al campo di internamento di Buren.
Qui ha modo di dare un giudizio negativo riguardo le operazioni partigiane e per questo motivo nascono delle incomprensioni con i suoi uomini che porteranno alla nascita di due gruppi distinti. Riesce a instaurare comunicazioni con i partigiani italiani, con i Servizi segreti francesi, il Servizio svizzero della frontiera, la Legazione Militare Italiana, esponenti del Servizio informazioni inglese, Office of Strategic Services (americani che aiutano il rientro degli italiani pronti a lottare contro i fascisti).
In questo periodo progetta di far entrare in Italia, e più precisamente in Valtellina, 500 uomini dalla Svizzera. Con l’amico Alessi (comandante dei carabinieri di Sondrio) pianifica una strutturazione dei gruppi che si sono formati in Valtellina, questo progetto viene definito “Operazione Valtellina”. Nel 1944 esce clandestinamente dalla Svizzera per incontrare altri partigiani e programmare il rientro clandestino di molti esuli.
In Valtellina avviene l’incontro ma sorge il sospetto di essere spiati, infatti la casa dove soggiorna Croce viene circondata dalle SS. L’incontro quindi si interrompe e il colonnello torna in Svizzera. Nei mesi successivi si continuano a disporre nuovi progetti e programmi e il colonnello intanto cerca adesioni per un nuovo progetto di rimpatrio ma allo stesso tempo viene scoperto un giro di spie all’interno del gruppo.
Croce lascia la Svizzera con don Mario Limonta tramite ferrovia, ad una fermata il prete dimentica un pacco e perciò chiede al conduttore del treno di farlo recuperare e spedirlo ad un indirizzo di Poschiavo, questo insospettisce i gendarmi svizzeri che sottopongono il sacerdote ad un controllo con esito negativo. Poco dopo però viene arrestato dalla polizia militare ma Croce, riesce a sfuggire all’arresto ed a rifugiarsi in Valtellina.
Alcuni contatti del colonnello programmano il suo rientro e inviano dei mitra, ma non sono sicuri che questi siano stati ricevuti. Croce si dirige allora con un gruppo fuoriusciti al Painale. Il gruppo però viene intercettato e durante il fermo intimato dai fascisti Croce viene colpito dal caporale Vedovatti, ferita a un braccio che gli venne amputato. Il ferito rimane all’interno di una baita finchè un altro gruppo di militi lo trasporterà all’ospedale di Sondrio sotto il falso nome di Carlo Francesco Montuoro.
Gli altri partigiani vengono trasferiti dalla prigione di Sondrio al carcere di Milano e di questa cattura viene informato direttamente Benito Mussolini. Croce nonostante le proprie condizioni critiche cercò di rimanere in ospedale il più possibile così da organizzare una nuova fuga o prendere contatti con altre persone della Resistenza. I capi tedeschi intuirono il pensiero di Croce e trasferirono il comandante da Sondrio a Bergamo.
Durante il trasporto, il comandante chiese il perdono per chi l’aveva ferito a morte Arrivato all’ospedale militare della Clementina venne chiamato il cappellano militare don Matanza il quale darà l’estrema unzione al comandante che spirerò il 24 luglio del 1943. Lo stesso sacerdote celebrerà il funerale nel cimitero di Bergamo contro il volere dei tedeschi.
La signora Croce viene a conoscenza della sepoltura del marito grazie al maresciallo dei carabinieri Giovanni Rossi che lavorava presso il Comando tedesco e nonostante il rischio di essere arrestata, continuò a visitare la salma del marito. Il corpo del comandante verrà recuperato, dopo la Liberazione, da alcuni familiari che trasferirono il corpo a Milano nonostante l’opposizione degli americani. La salma verrà poi sepolta al San Martino insieme a quelle dei suoi compagni.
