Su negazionismo e relativa controversa giurisprudenza in Europa

Il rapporto tra libertà di espressione e verità assume sfumature peculiari sopratutto laddove si è di fronte ad una verità ormai “assodata”, ossia sacralizzata nella sua oggettività dai processi politici di storicizzazione.
Dunque, assunto che un fatto storico è un fatto accertato (anche giuridicamente, perché “notorio”), l’enunciato che nega l’accadimento di quel fatto (ossia l’enunciato non-vero) dovrà o meno essere considerato comunque tutelato dal diritto fondamentale ad esprimere la propria opinione? E parimenti: può trovare tutela nella libertà di espressione (non la negazione, bensì) “l’invenzione” di un fatto, enunciato come accaduto ma che invece non trova riscontro nella storiografia?
Ci si rende subito conto sia della complessità del problema sia del fatto che, con ogni probabilità, non è neppure propriamente corretto porre la questione in questi termini. Di un evento, infatti, è possibile effettuare molteplici ricostruzioni attraverso la formulazione di enunciati differenti. Posso cioè dire «Nel 1940 c’era la guerra» oppure «Nel 1940 non c’era la guerra»; così come posso dire «Nel 1940 c’erano i telefoni cellulari», oppure ancora «Nel 1940 non c’erano i telefoni cellulari». Saranno quindi detti enunciati (e non l’evento in sé) ad essere assoggettati, di volta in volta, ad un giudizio di verità o di falsità. L’evento in sé, invece, non avrà nulla a che vedere con il concetto di verità, ma semmai con quello di realtà, sebbene neppure il concetto di realtà designi «cose né questioni univoche e neppure oggetti universali, comuni a tutti gli esseri umani in ogni tempo e luogo» <45.
Entrando nel merito della questione, v’è da dire che la negazione di un fatto storico costituisce un fenomeno ben noto alle cronache giudiziarie e non, tanto da essere indicata con un termine ad hoc, quale quello di “negazionismo”.
Può pertanto indicarsi con l’espressione “negazionismo” un superamento di quel limite entro il quale la libertà di espressione è appunto considerata tale, trovando tutela giuridica? E’ interessante provare a rispondere a partire dai casi concreti, ossia dall’analisi della giurisprudenza <46. In particolare, ci si soffermerà su alcune pronunce che, tra le tante individuate, sono apparse allo scrivente come particolarmente interessanti per il contributo argomentativo offerto alla tematica che qui è d’interesse; alcune di tali pronunce, peraltro, si sono imposte alla cronaca giornalistica divenendo molto note all’opinione pubblica ed assumendo i tratti di veri e propri leading cases sull’argomento: s’intenderà in tal modo fornire un quadro ampio e significativo, sebbene certamente non esaustivo, dell’orientamento giurisprudenziale (non soltanto italiano) in tema di “negazionismo”.
Al riguardo, una prima pronuncia degna di nota sembra essere quella emessa dal Tribunale di Roma – Ufficio dei Giudici delle Indagini Preliminari – sul c.d. caso Stormfront.
Stormfront è un sito internet che raggruppa una comunità online di attivisti bianchi e presenta un contenuto fortemente razzista, ipotizzando la superiorità della “razza bianca” ed esprimendosi verbalmente in forma radicale e di piena avversione nei confronti di altre “razze” e di determinate categorie di soggetti, nonché perpetrando la negazione dell’olocausto. Tra le disposizioni di legge che sono state ritenute applicabili al caso di specie vi è l’art. 3 della L. 654/1975 <47. Al riguardo, l’adito giudice afferma che dall’esame del citato testo normativo si evince che «si è in presenza di reati di pura condotta <48 e di opinione, in quanto già la sola propaganda di idee fondate sulla superiorità di una razza costituisce reato». Orbene, con sentenza n. 884/2013, detto giudice giunge sì alla condanna degli imputati, ma lo stesso non entra mai in merito alla questione del negazionismo, soffermandosi invece sulla portata razzista delle espressioni utilizzate dagli stessi sul sito internet de qua. Il reato ascritto agli imputati, infatti – per quanto qui di interesse – è quello di propaganda di idee fondate sulla discriminazione e l’odio razziale etnico e religioso. Da ciò, due conseguenze:
1) la negazione dell’olocausto (ossia la negazione di un fatto ritenuto storico, quindi realmente accaduto), non ha affatto costituito elemento di valutazione giurisprudenziale e dunque di condanna;
2) la propaganda di idee inneggianti alla discriminazione e all’odio razziale non può essere tutelata come libertà di espressione, perché lesiva di altri principi fondamentali dell’Ordinamento, quali per esempio quello di eguaglianza.
