Secondo Arendt, il lavoro ha lo scopo principale di soddisfare i bisogni elementari legati alla sopravvivenza delle persone

Hannah Arendt è una ebrea tedesca scampata al nazismo che si rifugia negli Stati Uniti, apolide prima per necessità e poi per scelta <250: è da qui che è essenziale partire per capire i suoi studi alla ricerca della condizione umana <251. Una condizione umana mortificata, se non addirittura agonizzante, prima a causa dei totalitarismi, poi per l’acuirsi della massificazione e dell’individualismo. Il compito primordiale a cui si è chiamati, secondo l’Autrice, è quello di ripensare l’umanità successivamente ai totalitarismi e prima che la massa e l’individuo siano inarrestabili, sostituendo “l’estraniamento, la solitudine, il terrore e la morte” con “la pluralità, l’uguaglianza, la collaborazione e la natalità” <252.
Allieva di Heidegger, come il maestro cerca il principio e l’origine: a differenza del maestro, però, non si concentra sul pensiero bensì sull’agire umano.
Nella fenomenologia della Vita activa (1958) la filosofa tedesca distingue tre differenti forme dell’attività umana: il lavoro, l’opera e l’azione.
Secondo Arendt, il lavoro ha lo scopo principale di soddisfare i bisogni elementari legati alla sopravvivenza delle persone <253, è perciò strettamente connesso agli aspetti prevalentemente organici della vita. Se vista isolatamente, la figura che genera è inquietante: è l’animal laborans, lo schiavo dell’antica Grecia, colui che era totalmente in balia della decisioni del padrone al quale offriva, senza alcun tipo di libertà, i propri servigi e, a volte, la propria vita. Per la filosofa ebrea l’assolutizzazione di questa dimensione del fare umano, avvenuta durante l’età moderna, ha portato alla nascita e allo sviluppo dei totalitarismi: essendo una attività che si realizza individualmente, non concede (da sola) all’uomo la possibilità di farsi uomo, di esprimere la propria essenza <254.
In parte diverso è il discorso per quanto riguarda l’opera: in questo caso, Arendt non parla già più di animal (laborans) ma di homo e, nello specifico, di homo faber, l’artigiano dell’antica Grecia, colui che forgia oggetti non per il consumo né per il bisogno, ma per l’uso che da essi ne deriva. L’homo faber, a differenza dell’animal laborans, è il primo vero costruttore di mondi: creando manufatti, dando forma alla materia, l’homo faber pone freno al “turbinio caotico del ciclo eterno della natura. All’ambiente naturale, selvaggio ed indifferenziato, subentra un mondo stabile e civile” <255. È, però, un uomo ancora incompleto perché isolato dagli altri uomini: è solo nel produrre i suoi oggetti, gli strumenti che hanno contribuito a modellare il mondo; li crea nella propria mente e quindi li realizza. Poi, certamente, li vende al mercato, ma ciò non è sufficiente per consentirgli la totale, libera espressione di sé, manca ancora qualche cosa: questo quid umanizzante, per la Arendt si ritrova solamente nell’azione, e nello specifico nell’azione politica (cioè della polis, della città). Solo nell’agire l’uomo si manifesta in quanto tale, nasce veramente <256 e appare in quanto uomo <257. L’azione è l’attività che non è finalizzata alla produzione di qualche cosa: il suo obiettivo è nel suo stesso farsi. Alcune arti come la danza, la musica, il teatro, sono azioni e lo è anche la politica: la parola, la discussione, la persuasione, la comunicazione, la relazione hanno il proprio fine in se stesse, non cercano un prodotto finale ma si concentrano sul processo. Nella dimensione dell’agire (politico) l’uomo realizza attivamente e coscientemente la propria unicità e libertà <258 per un semplice motivo: se lo svelarsi dell’uomo si genera nell’azione (politica), e l’azione (politica) ha fine in se stessa, nel suo procedere, ecco quindi che fine ultimo dell’azione (politica) è lo svelarsi autentico dell’attore stesso che la compie, cioè l’uomo.