Il colonnello è stato insignito della medaglia d’oro al valor militare alla memoria con la seguente motivazione:
«Comandante di distaccamento del terzo reggimento bersaglieri a Porto Val Travaglia, con i suoi soldati e con alcuni patrioti organizzava, dopo l’armistizio, la resistenza all’invasore tedesco mantenendo le posizioni fortificate di San Martino di Vallalta. Più volte rifiutate le offerte del nemico, il 13 novembre 1943, con soli 180 uomini, sosteneva per quattro giorni di furiosa lotta l’attacco di 3000 tedeschi, infliggendo gravi perdite, abbattendo un aereo, distruggendo alcune autoblinde incappate su campo minato. Ferito e serrato senza apparente via di scampo, con ardita azione, sì apriva la strada fino al confine svizzero, trasportando gli invalidi e ritirandosi per ultimo dopo aver fatto saltare il forte. Insofferente di inazione e dopo un primo fallito tentativo di rientrare in Italia, varcava nuovamente il confine con sei compagni. Attorniato da nemici e gravemente ferito ad un braccio cadeva prigioniero. Prelevato dalle SS. dall’ospedale di Sondrio, poche ore dopo di avere subita l’amputazione del braccio destro, veniva barbaramente torturato senza che gli aguzzini altro potessero cavargli di bocca se non le parole: « Il mio nome è l’Italia ». Salvava con il silenzio i compagni, ma, portato irriconoscibile all’ospedale di Bergamo, chiudeva nobilmente poche ore dopo la sua fiera vita di soldato»
– Bergamo, 24 luglio 1944
Redazione, Il Colonnello Carlo Croce e il gruppo “Cinque giornate”, Italiani in guerra, 24 luglio 2018

[…] La mattina del 12 settembre [1943] Croce, con un centinaio di uomini e con tutto il materiale che riuscì a trasportare, tra cui la dotazione di un battaglione di bersaglieri ciclisti in fuga verso il confine, si trasferì a Roggiano e si acquartierò nelle postazioni militari costruite durante la prima guerra mondiale, in prossimità di Cascina Fiorini. In questo luogo si fermò per circa una settimana.
Le incursioni nelle caserme abbandonate di Luino e Laveno consentirono un buon rifornimento di armi, munizioni e viveri che il 19 settembre, caricati su autocarri militari e automezzi civili, furono trasferiti a Vallalta di San Martino in Villa San Giuseppe (zona ritenuta più idonea per la difesa della vallata), ex Caserma Luigi Cadorna, residenza estiva dell’Istituto Sordomute Povere di Milano, messa a disposizione degli undici militari rimasti: il tenente colonnello Carlo Croce, il tenente Germano Bodo, il sottotenente Franco Rana, il sottotenente Dino Cappellaro e sette soldati.
Il primo impegno fu quello di dotarsi di un nome: Esercito Italiano – Gruppo Militare Cinque Giornate Monte San Martino di Vallata Varese e di un motto: Non si è posto fango sul nostro volto.
Nei giorni successivi si apportarono miglioramenti alla caserma, si rese impraticabile, con un fossato e uno sbarramento, l’imbocco della strada per Mesenzana, si ripristinarono le postazioni in caverna, si realizzarono nuove postazioni all’aperto per mitragliatrici e si avviarono attività volte al recupero di materiale bellico e di viveri.
Il gruppo divenne ogni giorno più numeroso (per il continuo affluire di militari italiani e di soldati dei comandi alleati fuggiti dai campi di prigionia) fino a raggiungere la consistenza di centosettanta unità, tanto che il 22 ottobre 1943 il gruppo venne diviso in tre compagnie.
La Compagnia Comando presso il Forte era agli ordini del tenente Carlo Hauss, la Prima Compagnia nelle gallerie basse era comandata dal tenente Giorgio Wabre, la Seconda Compagnia nella Villa San Giuseppe obbediva al capitano Enrico Campodonico. Gli ufficiali subalterni erano il tenente Dino Cappellaro (nome di battaglia Barba) e il tenente Alfio Manciagli (nome di battaglia Folco). Furono nominati aiutante maggiore del colonnello Croce, il tenente Germano Bodo (nome di battaglia Lupo) e il cappellano della formazione, don Mario Limonta.
Importante si rivelò il sostegno del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) di Varese, la collaborazione di buona parte del clero locale e della popolazione dei paesi adiacenti al San Martino che iniziò gradualmente a realizzare fossati, sbarramenti e postazioni di difesa.
Con l’avvicinarsi dell’inverno e l’ingrossarsi delle fila partigiane i tedeschi si resero conto che l’azione partigiana avrebbe potuto costituire un serio pericolo, soprattutto in vista dell’arrivo degli eserciti anglo-americani, perciò andarono consolidando nel Varesotto la loro presenza con l’arrivo l’1 novembre 1943 di una compagnia di Polizia di montagna.
I nazifascisti iniziarono anche a costituire una rete di spionaggio con infiltrati nel gruppo e con gente del posto disposta a collaborare, o per condivisione dell’ideologia o per un riscontro economico. Per questa ragione, già ai primi di novembre, i comandi tedeschi erano a conoscenza dei componenti del gruppo, della provenienza dei rifornimenti, della dotazione di armi, dell’ubicazione delle fortificazioni.