Non è dunque l’espressione in sé di un’idea ad essere punita, bensì la finalità dell’idea stessa che non può essere contraria a principi e valori condivisi da una data comunità sociale in un dato tempo storico.
In tal senso si è espressa anche la Suprema Corte di Cassazione rilevando in particolare un’importante modifica terminologica operata dalla L. 85/2006 all’art. 2 del D. Lgs. 2015/2003, per la quale il termine “diffonde” è stato appunto sostituito con quello di “propaganda”. «Ora – rileva la Corte (ndr) – l’uso del verbo “propaganda” invece di “diffonde” restringe la fattispecie originaria perché implica che la diffusione debba essere idonea a raccogliere consensi attorno all’idea divulgata <49». Sicché la modifica legislativa sembra andare proprio nella predetta direzione: la diffusione di un’opinione non può essere causa di condanna; essa semmai lo sarà allorquando potrà dirsi “propaganda” ovvero quando la sua divulgazione sarà tale «da condizionare o influenzare il comportamento e la psicologia di un vasto pubblico, in modo da raccogliere adesioni attorno ad essa» <50.
Un caso ancor più interessante, poi, è quello deciso dal Tribunale di Torino al quale – per la prima volta in Italia – viene chiesto di correggere un testo di storia che non accenna minimamente al genocidio del popolo armeno perpetrato dall’impero ottomano tra il 1915 e il 1923. Precipuamente, la domanda avanzata dagli attori (tra i quali l’Unione degli Armeni in Italia e la Fondazione Stefano Sarapian) mirava ad «accertare che la ricostruzione della vicenda del popolo Armeno nel periodo 1915-1923, quale esposta nei brani inseriti nei Voll. XII e XIII de “La Storia”, è lesiva del diritto all’identità personale degli attori con conseguente condanna al risarcimento dei danni» <51. Orbene, nonostante gli attori entrassero nel merito dei tragici eventi che avevano segnato la storia del popolo armeno, lamentando tra l’altro l’inosservanza del dovere di dire la verità da parte dell’autore e dell’editore del predetto testo di storia, l’adito tribunale piemontese ha escluso che l’omissione potesse essere ritenuta esplicita negazione, «a meno di non voler attribuire al silenzio un significato che non ha». Il tribunale ha peraltro ribadito come esso sia privo del «potere di accertare la storia e quindi le esatte ragioni politiche e sociali che muovono l’umanità e a cui conseguono eventi, mutamenti e purtroppo talvolta guerre e persecuzioni». Sicché dalla citata pronuncia è possibile trarre le seguenti indicazioni:
a) la verità accertata processualmente non sarà mai riferita al “fatto” – nel senso che, come visto, l’accertamento storico esorbita dai poteri che l’ordinamento conferisce al giudice – bensì sarà meramente l’esito di un procedimento di analisi logica condotto dal giudice nella comparazione di enunciati;
b) anche laddove si volesse giungere alla condanna di colui il quale abbia espresso un’opinione in contrasto con un fatto storicamente accertato, è necessario che tale negazione sia stata segnatamente esplicitata, non essendo possibile sussumerla dal silenzio. Una cosa è dunque la negazione di un fatto, altra cosa è invece il semplice “non dire” che il fatto si sia verificato.
La giurisprudenza italiana, dunque, raramente si esprime in senso repressivo verso la libera espressione delle proprie opinioni, permettendo così di dilatare i confini del diritto consacrato nell’art. 21 Cost.
Così invece non è per altre realtà giurisprudenziali europee: e ciò per il fatto che le Corti di ogni Paese risentono inevitabilmente delle peculiarità sociali e culturali di quel Paese; peculiarità legate ai cambiamenti del tempo. Sarà logico pertanto che l’orientamento di un Tribunale italiano del 2000 sia, per esempio, diverso da quello di un Tribunale tedesco del 1938.
