Sugli Internati Militari Italiani

[…] Non appena, nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943, Radio Londra e Radio Algeri rendono noto che il governo italiano guidato dal maresciallo Badoglio ha firmato l’armistizio con gli Alleati, le truppe tedesche stanziate in Italia, nella Francia meridionale e nei Balcani, dovunque cioè si trovino reparti delle forze armate italiane, ricevono l’ordine di Berlino di dare immediata attuazione alle direttive in precedenza ricevute per una simile eventualità.
Esse prevedono il disarmo immediato degli italiani, la loro cattura, e l’internamento, fino a decisioni ulteriori, di tutti coloro, ufficiali o soldati, che non si dichiarino immediatamente disponibili a continuare a combattere al fianco delle unità germaniche; all’OKW sta inoltre a cuore mettere le mani su tutti gli automezzi di cui gli italiani dispongono, e sui loro depositi di munizioni, di carburante di viveri.
Nell’arco di pochi giorni, in Italia ed in Francia meridionale, in un tempo più lungo (circa tre settimane) nei Balcani, i reparti della Wehrmacht disarmano oltre un milione di militari italiani. Di essi tra 750.000 ed 800.000 vengono successivamente trasferiti in campi di prigionia situati nel Reich oppure nei territori polacchi precedentemente occupati dalla Germania; poco meno di duecentomila, prevalentemente nella zona circostante Roma e nella Pianura padana, sono invece rilasciati dopo il disarmo, per intese particolari intervenute tra i comandanti locali (come a Roma), o per l’impossibilità pratica di garantire la sorveglianza dato il grande numero (come accadde in parecchie località nell’Italia del Nord nelle prime ventiquattro ore successive all’armistizio; di li a poco, però, ordini tassativi inviati all’OKW a Rommel gli ingiungono di trattenere tutti i disarmati e di dare la caccia a coloro che erano stati rilasciati), o riescono a fuggire subito dopo. Circa seimila ufficiali e soldati, nella stragrande maggioranza del casi nell’area balcanica (l’episodio più noto riguarda la divisione Acqui, di stanza nell’isola greca di Cefalonia), cadono vittima delle rappresaglie tedesche per aver rifiutato di arrendersi e di consegnare le armi; il 12 settembre, infatti Hitler e l’OKW emanano un ordine draconiano in cui si dispone la fucilazione immediata di tutti gli ufficiali italiani che avessero ordinato la resistenza, ed un trattamento particolarmente duro nei confronti dei loro soldati.
Prof. Brunello Mantelli, Università di Torino, I prigionieri militari italiani in Germania, Atti del Convegno storico LE FORZE ARMATE NELLA RESISTENZA di venerdì 14 maggio 2004, organizzato a Savona, Sala Consiliare della Provincia, dall’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Savona (a cura di Mario Lorenzo Paggi e Fiorentina Lertora), pp. 60,61

A partire dal 1943, a causa dell’occupazione tedesca e della lenta risalita delle truppe alleate, la penisola si trovò divisa in tre Italie: un’Italia meridionale, subito occupata dagli alleati, dove la continuità col vecchio sistema fu molto marcata ; una centrale, occupata dai tedeschi fino all’estate del ’44, dove nacquero le prime forme di resistenza ; e un’Italia settentrionale, dove per oltre un anno e mezzo la lotta senza quartiere contro l’invasore vide la partecipazione di settori rilevanti della popolazione.
Nelle regioni centrali e settentrionali occupate, la necessità di manodopera spinse i tedeschi a offrire condizioni estremamente vantaggiose ai lavoratori italiani che intendevano spostarsi nelle regioni settentrionali del paese o in Germania. Quando si vide che il numero dei volontari era molto minore del previsto, si aprì la « caccia agli schiavi », come la definirono gli stessi militari tedeschi. Il panico scatenato dalle cosiddette « azioni di cattura », durante le quali erano fermati tutti coloro che rientravano nelle fasce soggette all’obbligo di lavoro, rafforzò i sentimenti antitedeschi della popolazione. Tuttavia, il timore di sollevazioni popolari e soprattutto la volontà di non creare ostacoli alla produzione bellica italiana, così importante per l’economia del Reich, spinsero i tedeschi a non eccedere nel trasferimento forzato dei civili. A fine 1944, il totale dei trasferiti in Germania era di 74 231, di contro alla richiesta iniziale di almeno un milione.
Altri italiani si trovavano in Germania in quei mesi: erano i soldati fatti prigionieri e lì deportati. A fine guerra, fu calcolato che almeno 50 000 italiani morirono in quei campi a causa della denutrizione, dei maltrattamenti, dei lavori pesanti o perché fucilati. Non deve sorprendere che circa 200 000 di costoro accettassero di tornare a combattere con l’esercito di Mussolini o di lavorare in qualche modo per i tedeschi, pur di ritrovare la libertà. Ma gli altri 600 000 preferirono continuare a vivere in quelle terribili condizioni piuttosto che cedere alle lusinghe nazifasciste. E ciò per vari motivi: la volontà di non venir meno al giuramento di fedeltà prestato al re, la preoccupazione di esporre i propri familiari a ritorsioni da parte del governo Badoglio, il rifiuto di collaborare con chi si stava macchiando di orribili brutalità. <22
22 A. Bravo e D. Jalla, (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, Angeli, 1986, p. 300. Sugli internati, cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945. Traditi, disprezzati, dimenticati, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1992.
Angelo Ventrone, «Italia 1943-1945: le ragioni della violenza», Amnis, 2015

