Sui crimini di Theodor Saevecke a Milano

Aligi Sassu, Martiri di Piazzale Loreto o La guerra civile, olio su tela, 1944, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, Roma – Fonte: Wikipedia

[…] per quale ragione il capitano Theodor Saevecke si era rivolto al colonnello Walter Rauff, responsabile della Sipo-SD dell’Italia nord-occidentale perché strappasse al generale Willy Tensfeld, comandante generale delle SS, l’autorizzazione per una feroce repressione? […] Scrisse il capo della Provincia Parini per il duce: “Cominciarono a transitare per piazzale Loreto gli operai che si recavano al lavoro e tutti si fermavano ad osservare il mucchio dei cadaveri che era raccapricciante oltre ogni dire perché i cadaveri erano in tutte le posizioni, cosparsi di terribili ferite e di sangue. Avvenivano scene di spavento da parte di donne svenute e in tutti era evidente lo sdegno e l’orrore”. da ANED

Insediato il proprio ufficio all’Albergo Regina, il capitano Saevecke chiarisce al suo superiore e ai suoi sottoposti le proprie priorità: ricerca e arresto degli ebrei (grazie agli elenchi compilati dopo la promulgazione delle Leggi Raziali del ’38) e oppositori (genericamente indicati come ‘comunisti’, anche se verranno arresti e brutalmente interrogati religiosi, imprenditori senza appartenenza politica o cattolici, giovani poco più che bambini, donne e anziani). Inoltra quindi formale richiesta degli elenchi relativi al questore Domenico Coglitore, a cui affianca l’agente dell’OVRA Luca Osteria, il Maggiore Ferdinando Bossi e il suo Tenente dell’UPI Manlio Melli. Gli arresti conseguenti sono eseguiti dai Nazisti (se i ricercati sono ebrei, la caccia è condotta dal ‘cucinatore di Giudei’ Otto Kock), dai repubblichini e dagli appartenenti alle Bande nere, tra le quali la famigerata Legione Ettore Muti di Francesco Colombo con sede in via Rovello e la X Mas di Valerio Borgese, con sede nell’attuale Piazza della Repubblica. Coloro che rimangono impigliati in questa tragica tela, vengono dapprima condotti in ville, caserme o scuole requisite dagli occupanti
e sottoposti alle prime vessazioni, poi vengono tradotti all’Albergo Regina. Per 20 mesi l’Hotel sarà una zona franca per ogni azione della polizia tedesca, per ogni sopruso e abuso.
La dependance di San Vittore
Il comando tedesco al Regina necessita inderogabilmente di uno spazio adeguato per radunare gli arrestati: il Carcere di Piazza Filangeri risulta rispondere pienamente ai requisiti, rivelandosi però drammaticamente come il primo campo di concentramento italiano.
[…] Il periodo detentivo è determinato dagli ordini impartiti dalle gerarchie militari che influenzano le scelte successive: dalla richiesta di manodopera dai campi tedeschi, dall’organizzazione logistica delle deportazioni. A San Vittore, per i detenuti ebrei, le decisioni dipendono direttamente dal Capitano Saevecke; per i reclusi politici la firma definitiva sul loro destino è apposta dal Maggiore Bossi. Comunque, entrambe le categorie di prigionieri deportati dal carcere vengono inviate, di notte, nelle ore di coprifuoco, al binario sotterraneo n° 21 della stazione Centrale di Milano. Il loro status di detenuto si modifica, divenendo quello di deportato: vengono caricati su vagoni poi piombati e recanti la sigla del prossimo scalo: CC (campo di concentramento), oppure campo di transito. Per i detenuti di San Vittore le destinazioni sono principalmente Auschwitz via Fossoli o Verona; Bergen-Belsen; Ravensbruck e Flussenburg via Bolzano-Gries. Dal 06/12/1943 al 15/01/1945 dal Binario 21 partiranno 23 convogli, con il loro carico umano; per il medesimo servizio si attiveranno le stazioni di Milano-Farini (zona Porta Nuova) e Milano-Lambrate; per le destinazioni intermedie di Verona e Bolzano, i prigionieri verranno trasportati anche su vecchi torpedoni. Il numero dei detenuti deportati è approssimativo, ma molto alto: basti pensare che nella sola giornata del 30/01/1944, dopo l’ordine di accelerare la soluzione finale della questione ebraica, verranno deportati 605 ebrei…ne sopravviveranno solo 22, tra cui la Senatrice Liliana Segre.
Manuela Sirtori, Hotel Regina e sua dependance: Milano 1943-45, e-Storia, rivista, Anno IX – numero 1 – Marzo 2019