Non appare strano dunque che, nel 1951, la Cour de Cassation di Parigi, nel caso Branly <52, abbia riconosciuto a carico dell’imputato la responsabilità da “informazioni inesatte”, affermando che l’informazione carente, anche se non determinata da malizia o intenzione di nuocere, comporta la responsabilità dello scrittore cui si possa muovere un rimprovero per non essersi comportato secondo prudenza, essendo lo stesso consapevole dei doveri che professionalmente gli incombevano <53. Di conseguenza «La Cour de cassation a estimé que ne pas citer Branly dans l’histoire de la TSF constituait une faute au sens de l’article 1382 du code civil». Ma anche in tempi più recenti, vi sono state pronunce favorevoli all’incriminazione dell’atteggiamento c.d. negazionista, specie laddove questo – diversamente dai casi italiani e francesi appena accennati – si manifesta positivamente e non invece in termini di mera omissione di ciò che invece avrebbe dovuto essere detto. E’ il caso, per esempio, della Svizzera, il cui Tribunale Federale prima e la cui Corte Costituzionale poi, nel 2007 ha condannato il politico turco ultranazionalista Doğu Perinçek il quale, in una serie di conferenze aveva pubblicamente negato che l’impero ottomano avesse perpetrato il crimine di genocidio contro gli Armeni nel 1915, affermando che la storia del genocidio è una “menzogna internazionale”, ed accusando gli Armeni di cospirare contro lo Stato turco. Simili affermazioni portarono all’instaurazione di un procedimento penale a carico di Perinçek, conclusosi poi con una condanna definitiva ai sensi dell’art. 261-bis co. 4 del codice penale svizzero, il quale punisce “celui qui (…) publiquement (…) niera, minimisera grossièrement ou cherchera à justifier un génocide ou d’autres crimes contre l’humanité”, per ragioni di discriminazione razziale, etnica o religiosa. Le autorità elvetiche giustificarono la loro decisione proprio sulla base del fatto che il genocidio armeno è un evento storico riconosciuto come realmente accaduto, tanto dalla legislazione svizzera quanto dall’opinione pubblica internazionale. Il caso Perinçek, però, non si è esaurito nei confini nazionali, approdando alla Corte di Strasburgo, dove è divenuto un vero e proprio leading case. Il politico turco condannato dai giudici elvetici, infatti, si è rivolto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lamentando la violazione della propria libertà di espressione, così come garantita dall’art. 10 della CEDU che così statuisce:
“1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. (…). 2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
Dunque, dalla riportata disposizione si ricava che il diritto alla libertà di espressione può essere limitato solo qualora siano contemporaneamente soddisfatti i seguenti tre requisiti: a) la limitazione deve essere espressamente prevista dalla legge; b) la limitazione deve essere “necessaria in una società democratica”; c) la limitazione deve essere finalizzata a perseguire uno o più degli scopi indicati dall’art. 10 Cedu medesimo. Ora, partendo da questi presupposti normativi <54 e censurando il ragionamento della Corte Svizzera – il quale, come detto, faceva leva sull’accertamento storico del genocidio armeno e universale condivisione dello stesso da parte dell’opinione pubblica – la Corte Europea ha ribaltato la sentenza dei giudici elvetici (la Cour n’est pas convaincue que le «consensus général» auquel se sont référés les tribunaux suisses pour justifier la condamnation du requérant puisse porter sur ces points de droit très spécifiques <55), condannando quindi la Svizzera per violazione del diritto alla libertà di espressione.
La citata decisione resa il 17 dicembre 2013 dalla Corte di Strasburgo è di dirompente portata. Essa infatti si discosta dal precedente indirizzo della corte medesima sviluppato nella decisione Garaudy c. Francia del 2003 <56, nella quale i giudici di Strasburgo avevano all’epoca affermato la legittimità dell’incriminazione della negazione dell’olocausto del popolo ebraico. In quella vicenda, infatti, poiché lo scrittore Roger Garaudy si era reso responsabile di aver scritto un testo nel quale considerava un’esagerazione l’utilizzo del termine “genocidio”, metteva in discussione il numero delle vittime dell’olocausto nonché il senso dell’espressione “soluzione finale” e l’esistenza stessa delle camere a gas <57, la Corte concluse che «Non vi è dubbio che negare la realtà dei fatti storici chiaramente accertati, come l’Olocausto, come fa il ricorrente nel suo libro, non costituisce in alcun modo un lavoro di ricerca storica che possa avvicinarsi ad una ricerca della verità <58». E’ evidente, allora, il mutato orientamento: se con la sentenza Garaudy, nel 2003, la Corte riconduceva espressamente la condanna