Fonte: Robero Zamboni, Op. cit. infra

Dopo l’armistizio siglato dall’Italia con gli anglo-americani, annunciato dal Maresciallo Badoglio l’8 settembre 1943, oltre 650.000 militari italiani, dislocati in Patria o nelle zone d’occupazione (Jugoslavia, Grecia, isole dello Ionio e dell’Egeo), furono fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in campi d’internamento (Stammlager / Offlager), siti in terra tedesca, austriaca e polacca.
La Germania inoltre decise di non riconoscere la dichiarazione di guerra siglata il 13 ottobre 1943 dal Regno del Sud, non consentendo ai nostri soldati di poter usufruire del trattamento previsto dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra e assegnando loro lo status di Internati Militari Italiani. La condizione di IMI (Italienische Militär Internierte), non contemplata dal trattato ginevrino, impedì inoltre ai nostri connazionali di ricevere ogni tipo di assistenza dalla Croce Rossa, prevista invece per i Kriegsgefangenen, appunto i prigionieri di guerra.
Da quel momento avrebbero dovuto affrontare venti mesi di sfruttamento come forza lavoro in condizioni disumane, con turni massacranti e un regime alimentare decisamente insufficiente.
I nostri militari furono largamente utilizzati nell’industria pesante (prevalentemente bellica) bersagliata di continuo dai bombardieri alleati.
Molti furono vittime delle incursioni aeree inglesi o americane, ma la maggior parte dei decessi fu causata dalle malattie o dalla scarsa e cattiva alimentazione che portò molti giovani al deperimento organico, fino alla loro morte.
I deceduti vennero sepolti nei cimiteri all’interno, o nei pressi dei lager, ma molti furono inumati anche nei cimiteri comunali, in reparti separati dalle altre sepolture, nelle località dov’erano impiegati presso i comandi di lavoro esterni. Altri ancora finirono in fosse comuni, o in sepolture che ne resero impossibile l’identificazione.
Sorte ancor peggiore toccò ad altri 30.000 nostri connazionali, fatti prigionieri per motivi politici o razziali, e deportati in campi di concentramento o di sterminio.
A differenza dei campi per militari, che erano gestiti dalla Wehrmacht, cioè da soldati dell’esercito regolare tedesco, i campi per civili erano gestiti dalle SS (Schutzstaffeln – «squadre di protezione»), un’unità paramilitare del Partito Nazista la cui ideologia puntava all’annientamento delle cosiddette «razze inferiori» e all’eliminazione di tutti gli oppositori politici.
Chi venne inviato in un Vernichtungslager – cioè un campo di sterminio – fu destinato in breve tempo, se considerato non idoneo al lavoro, ad essere gasato con lo Zyklon B, il potente pesticida a base di acido cianidrico che fu utilizzato nelle camere a gas. In ogni caso, per tutti indistintamente, fossero questi deportati in campi di concentramento (Konzentrationslager) o di sterminio, era previsto lo sfruttamento come forza lavoro fino allo sfinimento e alla morte. Infatti, una circolare inviata a tutti i campi di concentramento, firmata dall’SS-Obergruppenführer Oswald Pohl, comandante dell’Ufficio centrale economico e amministrativo delle SS, già dal 30 aprile 1942 prevedeva il «Vernichtung durch Arbeit», cioè l’annientamento attraverso il lavoro.
Quasi tutti i deceduti in questi lager non ricevettero una degna sepoltura e finirono nei forni crematori. Solo verso la fine della guerra, a causa delle generali difficoltà di trasporto e la mancanza di carburante, i deportati che morirono in sottocampi a notevole distanza dai campi centrali, non furono più trasportati ai crematori dei lager, ma furono sepolti nei cimiteri locali.
Dopo le liberazioni dei campi di concentramento in Polonia, Austria e Germania, inoltre, si dovette procedere tempestivamente ad inumazioni di massa in fosse comuni, per evitare il diffondersi di epidemie che avrebbero decimato i sopravvissuti. Solo alcune centinaia di questi sventurati ebbero il «privilegio» di una sepoltura dignitosa. Tutti questi nostri Caduti, civili o militari, morirono dopo atroci patimenti, in ragione del loro pensiero, della loro religione, o per il loro «no» alla richiesta di continuare una guerra assurda.
Nell’immediato dopoguerra, viste le enormi difficoltà di comunicazione e di ricerca, gran parte di questi giovani furono dati per dispersi. I parenti, ormai rassegnati all’idea della morte del loro caro, tentarono d’individuare almeno il luogo di sepoltura, ma molto spesso, come precedentemente detto, con scarsi risultati.
Roberto Zamboni, Dimenticati di Stato, 12 aprile 2013

Al momento della firma dell’armistizio, secondo i calcoli svolti dagli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri – autori anche del recente volume I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945), edito da Il Mulino – sono 3 milioni e mezzo i connazionali in divisa, di cui 2 presenti sul territorio italiano. Con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e, ancor più, dopo l’8 settembre, i soldati in Italia si trovano allo sbando. Giorgio Rochat, nella sua prefazione al volume di Avagliano e Palmieri Internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945, spiega che in quel momento i soldati sono “degli sconfitti che (vivono) il fallimento del regime fascista in cui erano cresciuti” […] Più della metà dei militari italiani, compresi quelli di stanza all’estero, vengono catturati immediatamente dopo l’8 settembre e posti di fronte a un ultimatum: o dichiarare fedeltà al nazifascismo o la deportazione. La maggior parte di loro, 650mila, sceglie il lager.