Lo scontro si avvicinava, ma il colonnello Croce rifiutò i suggerimenti del C.N.L di Varese di abbandonare le posizioni poco difendibili e rifiutò anche il patteggiamento con gli emissari fascisti, messaggeri di proposte di resa. La sua risposta fu: “Deporremo le armi solo quando i tedeschi avranno lasciato l’Italia e l’Italia sarà liberata dal fascismo”.
A Rancio Valcuvia fu insediato il comando tedesco del 15° Reggimento di Polizia agli ordini del tenente colonnello Von Braunschweig, giunsero uomini della Guardia di Frontiera, pattuglie di artiglieri, Milizia fascista e Carabinieri.
Il 13 novembre 1943 fu diramato lo stato d’assedio in tutta la Lombardia, tutti gli esercizi pubblici furono chiusi fino a nuovo ordine e fu bloccata l’uscita dei quotidiani.
Il 14 novembre, con la collaborazione di carabinieri e milizia fascista, si diede inizio al rastrellamento della popolazione residente alle pendici del monte, furono catturati tutti gli uomini dai quindici ai sessantacinque anni e rinchiusi negli edifici pubblici o nelle chiese.
A Rancio Valcuvia i tedeschi concentrarono un numero considerevole di uomini considerati partigiani o collaboratori dei partigiani che subirono durissimi interrogatori, sevizie e torture. Tutte le persone rastrellate vennero poi liberate nelle giornate del 17 e 18 novembre al termine della battaglia.
Il 15 novembre Croce affidò il compito di disturbare l’arrivo delle pattuglie nemiche a gruppi mobili di partigiani, bloccando le strade.
A Duno tre partigiani attaccarono i primi automezzi e le prime pattuglie tedesche con bombe a mano che provocarono morti e feriti.
Una compagine di dieci uomini, agli ordini del tenente Alfio Manciagli (nome di battaglia Folco), spianò le armi contro il gruppo d’assalto tedesco proveniente da Arcumeggia, composto da circa ottanta uomini del Reggimento di Polizia e contro il plotone della Guardia di Frontiera e i gruppi di polizia in arrivo da San Michele.
Le azioni dovevano costituire motivo di disturbo nei confronti dei tedeschi per rallentare la loro discesa verso le postazioni fortificate di Vallalta.
Sul piazzale antistante l’ex caserma in Vallalta, crocevia di tutte le strade che salendo da valle portano sulla cima del monte San Martino, la mattina del 15 Novembre 1943 i mitraglieri della Seconda Compagnia della formazione partigiana impegnarono seriamente le pattuglie tedesche che tentarono di accerchiarli, infliggendo loro pesanti perdite.
Verso le ore dodici ci fu un attacco della Luftwaffe, un durissimo bombardamento aereo contro le postazioni arroccate sulla montagna.
I partigiani opposero estrema resistenza anche nel corso del bombardamento aereo fino all’esaurimento delle munizioni che li costrinse a ritirarsi nel sottostante Forte.
La Compagnia Comando era posizionata a difesa del Forte e dell’accesso da San Michele e la Prima Compagnia a protezione della strada per Mesenzana.
A quel punto i tedeschi attaccarono la vetta. Nonostante l’eroica resistenza, i partigiani furono sopraffatti e sei di loro catturati. Tedeschi e fascisti attaccarono il resto della formazione con armi di ogni tipo.
Parecchi ragazzi della Prima Compagnia, terrorizzati dalla ferocia della lotta, abbandonarono le loro postazioni in cerca di una via di fuga.
Alcuni furono catturati dai tedeschi e fucilati il giorno successivo, dopo interrogatori e sevizie di ogni genere, con tutti gli altri partigiani fatti prigionieri nel corso della battaglia.
L’arrivo dell’oscurità costrinse i tedeschi a sospendere ogni azione permettendo così ai partigiani di ricompattarsi, distruggere i materiali rimasti, occludere gli accessi alle gallerie e organizzare la fuga verso la Svizzera, che raggiunsero all’alba del 16 novembre.
Anche Croce, pur ferito, si diresse verso la Svizzera, trasportando gli altri feriti. Successivamente, insofferente per l’inazione, varcò nuovamente il confine con sei compagni. Circondato da nemici, gravemente ferito a un braccio, fu fatto prigioniero. Prelevato dalle SS (Schutzstaffeln – reparti di difesa) dall’ospedale di Sondrio poche ore dopo aver subito l’amputazione del braccio destro, venne barbaramente torturato. Morì a Bergamo il 24 luglio 1944. Dopo la fine della guerra fu insignito della Medaglia d’oro al Valor militare alla memoria. […]
Redazione, La battaglia di Monte San Martino (VA), Le pietre raccontano, Comune di Cinisello Balsamo

[…] Era cominciata la Resistenza armata. Dopo i bombardamenti dell’agosto del ’43 che avevano semi distrutta e resa inabitabile la mia residenza di Milano, orfano del papà, con la mamma ero tornato nel basso novarese nella casa rurale dei nonni. Pendolavo tra Vespolate e Varese ospite degli zii e dove avevo molte amicizie.
