Senza bisogno di sollecitazioni a tutto l’apparato delle staffette

[…] La «staffetta», la combattente.
Provenendo da una famiglia antifascista, l’ingresso nella lotta fu per me, e credo anche per altre, una cosa naturale: sentivo l’esigenza di «fare qualcosa». Nello stesso modo, più tardi, nacque un’altra esigenza: quella di formare i gruppi femminili. Fu una cosa che maturò lentamente. Si andava in casa dei contadini e si chiedeva alle massaie: «Mi fai un favore? Vai in quella casa; lì c’è un compagno…».
E così piano piano si giunse al punto che fu indispensabile formare i gruppi, una cosa che secondo me si è venuta formando pari passo con il movimento.
I primi gruppi femminili a Concordia [Concordia sulla Secchia, in provincia di Modena] si formarono nell’aprile maggio del 1944.
Per me il contatto vero e proprio con la Resistenza è stato in marzo del 1944.
Prima c’erano stati dei contatti diciamo «personali» e facevo delle piccole cose (che probabilmente hanno avuto anch’esse la loro importanza).
In marzo entrai in contatto con Isolino Roversi e Aldo Gasparini: fu da allora una cosa diversa, più organizzata.
In principio io ero la responsabile femminile di Concordia.
Le altre erano divise in gruppi di cinque, con una responsabile di gruppo. Poi c’era la responsabile del Comune; gruppi esistevano a Fossa, a Vallalta, a S. Caterina, a S. Giovanni. Un po’ dappertutto.
Al di sopra c’era la responsabile di zona.
Nel febbraio-marzo 1945 io divenni responsabile della 2ª zona in sostituzione di Clementina Gelmini (Tina).
Non ricordo su quante donne poteva contare la zona nel periodo in cui ero la responsabile.
A Concordia erano 150-170 circa.
Queste erano le organizzate, ma occorre sempre ricordare che potevamo contare su di un numero molto superiore.
Per esempio mia madre non è mai stata «organizzata», però potevo benissimo mandarla in qualche missione, sicura che avrebbe fatto quanto si doveva. Lei non ha avuto il riconoscimento partigiano, eppure tutte le volte che ha potuto ha agito. E c’erano le mie zie e c’erano le parenti delle altre organizzate e dei partigiani.
Tutte quelle che non erano dichiaratamente fasciste, ci davano una mano.
Nei paesi poi tutti «sapevano», il movimento c’era e si vedeva, eppure il movimento era segreto: di ciò che facevo nessuno ha mai saputo nulla; ma penso che quasi tutti sapessero che io facevo «qualcosa» anche se non sapevano «cosa».
[…] Però i segreti erano segreti, al punto che nemmeno con mio fratello (e la cosa era reciproca) ci confidavamo quanto facevamo per la lotta.
E questo avveniva anche nelle altre famiglie; fortunatamente, altrimenti non si sarebbe potuto andare avanti!
Quando diventai responsabile della 2ª Zona (marzo 1945), dovetti spostarmi a Rovereto (dove partecipai al combattimento); dovetti restare lì un po’ di tempo, in quanto c’erano gli spostamenti dei compagni in partenza per la montagna (c’erano le carte d’identità da falsificare).

Rientrai quando era iniziato quel famoso rastrellamento durante il quale setacciarono Carpi casa per casa (ed anche Cortile, Limidi, ecc.).