[…]
I soldati vengono deportati ovunque si trovino, dall’Italia, dai Balcani, dalla Polonia o dalla Grecia, verso i campi di concentramento tedeschi. A volte lo fanno a piedi, attraverso lunghe e penose marce forzate che attraversano mezza Europa, altre volte vengono stipati nei vagoni dei treni merci, incrociando il loro destino con quello di ebrei e prigionieri politici. La destinazione è diversa a seconda del rango militare: i soldati semplici e i sottufficiali vengono avviati agli Stammlager, i campi per prigionieri di guerra, e destinati al lavoro coatto; gli ufficiali sono invece internati negli Offizierslager, campi per soli ufficiali; infine, i militari accusati di sabotaggio o di altri reati, finiscono nei campi di lavoro o in strutture dipendenti dai campi di sterminio.
La Germania nazista, come è noto, non lascia nulla al caso. Ai prigionieri italiani, particolarmente odiati perché provenienti da un Paese ex alleato e quindi percepiti come traditori, riserva un trattamento peggiore rispetto agli altri prigionieri politici. La dicitura “internati militari italiani” (Imi) viene introdotta da Hitler nel 1943: è uno stratagemma per non definirli “prigionieri di guerra”, e quindi privarli della protezione, per quanto minima, della Convenzione di Ginevra. Così, nei diari degli internati, si legge la frustrazione degli italiani che, dalla finestrella della propria baracca, vedono la Croce Rossa consegnare cibo e curare i prigionieri francesi.

I nostri connazionali invece sopravvivono nelle condizioni più disumane: nessun servizio igienico, 12 ore di lavori forzati ininterrotti al giorno, una sola razione di minestra ogni 24 ore, nessuna assistenza sanitaria. Anche per gli storici tedeschi Schreiber e Hammermann, gli italiani sono vittime di una particolare efferatezza da parte dei loro carcerieri: sono quasi 5mila i morti per mano dei nazisti, a causa di percosse, fucilazioni, impiccagioni o eccidi collettivi.
A mietere più vittime è però la fame e in 23mila muoiono di stenti prima della Liberazione. Anche se gli internati possono ricevere pacchi dalle proprie famiglie, spesso i viveri (quelli che arrivano non deperiti) bastano solo per pochi giorni e sono comunque insufficienti per sopperire ai durissimi turni di lavoro coatto. Per raggiungere le fabbriche, i militari vengono fatti camminare per chilometri nella neve. Chi si lamenta viene frustato o picchiato. Quelli che lavorano nelle miniere vengono fatti dormire direttamente nelle cave, dove è vietato accendere fuochi per riscaldarsi. Accomunati perlomeno dalla stessa lingua – cosa che non avviene, ad esempio, nei campi di sterminio, dove molti testimoni ricordano l’impossibilità di comunicare con i propri compagni – i prigionieri si sostengono come possono: il filosofo Enzo Paci, internato in Polonia a Beniaminów, organizza lezioni e “conferenze” sul Rinascimento. Gianrico Tedeschi, celebre attore milanese, recita per i compagni dello stesso campo L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello.
Ai soldati che nei lager presteranno fedeltà al regime nazista e alla Rsi (Repubblica Sociale Italiana) è promessa la scarcerazione, ma l’85% dei 650mila internati rifiuta queste condizioni. Le testimonianze delle lettere e dei diari raccolte da Avagliano e Palmieri dimostrano il coraggio del rifiuto di tanti italiani. I soldati sono anche consapevoli del valore politico della loro scelta: “Qui non siamo solo semplici prigionieri”, scrive il capitano Guido Baglioni sul suo diario, “bensì combattenti della prima battaglia per il nostro rinnovamento spirituale, politico, economico. Battaglia che concluderemo in Italia dopo il rientro”.
[…]

Fonte: The Vision

Proprio nel 1944, con l’avvicinarsi della fine della guerra, le condizioni dei prigionieri rimasti nei lager diventano ancora più disperate. Per non dover consegnare i prigionieri al nemico i nazisti chiudono un campo dopo l’altro, obbligando gli internati a lunghe marce verso le zone non ancora liberate del Reich, e costringendoli a scavare trincee sulla linea del fronte. Le modalità di liberazione dei campi sono molto diverse: alcuni vengono liberati dall’Armata Rossa, che però non ha molta simpatia nei confronti dei soldati italiani, fino a poco prima nemici sul campo di battaglia. Già alla fine di quell’anno il governo Badoglio nomina un Alto commissario per i prigionieri di guerra, che ha il compito di organizzare i rimpatri, anche se l’operazione si rivela più complessa del previsto, a causa di difficoltà burocratiche e logistiche. Per questo moltissimi soldati preferiscono rientrare in Italia da soli, spesso affrontando a piedi lunghi viaggi che durano mesi, a volte anni. […] Jennifer Guerra, Perchè non dobbiamo dimenticare la storia degli Internati Militari Italiani su The Vision del 10 febbraio 2020

Nel caso degli internati militari, provenienti da tutte le regioni d’Italia, è facile ritrovare persone, memorie, documenti scritti e tracce materiali nel territorio della propria provincia o del proprio comune. Di certo il trascorrere del tempo ha portato via molti veterani che avrebbero potuto dare grandi apporti alla divulgazione, ma ha anche, paradossalmente, contribuito a fare maturare una nuova e particolare sensibilità sia nella società civile che nei reduci rimasti in vita. Talvolta la realtà locale può anche offrire personalità, viventi o scomparse ma comunque “dimenticate”, da valorizzare attraverso ricerche d’archivio: la ricostruzione della loro storia, in sintonia con l’amministrazione comunale e con i locali reparti delle Forze Armate, può portare al conferimento di un riconoscimento morale, a una dedicazione toponomastica o all’intitolazione di aule o edifici, con grande soddisfazione degli studenti coinvolti. Alessandro Ferioli, Quale didattica dell’internamento dei militari italiani in Germania? in Albo IMI Caduti