L’episodio del San Martino mi aveva tenuto alquanto a lato. Eppure il mondo è tanto piccolo. Solo a guerra finita ho saputo che quel Colonnello Giustizia protagonista dell’eroica vicenda altri non era che il signor Carlo Croce che avevo conosciuto a Milano con l’officina in via Pietro Crespi all’angolo di Via Marco Aurelio, di rimpetto alla trattoria di mio zio Peppino.
[…] A guerra finita ho avuto la conferma dei miei convincimenti quando mi ritrovai con Raffaello Uboldi e Luigi Vismara, socialisti, giornalisti affermati al “Giorno” di Italo Pietra. Uno inviato speciale e l’altro corrispondente da Mosca.
Ero rimasto in contatto con Pino Vignali, un vero amico abitante a Melegnano, di famiglia povera ma succube di uno zio decisamente fascista.
[…] Non ero un “renitente” perché non avevo ancora obblighi di leva ma la vita era egualmente difficile per i giovani oggetto di rastrellamenti da parte di GNR, Brigate Nere, bande fasciste di ogni genere desiderose di offrire ai tedeschi braccia per il lavoro coatto. Scavare fortificazioni, nel migliore dei casi, o l’invio in Germania.
Pendolavo e pedalavo tra la casa dei nonni e quella degli zii a Varese. Qualche oretta di bicicletta a buon ritmo sperando di non incappare in qualche posto di blocco soprattutto attraversando il Ticino nei pochi punti praticabili.
Il Natale del ’43 mi trovò quindi ancora confuso “ alla finestra “ in frequente compagnia con un altro giovane di Vigevano nascosto in casa di parenti, col quale scambiavo apprensioni, paure e speranze. Ascoltavamo ogni sera Radio Londra da un mio super Phonola a 5 valvole mignon, che consentiva la ricezione in onde corte.
[…] La Resistenza contro i nazifascisti si era fatta più dura e avevo riannodato i contatti con il gruppo di vecchi amici e compagni antifascisti varesini. In un gruppo di azione partigiana partecipai ad alcune azioni di sabotaggio. Ero molto giovane e i più anziani che avevano già combattuto sui fronti di guerra poco si fidavano dall’imberbe studentello che si era aggregato a loro. Infatti mi affidavano la funzione del “palo” e di ricognizione del territorio prima del colpo. Inoltre prestavo la mia Beretta calibro 9, quella famosa trovata nella marmellata dell’ufficialetto in fuga l’8 settembre. C’erano moschetti e qualche mitra procurati disarmando fascisti repubblichini ma difettavano le armi corte.
Per me andava bene così. Non avevo la tempra dell’eroe e il mordi e fuggi, classico della guerriglia, lo condividevo perfettamente. Del resto tutta l’organizzazione era garibaldina, fantasiosa, rapida del decidere e attuare azioni di attacco. Aspetti questi senz’altro positivi uniti tuttavia a pericolosa precarietà organizzativa. La conferma ci venne più avanti con “l’ottobre di sangue” che portò dolore e morte in numerosi gruppi partigiani […]
Ambrogio Vaghi, Natali di guerra, RMF online.it Varese, 20 dicembre 2019

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È il diario di guerra della Guardia di frontiera tedesca. Ricostruisce i fatti accaduti tra l’estate 1943 e il febbraio 1944 nel Varesotto, punto strategico per gli ebrei che volevano attraversare il confine.
Doveva essere l’albo d’onore del corpo militare, ma è stato sottratto al Comando tedesco da un gruppo di partigiani nel marzo 1945 e oggi è una delle fonti più importanti sulla Resistenza nel Varesotto.
Le sue 300 fotografie mostrano i luoghi, i protagonisti e le azioni degli occupanti tedeschi.
[…] A metà novembre, i tedeschi decidono l’attacco, con largo impiego di uomini e di mezzi.
13 novembre. Nella notte è arrivato da Milano a Varese un battaglione del 15 reggimento di Polizia rinforzato da unità di Aviatori appiedati, Milizia e Carabinieri di Milano. Quella stessa notte è stata circondata la zona occupata dai partigiani. 14 Novembre. Il 14 novembre è stato ristretto l’accerchiamento intorno alla zona occupata dai partigiani”.