Milano: il carcere di San Vittore nel 1880 – Fonte: Wikipedia

Saevecke aveva dunque non solo il diritto d’ingerirsi in tutti gli affari trattati dalle diverse polizie italiane, ma anche la più ampia autorità su coloro che lavoravano per lui, autorità che di certo non poteva poi essergli contestata per ciò che riguardava i detenuti politici rinchiusi a San Vittore, la maggior parte dei quali gli veniva consegnata dagli agenti dell’Ufficio speciale dell’Upi, l’Ufficio politico investigativo già della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e dal dicembre 1943 inquadrato nella Guardia nazionale repubblicana. Anima nera dell’Upi provinciale è il capitano Ferdinando Bossi, il cui comando si trova in corso di porta Venezia 32.
Dal settembre 1943 al settembre 1944 gli arrestati dall’Upi sono stati 1410, 890 dei quali «sono stati deferiti alle Autorità Germaniche».
Saevecke ha utilizzato l’Ufficio politico investigativo nella repressione del movimento partigiano e nella caccia agli ebrei e per questo motivo, e non perché impossibilitato ad intervenire, ha lasciato loro campo libero all’interno di San Vittore. Se avesse voluto avrebbe potuto fin dal primo giorno interdire loro l’accesso alle carceri e impedire che interrogassero anche un solo prigioniero perché, vale la pena ripeterlo, era lui il dirigente responsabile e competente per i detenuti politici rinchiusi a San Vittore.I politici di San Vittore sono tutti ostaggi ed è ancora da lì che nelle prime ore del 10 agosto 1944 vengono prelevati i quindici martiri di piazzale Loreto.
Verso le tre antimeridiane dell’8 agosto un camion e rimorchio della Wehrmacht, targato WM 111092, si ferma in viale Abruzzi all’altezza del numero civico 77. Per quale motivo non si sa, né si sa da dove provenga o quale destinazione abbia. Di certo la sosta non è per un guasto meccanico prova ne sia che il suo conducente, il caporalmaggiore Heinz Kuhn non chiede aiuto al vicino albergo Titanus che si trova a duecento metri ed è stato requisito per alloggiarvi i sottufficiali tedeschi, né alla autorimessa, anche lei requisita, in via Nicola Battaglia, a circa un chilometro. Lui, il caporale, è tranquillo e in una città dove da quasi due mesi gli automezzi germanici vengono attaccati in pieno
giorno, si mette a dormire nella cabina di guida.
Alle 8.15 del mattino scoppiano «due ordigni applicati ad opera d’ignoti all’autocarro». Il caporale Kuhn, baciato dalla sorte, resta «ferito leggermente alla guancia destra», ma sei passanti rimangono uccisi e altri dieci feriti, cinque dei quali dimessi da Niguarda insieme al caporale dopo essere stati medicati.
La sera del 9 agosto 1944 il comandante provinciale della Gnr, colonnello Pollini, informa il capo della Provincia Piero Parini di aver ricevuto dal comando militare germanico l’ordine di mettergli a disposizione per l’alba del giorno successivo un plotone che dovrà fucilare quindici ostaggi «in base al recente Bando del Maresciallo Kesselring».
Alle cinque del mattino Pollini lo informa che Kolberck non si è ancora fatto trovare. Alla stessa ora i quindici ostaggi stanno per uscire da San Vittore, forse sono già sul camion che li porterà a Loreto. Nel Pro memoria urgente per il Duce Parini riferisce che hanno cominciato a svegliarli alle 4,30, li hanno fatti scendere in cortile e hanno dato loro una tuta. Qualcuno avrebbe cominciato a spargere la voce che sarebbero stati destinati al servizio del lavoro in Germania. Sul registro di San Vittore vengono scaricati con l’annotazione manoscritta «Trasferiti per Bergamo». Una fonte più diretta ci informa invece che almeno alcuni di loro ebbero immediatamente consapevolezza del destino che li attendeva.
Arrivano in piazzale Loreto alle 5.45, sul posto c’è già un ufficiale tedesco scortato da quattro soldati. Pollini assiste a tutta la scena. L’SS fa mettere gli ostaggi contro una palizzata e, disposti i militi della Muti a semicerchio, ordina immediatamente il fuoco. Al momento dell’esecuzione il piazzale era deserto, stante l’ora.
L’ufficiale tedesco diede l’ordine ai militi di fare un cordone intorno al mucchio di cadaveri, al di sopra dei quali affisse un cartello che indicava la rappresaglia per l’attentato di V.le Abruzzi. Il cartello era firmato ‘Il Comando Militare Tedesco”.
Il capo della Provincia sa che quel pubblico massacro e quei quindici cadaveri abbandonati sull’asfalto non sono soltanto, come scriverà a Mussolini con un tardivo soprassalto di sensibilità, «un’offesa alla tradizione civile di Milano», sono un trauma per l’intera cittadinanza e soprattutto gli costeranno la credibilità di quei ceti medi e di quella borghesia imprenditoriale che aveva cercato di rassicurare.
Alle 8 Parini telefona inutilmente a Tensfeld per ottenere l’autorizzazione a farli trasportare all’obitorio: il generale è assente e il colonnello Kolberck, come il generale Wening, come lo stesso Rauff, se ne lavano le mani; i cadaveri, dopo un energico intervento del cardinale Schuster, verranno rimossi nel pomeriggio, ma intanto non si contano i milanesi che si sono recati in piazzale Loreto.
Dalla ricostruzione degli avvenimenti fatta da Sua Eccellenza Parini sulla scorta del racconto del colonnello Pollini, la rappresaglia sarebbe stata voluta e ordinata dell’SS-Brigadenführer und Generalmajor der Polizei (generale di brigata delle SS e della polizia) Willy Tensfeld, capo delle SS e
della polizia per l’Italia nordoccidentale, il quale, direttamente subordinato a Wolff, doveva coordinare l’impiego tattico delle SS, della Ordnungspolizei e della polizia ausiliaria italiana nella repressione dei sabotaggi, nel controllo delle masse operaie e, più in generale le forze della Gnr, nella lotta antipartigiana.
Rauff era tuttavia responsabile del mantenimento dell’ordine non soltanto nel milanese ma in tutto il territorio affidatogli e, in quanto comandante la Sipo-SD dell’Italia nordoccidentale, se era lui a dover in ultima istanza rispondere ai suoi superiori gerarchici anche della sicurezza in provincia di Milano, e di ciò che Saevecke faceva o non faceva per garantirla, tale compito spettava in primo luogo e direttamente a Saevecke che, a sua volta, doveva risponderne a Rauff. Se dunque vi fu una richiesta d’autorizzazione per procedere alla rappresaglia di piazzale Loreto, ritenuta provvedimento indispensabile per il ristabilimento di quell’ordine di cui Saevecke era il responsabile immediato, è logico pensare che tale richiesta sia partita da Saevecke e che Rauff l’abbia solo inoltrata, magari sostenendola, per via gerarchica.
E’ certo, pertanto, che da parte del comando piazza della Wehrmacht, in risposta agli attentati e ai “disordini” accaduti tra la metà di luglio e il 13 agosto 1944, non fu ordinata nessuna rappresaglia su ostaggi, nessuna fucilazione bensì unicamente l’anticipazione del coprifuoco
Fu dunque Saevecke a volere e a richiedere la fucilazione dei quindici martiri e, a questo punto, poco conta che sia stata magari avallata da Tensfeld in qualità di diretto rappresentante territoriale di Wolff. MyMilitaria