Fonte: Patria Indipendente

La storiografia più recente è definitivamente approdata alla conclusione che il rifiuto dei 650.000 Italienische Militärinternierten (Internati Militari Italiani) di continuare a combattere al fianco dei nazisti e di aderire alla Repubblica fascista di Salò dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, fu a tutti gli effetti una scelta di Resistenza, che contribuì sul piano militare e politico alla guerra di Liberazione. Una scelta pagata a duro prezzo, visto che essi andarono volontariamente incontro a venti mesi di prigionia e lavoro coatto nei lager del Terzo Reich, non di rado perdendo la vita a causa degli stenti, del freddo, delle malattie, delle torture. La proposta di adesione venne sottoposta ai militari italiani in diversi momenti e con differenti modalità (si registrarono anche casi eccezionali di soldati che non la ricevettero per niente). La prima volta fu subito dopo il disarmo, direttamente
sul luogo della cattura. Quindi venne ribadita loro al momento dell’arrivo nei lager, dopo il trasporto di massa sui carri-bestiame, di norma con la richiesta di apporre la firma su moduli prestampati
con questa formula: «Aderisco all’Idea repubblicana dell’Italia repubblicana e fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo esercito italiano del Duce,
senza riserva, anche sotto il Comando Supremo tedesco, contro il comune nemico dell’Italia repubblicana fascista del Duce e del Grande Reich Germanico». Nelle settimane successive, la vicenda degli ufficiali si differenziò da quella dei sottufficiali e dalla truppa. Questi ultimi, dopo il primo rifiuto, furono immediatamente avviati al lavoro coatto, in genere senza altre pressioni, in quanto costituivano un considerevole numero di braccia molto ambite da chi gestiva l’economia
di guerra tedesca. Gli ufficiali, invece, furono bersagliati dalla propaganda – anche ad opera di emissari italiani inviati nei lager – in quanto la loro adesione era necessaria da un lato a ricreare i quadri dell’esercito di Salò, dall’altro per motivi di immagine e prestigio per Mussolini e il suo redivivo governo fascista. È stato stimato che su un totale di 730 mila militari italiani che furono rinchiusi nei lager (710 mila con lo status di IMI e 20 mila con quello di prigionieri di guerra), quelli che decisero di aderire, dopo un periodo più o meno lungo di detenzione (in genere entro il primo inverno), furono circa 100.000. Mario Avagliano e Marco Palmieri, Una scelta di Resistenza contro i nazisti e Salò. La propaganda fascista nei lager e il coraggioso “no” degli IMI, Patria Indipendente, numero 8, 25 settembre 2011

«La rivendicazione della Resistenza antifascista si è ridotta per decenni al dibattito politico sulla guerra partigiana. Negli ultimi anni registriamo il recupero di una dimensione più ampia. Contiamo la resistenza contro i tedeschi delle forze armate all’8 settembre. Poi la guerra partigiana e la deportazione politica e razziale nei lager di morte. La partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo-americana in Italia. E infine la resistenza degli Imi nei lager tedeschi: le centinaia di migliaia di militari che invece della guerra nazifascista scelsero e pagarono la fedeltà alle stellette della patria. Le stellette a cinque punte sul bavero della divisa (piccoli pezzi di metallo povero o un quadratino di stoffa) sono il simbolo tradizionale dei militari italiani. La fedeltà alle stellette fu la motivazione più comune e diretta della grande maggioranza dei 650000 militari italiani che preferirono la prigionia nei lager tedeschi al passaggio dalla parte nazifascista. Questi 650000 prigionieri erano degli sconfitti che avevano vissuto il fallimento del regime fascista, la misera fine delle guerre di Mussolini, lo sfacelo delle forze armate all’8 settembre. Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio, che li avevano abbandonati senza ordini agli attacchi tedeschi. Ciò nonostante, una grande maggioranza di questa massa di sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia nei lager». (Dalla Prefazione di Giorgio Rochat)
Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli Internati Militari Italiani, Einaudi, 2009

