Sono un operaio delle Reggiane

Fonte: Cinzia Demi, art. cit. infra

Giugno 1951
La donna seduta alla guida del trattore, ha i capelli corti e un sorriso sicuro. Con le braccia tese in avanti monovra i comandi. Procede lentamente in direzione dell’uscita della fabbrica. Al suo fianco sono seduti tre uomini vestiti in camicia, le maniche arrotolate sopra i gomiti. Uno di loro porta una giacca scura e guarda verso i comandi, come a controllare che tutto stia procedendo per il meglio. Di fianco al trattore donne e uomini camminano, sorridono, c’è chi guarda in avanti, verso l’obbiettivo, e chi la donna seduta alla guida. Le donne portano abiti scuri, accollati, neri; le borsette tenute sottobraccio, le mani giunte davanti, le gonne tutte sotto al ginocchio. Gli uomini indossano la camicia chiara e i calzoni. È una giornata calda di inizio estate. Il sole riflette sui finestroni della fabbrica e illumina i volti delle donne che si camminano. Il Partito, quel giorno, ha chiesto esplicitamente che fossero presenti molte donne. Gli operai escono dalle Officine Reggiane, dopo più di un anno di occupazione. I cronisti e i fotografi imprimono sulla carta e sui negativi l’immagine di quella schiera di persone, che per 368 giorni avevano portato avanti una richiesta esplicita: non essere licenziati dalla fabbrica. Antonio controlla i comandi del trattore, di fianco a Giacomina che lo sta guidando, sicuramente una delle prime donne ad avere guidato un trattore, e rivive tutti quei giorni passati lì dentro insieme a molti sui colleghi, almeno quattromilaottocento operai. Dalla prima mattina, quando in due o tre avevano bloccato la guardia giurata nell’ingresso e poi aperto i cancelli a tutti gli altri, fino a quell’ultimo giorno di sciopero, quando tutti avevano acconsentito a riprendere la normalità delle loro vite, dopo che la contrattazione è terminata e solo settecento persone riavranno il posto di lavoro. Eppure a nessuno, quel giorno, sembra una sconfitta. Neanche ad Antonio. Tutti e tutti sorridono. Tutti sono felici. Essere riusciti a resistere per così tanto tempo, deve essere sembrata una cosa eroica. Deve avere rilasciato nei corpi di tutti una sostanza simile all’adrenalina o alla dopamina. «Vieni qua che ti presento il manganello». Ce le aveva ancora in testa, Antonio, quelle parole. E sulla gamba destra il livido non si era ancora riassorbito. Quel giorno si era messo alla testa della prima colonna muta. Al collo aveva appeso un cartello con una scritta fatta con il pennello imbevuto di nero: SONO UN OPERAIO DELLE REGGIANE. Avevano camminato per un pò senza incidenti. Era per questo che si facevano le colonne mute, per non avere troppi problemi con la celere. Se ti mettevi a gridare slogan i poliziotti avevano l’ordine, un ordine scritto, di sedare con la forza qualsiasi turbativa dell’ordine pubblico. Allora Antonio e i colleghi avevano pensato di camminare per la città, in tanti, qualche migliaio, con dei cartelli appesi al collo: in silenzio. Le colonne mute. Ma quel giorno la celere era arrivata lo stesso e qualche manganellata l’aveva data. Anche ad Antonio. Per tutta risposta, un operaio si era fatto inseguire fin sotto all’isolato San Rocco, e lì, ad aspettarli, c’erano altri operai, che l’avevano menato di brutto, il celerino. Antonio ripensava a tutto questo, mentre avanzava sul trattore. E ripensava al bottegaio, sotto casa della sua famiglia. Aveva stracciato il foglietto di carta con sopra i conti da pagare. «Ci pensiamo poi, quando state meglio» aveva detto. E aveva continuato a dare la spesa a sua moglie: il latte, il burro, le uova. E la sua famiglia, come tante altre famiglie, aveva potuto continuare a mangiare, nonostante lui fosse senza stipendio. Antonio rivedeva i soldi, che i suoi colleghi al lavoro attaccavano alle finestre, per farli vedere agli operai in sciopero. Loro, quelli che continuavano a lavorare, lo stipendio ce l’avevano. E ne facevano bella mostra. «Siete dei coglioni» dicevano. «Lo vedete cosa succede a quelli che scioperano? Le fate morire di fame, voi, le vostre famiglie». Ma nessuno era morto di fame. Nessuno. I contadini portavano il latte e il pane fin dentro la fabbrica. I mezzadri invece di dare le galline e i capponi ai padroni, come era d’obbligo, li portavano agli operai. Tutta la città sapeva quello che stava succedendo alle Reggiane e si era stretta tutta, o quasi, attorno agli operai e li sosteneva. Per le vie del centro si distribuiva un giornale che veniva stampato all’interno della fabbrica e raccontava quello che succedeva, spiegava le ragioni dell’occupazione, avanzava proposte per fare ripartire la fabbrica. Poi un bel giorno, Antonio e alcuni colleghi, avevano avuto l’idea di fabbricare un trattore. Bisognava riconvertire la produzione della fabbrica, dicevano. La guerra era terminata già da un po’ e non si potevano più costruire aerei militari o macchine da combattimento. Ma qualcosa bisognava pur continuare a costruire. Macchine agricole. Trattori. Ne avevano tutta la competenza. Ne erano stati costruiti in pochi mesi tre esemplari.
Nome di battesimo: R60.
Il 27 giugno del 1951, gli operai erano usciti dalle Reggiane a bordo di quel trattore progettato e costruito, pezzo dopo pezzo. Un trattore guidato da una donna che portava avanti una battaglia per l’emancipazione femminile a bordo di quel trattore tutto reggiano nato dall’idea di qualche migliaio di operai senza stipendio, senza lavoro, senza tutele.
11 ottobre 2015.

Fonte: Cinzia Demi, art. cit. infra

R. ha appena terminato di dipingere sul muro un disegno giallo contornato di nero: una donna al volante di un trattore, che sembra prendere velocità. La musica dei Queen of the Stone Age riempie l’intero edificio. Un registratore scassato è posizionato al centro del capannone, su quello che resta di una colonna in cemento. Tutti sono davanti al loro pezzo di muro e disegnano. Dappertutto bombolette, secchi d’acqua, secchi di colore, rulli lunghi otto o dieci metri, scale di legno appoggiate agli angoli. Il capannone numero dieci si è trasformato per un giorno in un enorme cantiere a cielo aperto. Artisti provenienti da tutto il mondo stanno disegnando a ritmo di musica e di un impegno comune: ricordare, sessantacinque anni dopo, quello che è stato lo sciopero più lungo che sia mai stato fatto all’interno di una fabbrica italiana.
La donna che guida il trattore, nel disegno di R., ha i capelli mossi e le braccia tese in avanti. Manovra i comandi. Sorride. Sa esattamente dove sta andando.
Art by: Rhiot
Foto di: la prima da Archivio Istoreco, la seconda di bombaretti street (galleria instagram @bombarettistreet)

I fatti raccontati sono memorabili, proprio per questo sono assolutamente veri.
Cinzia Demi (Bologna), R60, Finalmente è venerdì: scritture dalla fine del tempo, 31 gennaio 2018