[…] L’AK Mailand venne istituto il 13 settembre 1943.217 Come a Roma, venne affidato un ufficiale, Theo Saevecke, con buoni rapporti con gli italiani, o almeno con una buona conoscenza della lingua e delle abitudini. Saevecke infatti aveva seguito un corso di polizia coloniale a Tivoli, poi era stato a Tripoli durante la guerra e in seguito aveva collaborato con Rauff nell’EK Afrika in Tunisia. Un esperto quindi sia dell’Italia che della persecuzione degli ebrei. A differenza di Roma, però, a Milano molti collaboratori dell’AK erano austriaci. Secondo l’organigramma stilato dai servizi segreti inglesi, erano austriaci Gräser (che in questo organigramma è indicato come capo della Gestapo), il tenente Heisnar (della Gestapo), Hans Meyer (responsabile delle pratiche relative alle deportazioni); il tenente Jarsko (armi da fuoco, permessi e repressione) ed il suo diretto subordinato il maresciallo Heininger; e svariate impiegate e interpreti. 218 Probabilmente quindi il personale fu scelto con una certa cura, tenendo conto delle caratteristiche e delle necessità dell’ambiente.
Il reparto IVb era diretto da Otto Koch, che si è già incontrato parlando dello staff di Boßhammer. Il suo diretto subordinato era il maresciallo Klemm, mentre il responsabile del carcere di San Vittore era il maresciallo Leander Klimsa, aiutato dal maresciallo Staltmayer, meglio conosciuto come “Franz” dai prigionieri. […]
217 Luigi Borgomaneri, Hitler a Milano, cit., p.47.
218 Archivio della Commissione Statale sulle stragi nazi-fasciste, doc. n.50/1.
Amedeo Osti Guerrazzi, Tedeschi, Italiani ed Ebrei. Le polizie nazi-fasciste in Italia. 1943-1945, Pensare e insegnare la Shoah, attività e materiali, Assemblea legislativa. Regione Emilia-Romagna