ad un comportamento contrario alla “verità” storicamente accertata, con la successiva pronuncia Perinçek, dieci anni più tardi, il medesimo consesso giudicante smentisce se stesso, ritenendo che non possa essere passibile di condanna colui il quale abbia espresso opinioni atte a disconoscere l’accadimento di eventi storici, se detta condanna si fonda su interpretazioni terminologiche (nel caso di specie, il concetto di “genocidio”) la cui semantica viene ricondotta meramente alla comune percezione (“consensus général”), a pena – ovviamente – di violare il diritto alla libertà di espressione di costui. Tale ultimo orientamento è stato poi ulteriormente confermato dalla Grand Chambre, chiamata dal governo Svizzero a pronunciarsi in riesame sul medesimo caso Perinçek, nella recentissima pronuncia del 15 ottobre 2015. In quest’ultima occasione, segnatamente, la Corte di Strasburgo ha affermato che «Il contesto non era tale da portare automaticamente a presumere che le affermazioni di Mr P. relative agli eventi del 1915 promuovessero un programma razzista ed antidemocratico, e non c’era abbastanza evidenza del fatto che fosse questo il caso <59». Da ciò può inferirsi che – a giudizio della CEDU – la libertà di espressione può sì essere delimitata, ma soltanto al ricorrere di specifiche circostanze, vale a dire esclusivamente nei casi di cui l’esercizio di detta libertà contrasti con altri principi fondamentali propri di un ordinamento democratico, tra i quali rientra ovviamente anche l’avversione all’odio ed al razzismo. La citata decisione della CEDU è importante anche per il fatto che la formulazione dell’art. 10 della Convenzione avrebbe consentito al supremo consesso anche di deliberare in maniera diametralmente opposta a quanto invece fatto. La Corte, pertanto, ha optato per un’interpretazione ben precisa della norma: un’interpretazione anche politica – se si preferisce – che qualifica la portata normativa dell’art. 10 citato ed evidenzia l’importanza del c.d. “diritto vivente”.
Orbene, il Tribunale di Torino <60, il Tribunale di Roma <61, la Corte di Cassazione <62 nonché i più recenti orientamenti della Corte di Strasburgo <63 sembrano andare verso un’unica direzione, vale a dire:
i) i tribunali non sono luoghi in cui è possibile accertare verità storiche;
ii) non è possibile emettere sentenze di condanna avverso soggetti responsabili di negare, implicitamente o esplicitamente, la verificazione di eventi storici;
iii) è possibile condannare qualcuno, senza ledere il suo diritto alla libertà di espressione, soltanto qualora le opinioni di costui orientate a negare un fatto storico possano costituire “propaganda” (e dunque cercare consensi che lascino presagire conseguenze concrete, come per esempio l’associazionismo) ovvero possano essere qualificate come razziste ovvero ancora come inneggianti all’odio (ed in generale come comunque lesive di una posizione giuridica altrui).
Questo orientamento trova ancora conferma anche in una interessantissima pronuncia del Tribunal Constituciónal spagnolo il quale, nel 2007, dichiarò incostituzionale l’art. 607 comma 2 del Còdigo Penal attraverso cui l’Ordinamento giuridico iberico puniva sia la negazione sia la giustificazione del genocidio. In particolare, i supremi giudici spagnoli hanno operato un’importante distinzione tra il comportamento di “giustificazione” del genocidio – il quale «equivale a “incitación indirecta” a la comisión de delitos de genocidio» e pertanto è da considerarsi contrario ai valori della Costituzione e dunque penalmente rilevante – ed il mero comportamento di “negazione” del fatto che il genocidio sia storicamente avvenuto. Quest’ultima circostanza, per il citato Tribunal Constituciónal, a patto che sia asettica (priva cioè di giudizi di valore), non può affatto essere considerata contraria alla Costituzione e di conseguenza non può mai portare all’applicazione di sanzioni penali senza che ciò costituisca «injerencia en el ejercicio del derecho a la libertad de expresión» <64.
Concludendo, dall’analisi appena condotta, pare potersi affermare che, per la giurisprudenza dominante, la negazione di un fatto storico non possa mai “in sé” costituire motivo di illecito, e dunque tale circostanza andrebbe considerata generalmente come un legittimo esercizio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Sennonché detta negazione diviene illecita laddove la stessa finisce per essere lesiva di altrui posizioni soggettive meritevoli di tutela. Tali lesioni identificheranno quindi precipue fattispecie di illecito tassativamente individuate dal diritto, e saranno quindi queste ultime ad operare come limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, giustificando l’ingerenza del potere giudiziario nella sfera privata di questa libertà.