[…] Nei giorni e nelle settimane immediatamente successivi alla cattura 186.000 italiani accettano di collaborare in varie forme con i propri catturatori; 86.000 (in prevalenza dislocati nell’area balcanica) dichiarano fedeltà all’alleanza a suo tempo stipulata tra l’Italia fascista e la Germania nazista e vengono incorporati nell’esercito tedesco, come combattenti o – più frequentemente – come ausiliari disarmati (Hilfswillige – HiWi); poco più di 20.000 si arruolano nella Waffen SS (la branca militare della milizia di partito nazista guidata da Heinrich Himmler); 60.000 prestano servizio come HiWi nella Luftwaffe; 15.000 sarebbero passati dai campi di prigionia tedeschi al nuovo esercito fascista repubblicano che Mussolini ed i gerarchi rimastigli fedeli stanno cercando di mettere assieme, ed infine 5.000 sarebbero stati rimpatriati per motivi di vario genere.
Tutti gli altri rifiutano di collaborare in qualsiasi forma con il Terzo Reich e con i suoi alleati di Salò, e scelgono la prigionia. Circa 25.000 sono ufficiali, il resto sottufficiali e truppa; come è prassi consueta per qualsiasi esercito che catturi militari nemici, i due gruppi vengono immediatamente separati, allo scopo di frantumare la struttura organizzativa e di spezzare le gerarchie interne ai reparti costretti ad arrendersi. Gli ufficiali (compresi medici e cappellani) sono detenuti in campi appositi, denominati Offizierslager (abbreviazione Offlag); gli altri finiscono nei Mannschaftsstammlager (campi base di prigionia, abbreviazione Stalag). Una statistica parziale di fonte tedesca risalente al dicembre 1943 ci dice che 480.000 militari italiani sono detenuti in territorio tedesco, mentre altri 24.000 si trovano in campi situati nel Governatorato generale (così viene chiamato il territorio ex polacco che non
era stato annesso al reich dopo il 1939 ma trasformato in una sorta di colonia); in tutto gli ufficiali risultano 22.000. Un’ulteriore ed analoga partizione, anch’essa non esaustiva, ci dice che nel Reich ce ne sono 477.000, 24.000 stanno nel Governatorato generale, 3.500 sono rimasti in Italia, e 7.000 si trovano nei Balcani, per un totale di 515.500 unità. Prendendo per buone tali cifre, se ne ricaverebbe che il 73,5% dei militari italiani catturati dopo l’8 settembre tengono ferma la propria decisione di resistere all’ex alleato.
E’ una percentuale estremamente alta, ma sicuramente inferiore alla realtà, data la parzialità dei dati fin qui utilizzati.
La direzione politica e militare del Terzo Reich decide di non attribuire agli italiani lo status di prigionieri di guerra, ma quello, giuridicamente anomalo, di Internati Militari Italiani (abbreviato in IMI); Hitler e l’OKW intendono in tal modo sottolineare la continuità dell’alleanza tra Germania ed Italia (in questo caso rappresentata dalla RSI), che mai si sarebbero trovate tra loro in stato di guerra; gli eventi drammatici verificati dopo l’8 settembre sarebbero perciò ascrivibili in toto al tradimento di Badoglio e del re. Mussolini e le autorità di Salò non contestano in alcun momento questa interpretazione.
La mancata attribuzione dello status di prigionieri di guerra si traduce per i soldati e gli ufficiali italiani nel venir meno delle garanzie stabilite a favore dei combattenti caduti in mano nemica dalle convenzioni internazionali dell’Aja (1907) e di Ginevra (1929); al Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) di Ginevra verrà impedito dai tedeschi di intervenire con soccorsi di qualunque natura; analogamente, non sarà possibile ad uno Stato neutrale assumere la funzione, internazionalmente riconosciuta e garantita, di “potenza protettrice” nei confronti degli IMI. Tale ruolo verrà svolto dalla RSI, in modo assolutamente surrettizzio e contrario al diritto internazionale; essa organizzerà un proprio Servizio Assistenza Internati (SAI) i cui mezzi e le cui possibilità operative rimarranno, sempre, estremamente limitati.
Mantenere in vita, almeno formalmente, l’alleanza italogermanica è per i tedeschi assai importante dal punto di vista propagandistico; sul piano pratico ad essi non interessa che Mussolini disponga in tempi brevi di un suo esercito; il gran numero di giovani adulti su cui hanno messo le mani disarmando le forze armate italiane sono assai più importanti, agli occhi di Hitler e dei suoi paladini, come insperata riserva di manodopera. Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich, scrive nel suo diario il 23 settembre 1943 che “la catastrofe italiana si è rivelata un buon affare per noi, sia con la cattura delle armi, sia con l’acquisto di manodopera”.
Prof. Brunello Mantelli, Università di Torino, Op. cit.

Fino al gennaio del 1944 i prigionieri in Germania risultano o dispersi o internati. La burocrazia non è pignola solo in Germania, anche in Italia ci si avvale del fatto che gli IMI hanno la possibilità di optare per la RSI, e quindi percepire il soldo come militari di un nuovo esercito.
A questo punto vengono sospese le sovvenzioni alle famiglie che hanno i militari prigionieri in Germania.
È il suggello che i prigionieri in Germania non rientreranno in Italia, ed è un altro pesante tributo che l’economia della provincia di Sondrio si trova a dovere pagare, altre braccia che non rientreranno.
Questo fatto rende evidente, a chi fino ad ora aveva sperato in un domani diverso, che l’emergenza che attanaglia la Germania, la mancanza di lavoratori, ricade sulla popolazione italiana con l’incubo del lavoro coatto.
Gabriele Fontana e Massimo Fumagalli, Il montanaro prende il fucile. Dall’antifascismo alla Resistenza armata in Valtellina, Associazione Culturale Banlieu