C’è un aspetto ulteriore da prendere in esame: la manifestazione dell’uomo avviene “correlativamente alla nascita di un ‘mondo comune’ (koinon) […]. Tale sfera comune non è altro che il frutto dell’agire comune dei cittadini, i quali, con la forza della parola e della persuasione, concorrono a prendere le decisioni fondamentali della città. Il ‘mondo comune’ frutto dell’azione segna la nascita del ‘mondo umano’, perché in esso, a differenza che nel lavoro e nell’opera, appare l’uomo nella sua originarietà” <259. La comunità politica, l’unica fondante la comunità umana, deve trovare la sua dimensione più profonda nella praxis e non nella poiesis, se non si vuol correre il rischio di ridurre
l’azione umanizzante a semplice tecnica amministrativa, assottigliandone di fatto le potenzialità.
L’azione politica è caratterizzata anche da un elemento aggiuntivo: non prevede mai un attore, ma sempre più attori. Nel greco antico, come nel latino, l’agire era definito attraverso l’utilizzo di due differenti verbi, tra loro strettamente correlati: archein (incominciare) e prattein (concludere, giungere a compimento). Il primo verbo prevedeva l’azione del singolo, il secondo, invece, chiamava in causa, sempre, la collettività <260. Ciò che l’uomo inizia, la sua manifestazione in quanto tale, si può concludere solo se gli altri uomini presenziano all’azione, se compartecipano al disvelamento del soggetto: questo implica che nessun uomo si fa da solo, ma solo grazie all’intervento degli
altri sui simili <261. Per Arendt la praxis, oltre che contenere in se stessa i propri fini, presenta anche altre caratteristiche, come l’imprevedibilità, l’irreversibilità, l’anonimità <262 e la produttività: nello specifico, gli effetti dell’agire sono, sempre, relazionali e riguardano inevitabilmente il processo di umanizzazione.
Solo a questo punto si riesce a comprendere compiutamente alcune affermazioni dell’Autrice che altrimenti resterebbero vaghe e probabilmente misteriose, come: “non potrebbe esistere vita umana, nemmeno quella degli eremiti nelle solitudini, senza un mondo che, direttamente o indirettamente, attesti la presenza di altri esseri umani” <263 o “non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra” <264.
Concludo riprendendo il discorso da dove avevo incominciato, perché ora finalmente è possibile chiudere il cerchio. L’uomo è unico, abbiamo detto, perché uguale e distinto <265, e nella pluralità scopre e costruisce la propria unicità: anche l’apolide, il diverso per sua propria essenza, il reietto della società, fratello di condizione di Hannah Arendt, trova finalmente una sua propria o originale collocazione all’interno del consesso umano.
[NOTE]
250 Cfr. Roberto Giusti, Antropologia della libertà. La comunità delle singolarità in Hannah Arendt, Cittadella, Assisi, 1999, pp. 13-17.
251 Cfr. Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991.
252 Cfr. Roberto Giusti, Antropologia della libertà. La comunità delle singolarità in Hannah Arendt, Cittadella, Assisi, 1999, p. 57.
253 Cfr. Roberto Giusti, Antropologia della libertà. La comunità delle singolarità in Hannah Arendt, Cittadella, Assisi, 1999, p. 62
254 Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991, passim.
255 Roberto Giusti, Antropologia della libertà. La comunità delle singolarità in Hannah Arendt, Cittadella, Assisi, 1999, p. 67.
256 “Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale”. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991, p. 128.
257 “Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità”. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991, p. 130.
258 Cfr. Roberto Giusti, Antropologia della libertà. La comunità delle singolarità in Hannah Arendt, Cittadella, Assisi, 1999, p. 70.
259 Roberto Giusti, Antropologia della libertà. La comunità delle singolarità in Hannah Arendt, Cittadella, Assisi, 1999, pp. 70-71.
260 Cfr. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991, p. 138.
261 Arendt scrive che “nessuno è autore o produttore della propria storia” esattamente per questo motivo. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991, p. 134.
262 Cfr. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991, 162.
263 Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991, p. 18.
264 Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 99.
265 “Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né comprendersi tra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori […]. Se gli uomini non fossero diversi, e ogni essere umano distinto da ogni altro che è, fu o mai sarà, non avrebbero bisogno né del discorso né dell’azione per comprendersi a vicenda”. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991, p. 127.
Manlio Chiarot, Cum-munus… Contributi per una comunità orientata pedagogicamente, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2011