Il Comando del reggimento di Polizia dirige le operazioni dalla Casa Comunale di Rancio Valcuvia. La Guardia di Frontiera si stabilisce a Mesenzana. Circa 2000 soldati occupano tutti i paesi intorno alla montagna, bloccano le strade e le comunicazioni.
Nella mattina di sabato 14 novembre con azioni simultanee i fascisti, sia in divisa sia in borghese, supportati dai tedeschi, rastrellano nei paesi di Arcumeggia, Casalzuigno, Duno, Cantevria, Cassano, Mesenzana, Brissago Valtravaglia gli uomini dai 16 ai 65 anni. Li rinchiudono nelle scuole e nelle chiese, per poi trasferirli nella chiesa di Rancio. In tutto sono circa 500. Vi rimangono tre giorni, fino al termine della battaglia perché non aiutino i partigiani e non ostacolino le operazioni militari.
Alle 6 del mattino del 15 novembre i gruppi d’assalto della Polizia attaccano partendo da Arcumeggia, con artificieri e cannoni anticarro.
Contemporaneamente altri gruppi salgono da San Michele, Mesenzana e Duno.

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Alle 10 tre apparecchi iniziano il bombardamento e colpiscono la cisterna dell’acqua.
Subito dopo il bombardamento conquistano la vetta del monte, dove sorgeva l’antica chiesa di San Martino in Culmine.

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La vetta è presidiata da nove volontari al comando del Tenente Manciagli, Folco, che hanno il compito di rallentare la discesa dei tedeschi verso le postazioni fortificate di Vallalta. Resistono con una mitragliatrice leggera e bombe a mano per circa tre quarti d’ora. Esaurite le munizioni, lanciano il grido dell’Esercito Italiano: “Savoia!” e si scagliano contro i tedeschi. Vengono sopraffatti, fatti prigionieri e uccisi.

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I partigiani catturati sono davanti alla caserma. Poi, in camicia o a torso nudo, vengono condotti presso il muro della trincea per essere uccisi con un colpo di pistola alla nuca.
Gli altri continuano a combattere fino a sera:
Un gruppo d’assalto della Polizia il 15 novembre, nel pomeriggio, è avanzato dalla posizione in cima al monte verso le casematte, situate più in basso. A circa 70 metri da uno degli ingressi principali delle casematte è stato colpito da un pesante fuoco d’artiglieria. Il gruppo d’assalto ha avuto 4 morti sul colpo e parecchi feriti. Nel frattempo era scesa l’oscurità ed il gruppo si è ritirato nell’edificio e vi si è trincerato. Anche la sede del Comando del Reggimento, difesa dalla Guardia di Frontiera, è finita sotto il fuoco dell’artiglieria nelle ore serali del 15 novembre. Durante la notte nelle casematte si sono verificate violente esplosioni.
Scesa l’oscurità, il colonnello Croce, ormai perse tutte le speranze, guida il gruppo in Svizzera, raggiunta all’alba del giorno successivo. Prima di fuggire attraverso le gallerie della Linea Cadorna, con un’esplosione provoca la distruzione di tutti i materiali perché non cadano nelle mani dei tedeschi.
Il 16 novembre si è constatato che i partigiani si erano dati alla fuga, dopo aver fatto saltare le scorte di munizioni ed il loro parco automezzi. Tutta la zona è stata setacciata dalla Polizia e dalla Guardia di Frontiera: si sono recuperati i morti e fatti prigionieri e bottino d’armi, munizioni e mezzi di sussistenza.
I prigionieri vengono trasferiti a Rancio Valcuvia e torturati fino alla morte.
Qualche mese dopo i partigiani rientrano in Italia per continuare la lotta. Alcuni sono traditi e inviati nei campi di concentramento. Croce si reca in Valtellina ma anche lui è vittima di un tradimento e muore il 21 luglio 1944. è…]
(a cura di ) Chiara Zangarini , Resistenza! 1943: la battaglia del S. Martino e la caccia agli Ebrei nel Varesotto dal libro Chronik, Varese 1943 nel diario della guardia di frontiera tedesca di Chiara Zangarini (Pietro Macchione Editore, 2017), Mostra, Pietro Macchione Editore, 2019

Resistenza! 1943: la battaglia del S. Martino e la caccia agli Ebrei nel Varesotto dal libro Chronik, Varese 1943 nel diario della guardia di frontiera tedesca di Chiara Zangarini, Pietro Macchione Editore, 2017, Mostra  Pietro Macchione Editore, 2019