La dissoluzione dello stato italiano per le vicende armistiziali fruttò ai tedeschi un bottino enorme in mezzi e, soprattutto, uomini, destinati a diventare i nuovi schiavi del Terzo Reich. A seguito del totale collasso delle nostre strutture militari, i tedeschi poterono mettere le mani sulle riserve di viveri e armamenti accumulati nei magazzini italiani e soprattutto sulla quasi totalità delle 80 divisioni costituenti il Regio Esercito e dislocate dentro e fuori i confini nazionali. Ben 810.000 militari italiani
furono catturati e deportati in Germania sui carri bestiame, ove, al termine di lunghi viaggi in cui avevano dovuto sopportare le peggiori privazioni materiali, vennero rinchiusi nei campi appositamente predestinati per soldati e ufficiali, a Sandbostel, Fallingbostel, Dortmund, Luckenwalde, Altenburg, Wietzendorf, Dora etc. Si noti che ai soldati catturati i tedeschi non riconobbero lo status di prigionieri di guerra, bensì quello, appositamente istituito, di Internati Militari Italiani (in tedesco Italienische Militär Internierten, IMI). La conseguenza era che questi nuovi IMI erano, in virtù del loro status speciale, sottratti alle garanzie e ai controlli assegnati alla Croce Rossa Internazionale dalla convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929 e furono, letteralmente, dimenticati da chi avrebbe potuto o dovuto far qualcosa per loro. Torturati dalla fame, dalle privazioni e dalle terribili malattie che mietevano vittime per le disastrose condizioni igieniche dei campi (come le ricorrenti epidemie di tifo petecchiale, di malaria e di T.B.C.), soggetti alle infami vessazioni degli sgherri tedeschi, i prigionieri non poterono ricevere i pacchi-viveri della Croce Rossa Italiana né di quella Internazionale (che avrebbe potuto mandare aiuti, ma le autorità fasciste
pretesero ad un dato momento dalla Croce Rossa Internazionale che si togliessero tutte le etichette dai pacchi perché provenienti dai Paesi nemici, ottenendone un rifiuto). Dalla RSI, per opera del suo ambasciatore a Berlino Anfuso, giunse qualche spedizione di viveri, ma si trattò di cibarie avariate; pressoché nulla giunse dal Regno del Sud, mentre il Vaticano poté inviare pacchi di viveri e medicinali grazie agli sforzi del Nunzio Apostolico in Germania, Mons. Cesare Orsenigo. (2)
Quale fu, dunque, la sorte di questi nostri connazionali, incolpevoli vittime di chi li aveva mandati, con tanta irresponsabile faciloneria, allo sbaraglio sul fronte africano, russo e albanese, e poi anche di chi, stipulando l’armistizio con gli Alleati, si era preoccupato soltanto della propria salvezza personale, “dimenticandosi” di soldati e ufficiali e gettandoli, per l’assoluta mancanza delle necessarie disposizioni difensive, nelle mani dell’ex alleato germanico, fremente di rabbia per il “tradimento”? Va tenuto presente che alle sofferenze morali e materiali patite dagli IMI (la lontananza dalla patria e dai propri familiari, la fame, i pidocchi, le malattie, l’assoluta incertezza del domani, il lavoro coatto, le durissime punizioni ad ogni minima mancanza) si aggiungeva anche
la pressione psicologica dei fiduciari fascisti che visitavano i campi esortando con ogni mezzo gli internati ad aderire alla repubblica di Salò e a riprendere il posto di combattimento a fianco dell’odiato “camerata” germanico. Ma i nostri militari, nella grandissima maggioranza, non
cedettero alle lusinghe dei fascisti repubblichini e, sia perché memori del giuramento prestato al re sia perché consapevoli che in Italia avrebbero dovuto combattere contro i loro fratelli partigiani, rifiutarono l’adesione alla RSI, rinunciando così agli indubbi e immediati vantaggi (primo dei quali il rimpatrio immediato) che questa comportava […] 2 Vd. al riguardo Prof. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario. Memorie della prigionia, Editrice S.A.T., Vicenza 1947, pp. 99-109. Mario Carini, Una voce dal lager: il taccuino di Serafino Clementi (1943-1945) in Quaderni del Liceo Orazio, N. 5 Anno Scolastico 2014/2015, a cura di Mario Carini, Liceo Ginnasio Statale Orazio, ROMA

La Caterina di Cestokova – Fonte: Radio Caterina

Le radio clandestine
Esiste una vasta letteratura di ricevitori radio utilizzati in clandestinità nei campi di prigionia, ma troppo spesso questi documenti sembrano puro frutto della fantasia di registi e romanzieri. I ricevitori clandestini sono realmente esistiti, a volte introdotti di nascosto, a volte realizzati con materiali di recupero.
Abbiamo voluto raccogliere tutti i documenti disponibili al solo scopo di onorare il ricordo di chi ha sofferto la prigionia senza far morire la speranza di libertà, e saremo grati a chiunque vorrà contribuire segnalandoci articoli, fotografie e informazioni sulle radio clandestine e autorizzandoci a pubblicare il materiale esistente.
Molta documentazione riguarda le radio realizzate nei Lager tedeschi dai prigionieri di guerra, durante la Seconda Guerra Mondiale. Secondo Ugo Dragoni gli italiani riuscirono a nascondere in tutto otto radio clandestine nei vari Lager, gran parte delle quali a Sandbostel: Caterina, Mimma, Teresina, GEA (quest’ultima fu custodita dallo stesso Dragoni durante la prigionia). Di tutti questi ricevitori, tre sono visibili al Museo dell’Internato Ignoto di Padova: “Caterina”, Radio Cestokova e la galena di Zheithain.
Gran parte del materiale raccolto inizialmente ci è stato fornito dal Professor Alessandro Ferioli di Bologna, che ci ha messo in contatto con i figli di Giovannino Guareschi, i quali ci hanno fornito ulteriore documentazione dall’archivio del Club dei Ventitré e ci hanno autorizzato a pubblicare il materiale scritto dal padre, testimone dell’esistenza di Radio Caterina durante la prigionia in Germania.
Radio Caterina, Pubblicato il 05/02/2006 – Ultimo aggiornamento: 02/02/2017