[NOTE]
45 Che cosa verità e realtà «propriamente designino va riportato, ogni volta, alle concrete pratiche di vita, di parola, cioè di pensiero e di scrittura che le pongono in opera. Questo riportare è a sua volta iscritto in determinate pratiche e vi è trasferito, con un processo di estensione e di universalizzazione che suscita nuovi riferimenti e così via. La cosa può apparire fastidiosa, ma, purtroppo o per fortuna che sia, questo è ciò che, a quanto pare, accade a ogni attore e alle sue innumerevoli quanto imprevedibili azioni, cioè alle pratiche che gli danno luogo, determinando i suoi oggetti, le sue convinzioni, i suoi desideri e i suoi proponimenti», SINI C., Realtà e verità in Bollettino filosofico, 29, 2014, pp. 165-166.
46 Tale analisi è stata condotta sia mediante l’ausilio di banche dati professionali (e tra queste: De jure; Leggi d’Italia; Cassazione.net; etc.), procedendo per parole chiave, sia pure mediante generiche ricerche online finalizzate ad isolare quelle pronunce che nel tempo hanno avuto maggiore eco mediatica, procedendo sempre per parole chiave e limitando la ricerca alle prime 5 pagine di risultati di Google.
47 Articolo poi sostituito dall’art. 1 del D. L. 122/1993 convertito in L. 205/1993 (c.d. “Legge Mancino”) e successivamente modificato con L. 85/2006.
48 In tal senso si è espressa anche la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 37581 del 2008, Massima n. 241071.
49 Cass. Pen., 28 marzo 2008, n. 13234.
50 Cass. Pen., 11 dicembre 2012, n. 47894.
51 S.v. Tribunale di Torino, 27 novembre 2008, n. 7881.
52 S.v. Cour de Cassation de Paris, 27 febbraio 1951, in R. Dalloz, 1986, n. 25.
53 Cft. FRANÇILLON J., Aspects juridiques des crimes contre l’humanité, in L’actualitè du genocide des arméniens (Actes du colloque tenu à la Sorbonne, les 16, 17 et 18 avril 1998, Edipol, Créteil, 1999, p. 403. In particolare, l’autore così affermava: «chi opta per il silenzio, per le omissioni ha una ragione in più per essere considerato negazionista».
54 Leggendo l’art. 10 CEDU balza immediatamente agli occhi l’estrema ampiezza e vaghezza della sua formulazione, tale da rendere l’articolo medesimo estremamente inclusivo.
55 Cft. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, II, 17 dicembre 2013, Perinçek c. Svizzera, ric. n. 27510/08.
56 Cft. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, IV, 24 giugno 2003, Garaudy c. Francia, ric. n. 65831/01.
57 Cft. GARAUDY R., Le Mythes fondateurs de la politique israelienne, Broché, Paris, 1996.
58 Passo originale: “il ne fait aucun doute que contester la réalité de faits historiques clairement établis, tels que l’Holocauste, comme le fait le requérant dans son ouvrage, ne relève en aucune manière d’un travail de recherche historique s’apparentant à une quête de la vérité”.
59 Passo originale: “the context did not require automatically to presume that Mr Perinçek’s statements relating to the 1915 events promoted a racist and antidemocratic agenda, and there was not enough evidence that this had been the case”.
60 Tribunale di Torino, 27 novembre 2008, n. 7881 (cit.).
61 Tribunale di Roma, Ufficio Indagini Preliminari, n. 884/2013 (cit.).
62 Cass. Pen., 28 marzo 2008, n. 13234 (cit.).
63 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, II, 17 dicembre 2013, Perinçek c. Svizzera, ric. n. 27510/08 (cit.), così come confermata dalla Grand Chambre il 15 ottobre 2015 (cit.).
64 In particolare, nella citata sentenza del Tribunal Constituciònal, la Corte ha affermato: «Va notato che la mera diffusione delle conclusioni circa l’esistenza di alcuni fatti, senza dare giudizi di valore su di loro o la loro antigiuridicità, influenza il campo della libertà scientifica riconosciuta nella lettera b) dell’art. 20.1 CE . Come dichiarato nel STC 43/2004, del 23 marzo, la libertà scientifica, nella nostra Costituzione, gode di una protezione maggiore rispetto alla libertà di espressione e di informazione, e ciò si rinviene nel fatto che “solo in questo modo si rende possibile la ricerca storica, che è sempre, per definizione, controversa e discutibile, per erigersi attorno ad affermazioni e giudizi di valore sulla cui verità oggettiva è impossibile raggiungere una piena certezza, è così che questa incertezza circostanziale al dibattito storico rappresenta ciò che è più importante, rispettabile e degno di tutela per il ruolo chiave che svolge nella formazione di una coscienza storica adeguata alla dignità dei cittadini di una società libera e democratica».
Vincenzo Russo, Libertà di espressione, verità e onore: profili interpretativi tra ambiente materiale e ambiente digitale, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2019