Mi spostai proprio quella domenica.
Verso le 10-10,30 (contro il parere di tutti) partii alla volta di Concordia, portando in una sporta il vestiario di un compagno che era partito ed un bel pacco di volantini.
Partita la mattina alle 10, arrivai a S. Giovanni alle 18.
Dovevo in continuazione fermarmi perché ai crocicchi non si passava. Al primo crocicchio voltai nella casa più vicina, in campagna.
Era la casa padronale e l’accoglienza che ebbi è contenuta nelle parole che mi rivolsero: «Qui ci sono partigiani e fascisti che girano. Noi non vogliamo avere a che fare con nessuno. Però se vuole andare là in fondo, c’è la casa del contadino» (non voglio esaltare una situazione: è semplicemente la pura verità).
Passando per i campi, andai dunque verso la casa dei contadini. Mi nascosero la bicicletta, mi nascosero la sporta, mi diedero da mangiare. Senza chiedere neppure chi fossi.
Bisogna precisare una cosa: oggi vengono chiamate «staffette» tutte le compagne che hanno preso parte al movimento di liberazione; da quelle che hanno curato i servizi di approvvigionamento, a quelle che hanno partecipato a battaglie. Ormai la parola «staffetta» è data a tutte le donne anche se hanno svolto compiti eguali a quelli dei compagni combattenti.
La parola «staffetta», invece, andrebbe attribuita solo alle donne che accompagnavano i compagni partigiani durante gli spostamenti.
La staffetta era quella compagna che precedeva di una cinquantina di metri un compagno dirigente per controllare se vi fosse qualche pericolo lungo il cammino.
Ma nessuna donna ha fatto solo questo lavoro: noi abbiamo fatto di tutto. Nel periodo o meno, quello che era da fare è stato fatto.
Il trasporto dei volantini nelle sporte può sembrare non un gran cosa. Ma in quei momenti si sapeva cosa costava un volantino: sacrifici e morte. Si andava incontro a veri pericoli, ma bisognava farlo.
La stampa arrivara nella 2ª Zona da Modena attraverso le staffette. C’era una serie di recapiti principali ed una serie di recapiti secondari. Uno dei recapiti «principali» era a Mirandola (Remo Pollastri), un altro era presso i Gelmini (Adriana e Tina). Debbo comunque sottolineare che io non sapevo certamente da dove veniva la stampa che arrivava a me.
In previsione delle catture ciascuno cercava di sapere sempre il meno possibile; non tutti potevano sopportare certe torture e certi dolori che (sapevamo) venivano inflitti durante gli «interrogatori».
Logico quindi che io non «sapessi» dove era il recapito principale.
Le cose più importanti non si sapevano.
Come avveniva un rastrellamento tutti i compagni venivano avvisati mobilitandosi automaticamente e senza bisogno di sollecitazioni a tutto l’apparato delle staffette.
Era una cosa che avveniva quasi istintivamente. Del resto anche le persone non organizzate, pur se non osavano dire apertamente «so che nella tal casa ci sono dei partigiani nascosti e so che tu sei un partigiano», tuttavia avvisavano in qualche modo e con mille circospezioni: «Guardate che c’è un rastrellamento» e quasi con il sottinteso: «Va ad avvisare chi sai tu».
Questa è una cosa da ricordare perchè ha avuto molto importanza.
I gruppi non erano trasformati in organi burocratici, che non sarebbero serviti a nulla; nei momenti di pericolo c’era una automobilitazione ed in pochi attimi, senza bisogno di ordini, tutto il settore o la zona erano avvertiti.
Durante le riunioni politiche c’erano anche delle esigenze prettamente femminili che venivano avanti.
Le donne allora erano considerate in un modo tutto particolare.
Io penso che le donne entrate nel movimento sapessero già dove volevano arrivare, parteciparono già nell’intento di arrivare a qualcosa di «diverso».
Almeno la mia idea era quella.
C’erano richieste politiche generali e particolari. Non certo chiare come sono adesso.
Io pensavo (come prima necessità) al voto alla donna e come me la pensavano anche le compagne degli altri gruppi.
[…] Pur essendo una zona di campagna c’era già una certa evoluzione nel movimento femminile. I compagni non venivano considerati su un piedistallo: venivano guardati semplicemente come compagni, alla pari di noi.

I fratelli partigiani Cesare “Gianni” Buganza e Carlotta “Gianna” Buganza – Fonte: Storia Partigiane e Partigiani Bassa Modenese

Come prendevano gli uomini questo «improvviso» risveglio di rivendicazioni femminili? Forse come oggi; anche allora era difficile per certi compagni ricevere in silenzio certe risposte, anche se erano giuste. Lo vediamo anche adesso, è così.
Fino a due anni prima uscire di sera per una ragazza rappresentava per lo meno uno scandalo.
Ebbene questa fu la nostra prima conquista durante la Resistenza: l’uscire di sera sole (per missioni) e quindi la conquista della fiducia da parte dei parenti.
Carlotta Buganza «Gianna»
[…]
F. Canova, Oreste Gelmini, Amilcare Mattioli, Lotta di Liberazione nella Bassa Modenese, a cura dell’ANPI di Modena, 1974, pp. 239-243