Retro della radio di Cestokova – Fonte: Radio Caterina

Il gen. Corazza, direttore del Museo di Padova, ci da notizia di un prezioso acquisto del nostro Museo dell’Internamento. Egli è infatti riuscito a rintracciare una delle poche preziosissime radioriceventi che l’audacia e l’astuzia di pochi generosi riuscirono a costruire o a conservare durante tutto l’internamento. Si tratta della “Caterina” del campo di Czestokowa, tornata indenne in Patria alla liberazione, dopo aver consentito ai più che 3000 ufficiali superiori di quel campo di seguire gli avvenimenti del mondo contribuendo così a tenere elevato e vivo lo spirito in trepida ansia. La sua presenza nel lager ben presto avvertita dai carcerieri comportò frequenti rischi mortali e indicibili angoscie durante le perquisizioni generali, fra cui particolarmente drammatica quella del 27/3/44.
L’apparecchio era custodito dal colonnello di cavalleria Riccardo Melodia il quale ha ora disposto di farne dono al nostro Museo di Padova. Radio Caterina

Il rapporto del ten. Melodia. Sulla destra si scorge la Caterina di Cestokova – Fonte: Radio Caterina

In questo fondo si trovano anche alcuni documenti piuttosto interessanti sulle vicende degli Internati Militari Italiani (I.M.I.), cioè coloro che rifiutarono ogni forma di adesione, come combattenti o come lavoratori, alla Germania e alla R.S.I. Si tratta in parte di materiali prodotti dagli I.M.I. stessi, raccolte dopo la fine della guerra dallo Stato Maggiore del Regio Esercito: in particolare le relazioni raccolte nella b. 52, fasc. “Ufficiali in servizio nell’Esercito repubblicano”, contenenti informazioni sulla propaganda repubblichina nel campo di Deblin-Irena, in Polonia, ed elenchi nominativi di ufficiali aderenti e non aderenti. Elenchi di questo genere erano stati compilati anche dalle autorità di Salò, e si trovano nella b. 21, fasc. S.M.E. – Segreteria S.M. (circolari) (corrispondenza). Nella stessa busta c’è poi una lunga e interessante relazione dal col. Carlo Fedi, redatta nell’ottobre del 1944 che collega il problema degli I.M.I. con quello della ricostituzione dell’Esercito repubblicano. Mussolini nell’ottobre del 1943 aveva infatti sperato di costituire quattro divisioni reclutando aderenti fra i circa 600.000 I.M.I. rinchiusi nei campi di prigionia: ben pochi, però, risposero all’invito, sicché fu necessario reclutare uomini in Italia e mandarli in Germania per l’addestramento. <15. Fedi nella sua relazione espone appunto i risultati della sua ispezione fra le truppe italiane in Germania. Nel preambolo egli precisava che le sue osservazioni si riferivano in particolar modo alla divisione “Italia”, ma potevano essere generalizzate alle altre tre.
In primo luogo egli denunciava le difficoltà e l’inefficacia della campagna di adesione fra gli ufficiali:
La scelta del personale è stata fatta in forma un po’ caotica, poiché sono stati inviati a Munsingen ufficiali e truppa delle seguenti provenienze:
– direttamente da reparti dislocati all’estero che non sono passati da campi di internamento;
– dai campi di internamento, sia dopo pochi giorni, sia dopo qualche mese di internamento.
Quelli provenienti dall’internamento sono stati presi al completo o quasi tra coloro che avevano aderito all’Esercito Repubblicano nei primi tempi, nei campi meno numerosi, mentre in quelli più numerosi, scegliendo coloro che avevano dichiarato, però senza controllo alcuno, di aver fatto parte della Milizia. Tra questi si sono presentati anche alcuni che facevano parte delle organizzazioni giovanili della G.I.L. o che avevano avuto in passato solo per breve tempo incarichi nella G.I.L. o nella Milizia.
E’ doloroso dover segnalare che nel campo di Tschenstochau per esempio, si sono presentati con tale titolo taluni che non hanno avuto alcun riguardo fino alla partenza, di imprecare contro il Fascismo e la Germania.
Molti non nascondevano affatto l’idea di aver aderito allo scopo di ritornare in Italia e pensare dopo ai casi propri.
Coloro invece che non sono stati trasferiti subito sono stati costretti a ripetere la domanda di adesione. In seguito a tale nuova richiesta gli aderenti si sono ridotti di numero tanto da rappresentare una esigua minoranza rispetto alla maggioranza.
Questa minoranza con il prolungato soggiorno nei campi di internamento, è, come è noto, stata sottoposta al boicottaggio della massa, alla privazione del saluto, a segni di ostilità, e particolarmente i nomi degli aderenti sono stati raccolti e segnati dai non aderenti che dimostrano di volerli consegnare per successive vendette. E’ bensì vero che alcuni tra i non aderenti avevano pure spirito italiano e fascista, ma, per la depressione morale subita per avvenimenti passati, per le menomate condizioni fisiche dovute allo internamento, per la mancanza assoluta o quasi di notizie dall’Italia, per la propaganda assolutamente insufficiente fatta da coloro che si sono presentati nei campi a tale scopo, non hanno trovato più la forza d’animo di fare un atto di volontà, in modo che essi sono rimasti passivamente a subire ad attendere gli eventi. Non poco ha influito la giornaliera deleteria campagna antifascista e antitedesca svolta giornalmente dalla maggioranza di cappellani militari con la maschera della religione e con la dichiarazione che il giuramento al re poteva essere sciolto solo da Dio.
In secondo tempo con la visita fatta ai campi di internamento dagli ufficiali del Maggiore Vaccari, tutti gli incerti hanno trovato la forza per aderire! Molti ufficiali si sono iscritti per il lavoro. <16
Coerentemente con queste premesse, una volta giunti nei campi di addestramento
moltissimi ufficiali non hanno fatto che rappresentare immediatamente che le proprie condizioni di salute erano tali da non poter far utile servizio con l’unico evidente scopo di ritornare in Italia. Così in vari blocchi sono stati rimpatriati <17.
[NOTE]
15 Cfr. b. 4, Allegati al diario storico militare dello S.M.E. mese di dicembre 1944: 21.12.44, Relazione del col. Fedi sull’attività addestrativa svolta dalle divisioni italiane in Germania. Un’altra copia di questa relazione è conservata nella b. 12, n. 27.
16 Ivi, p. 3.
17 Ivi, p. 11.
Luigi Cajani *, Il Carteggio Repubblica Sociale Italiana conservato nell’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (Roma), Quaderno di Storia Contemporanea n. 20, 1996, Istituto per la Storia della Resistenza e della Storia Contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Ghilardenghi” https://www.isral.it/
* Questo saggio è già stato pubblicato, con lo stesso titolo ed in forma lievemente ridotta, nel volume “Una certa Europa. Il collaborazionismo con le potenze dell’Asse 1939-1945. Le fonti”, a cura di LUIGI CAJANI e BRUNELLO MANTELLI, Brescia, Annali della Fondazione “Luigi Micheletti”, 1992: ma il gran numero di errori di stampa ne ha reso indispensabile la ripubblicazione in altra sede. In questa nuova versione ho tenuto conto di alcune novità apportate nel frattempo dai responsabili dell’archivio, con la costituzione di una nuova serie di registri.

In realtà al 15 dicembre 1943 gli internati <10 che avevano «optato» per l’arruolamento ed erano stati «riconosciuti idonei» erano 10.900 (1.903 U e 8.997 SUT), di cui erano radunati nei campi di formazione delle Divisioni 8.542 (733 U e 7.809 SUT). Tuttavia a seguito delle visite di Vaccari, già in febbraio il numero degli Ufficiali aderenti era più che quadruplicato, arrivando a 9.000 <11. Inizialmente i nuovi non furono immessi nelle Divisioni, dal momento che al 14 aprile gli effettivi presenti nei campi erano perfino leggermente diminuiti (a 8.439). I 1.300 di Acqui erano appunto parte di questi nuovi aderenti, e il loro quasi immediato trasferimento in Italia conferma che questo era lo scopo dell’adesione. In seguito, però, i rimpatri diminuirono, tanto che raddoppiò il numero degli ufficiali assegnati ai campi di addestramento, dove a fine luglio si trovavano 15.668 ex-IMI (pari a un quarto dei 61.000 effettivi delle Divisioni) <12.
Nell’incontro del 20 luglio a Rastenburg, subito dopo il fallito attentato di Stauffenberg, Hitler concesse a Mussolini la «liberazione» degli internati, ossia lo status di libero lavoratore civile. Le modalità furono stabilite coi protocolli di Guben del 30 luglio e l’«Entlassung» fu attuato entro agosto nella maggior parte dei Wehrkreise <13. Dall’opzione del servizio civile erano esclusi gli ufficiali, inizialmente tutti, poi solo quelli di carriera, la cui unica possibilità di alleviare la durissima condizione di internato (priva delle garanzie internazionali riconosciute dai tedeschi ai prigionieri di guerra non sovietici) era appunto di arruolarsi nelle forze saloine o tedesche.
Non sembra peraltro che i protocolli di Guben abbiano inciso sugli arruolamenti degli ufficiali. Al 29 agosto, infatti, gli ufficiali ex-IMI arruolati nelle FFAA repubblicane erano 11.340, appena un quarto in più dei 9.000 di febbraio, e ancora nel febbraio 1945 erano 11.623. Più interessante è constatare che i rimpatriati a fine agosto erano 7.491, pari ai due terzi del totale, mentre quelli nei campi di addestramento divisionali erano largamente eccedenti gli organici (circa 2.200), tanto che la relazione ipotizzava di rimandare gli esuberi al Servizio del Lavoro.
[NOTE]
10 «Sui circa 600.000 militari italiani internasti in Germania buona percentuale di soldati e quasi la maggioranza degli ufficiali fa espressa domanda di arruolarsi nell’Esercito Repubblicano, le lettere che io ricevo continuamente sono prova di tale stato d’animo che naturalmente sarebbe diffuso se gli internati non fossero nella generalità già avviati al lavoro e quasi tutti all’oscuro o scarsamente informati della nuova situazione politica determinata in Italia» (ACS, Spd, Cr, Rsi, p. 045927). Alessandro Ferioli, «Dai lager nazisti all’esercito di Mussolini. Gli internati militari italiani che aderirono alla RSI», Nuova storia contemporanea, Anno IX, numero 5, settembre-ottobre 2005, pp. 63-88.
11 Simoncelli, op. cit., p. 437. Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich. Traditi, Disprezzati, Dimenticati, Roma, USSME, 1992, pp. 515-19.
12 Battistelli, Storia Militare, cit., pp. 76-80
13 Simoncelli, op. cit. pp. 554 ss.
Ferdinando Angeletti, Il Centro Integrativo Selezione Ufficiali. Un esempio delle contraddizioni militari della R.S.I. in Storia militare contemporanea, Fascicolo 1 / N.4 (2020)