[…] Impossibile stabilire, in quei seicento giorni della repubblichina di Salò e di occupazione tedesca,
dove venissero praticate le più infami sevizie. Milano, come il resto del paese, pullula di luoghi
mostruosi dove la tortura è un metodo abituale. Torturano tutti: Gestapo, SD, Legione Muti, Brigate
nere, Guardia nazionale repubblicana, e tutte le varie bande autodefinitesi polizie speciali.
Nell’agghiacciante elenco spicca il carcere di San Vittore, divenuto luogo di supplizio per ebrei e
detenuti politici fin dalle prime settimane dell’occupazione.
Sorto sull’antico convento dei Cappuccini di San Vittore e tetro come le alte mura che lo
circondano, il complesso carcerario è composto da tre edifici, due dei quali a base rettangolare
adibiti ad alloggio del personale e a servizi vari, e il terzo, sei lunghi bracci di tre piani irradiantisi da
un corpo centrale sovrastato da una torre poligonale, destinato a contenere i detenuti. I tedeschi lo
occupano immediatamente riservandosi l’esclusivo controllo di tre bracci: il IV e il VI per i detenuti
politici, e il V per gli ebrei, in un primo tempo concentrati all’ultimo piano del IV e poi, con il loro
aumentare, anche ai piani inferiori.
Primo comandante del settore tedesco è dal settembre 1943 il maresciallo Helmuth Klemm, un ex
fabbro, cui da dicembre si affianca come vice il maresciallo Leander Klimsa, poi promosso direttore
quando nel febbraio-marzo 1944 Klemm è trasferito alla Gestapo. Sostituto di Klimsa è il
caporalmaggiore Franz Staltmayer detto «la belva» o anche «il porcaro». Ha già fatto il carceriere a
Varsavia: sempre accompagnato dal suo frustino e da un inseparabile feroce cane lupo, è il peggiore
di tutti. Roberto Mandel lo ricorderà così:
Era un colosso deforme. Veniva naturale di paragonarlo a un rospo eretto, alto un paio di metri. Nel suo volto dissimile nelle due parti, dalla bassa fronte neanderthaliana, gli occhi piccoli e sfuggenti, il naso enorme, la bocca di forno allungata da un lato, esprimeva solitamente la beatitudine bestiale, facile a mutarsi però, d’un subito, nella collera sanguinaria. Le mani da pugilista negro di quel degenerato dedito alla sevizia e alla crapula, accecavano, slogavano le mascelle, spezzavano i denti, fracassavano le ossa nasali. I suoi piedi smisurati, calzati da scarpacce chiodate e ferrate, prendevano spesso di mira la schiena, le ginocchia, il ventre, gli organi genitali.
I detenuti vivono sovraffollati, salvo la necessità di isolarli, in celle di quattro metri per due e
mezzo. Il regolamento imposto dal servizio di sicurezza germanico è rigidissimo: non si fuma e non si parla con i compagni di sventura, ciascuno è responsabile della pulizia personale e di quella della propria cella.
L’elenco dei divieti pare inesauribile. Basta un niente per essere massacrati di botte o
per finire segregati «ai topi», le celle sotterranee buie e umide dove i topi ci sono per davvero, e per
gli ebrei il trattamento è ancora più duro. Il prigioniero, se non ha commesso infrazioni e se il tempo e gli allarmi aerei lo consentono, ha diritto a un’ora d’aria al giorno. Le altre ventitré le trascorre in cella tra i miasmi del «boiolo», un vaso di terracotta di cui si deve servire per le necessità fisiologiche e che viene svuotato soltanto alle nove del mattino.
Il pasto è unico: circa mezzo chilo di pane e mezzo litro di brodaglia con qualche pezzo di patata
e qualche fagiolo. Nei primi tempi è concesso ricevere settimanalmente biancheria e cibarie
dall’esterno ma verso il novembre-dicembre 1943 i tedeschi scoprono dei biglietti in alcuni pacchi e
da quel momento viene proibita rigorosamente l’introduzione di cibi San Vittore dipende dal comando dell’albergo Regina ma Saevecke sosterrà di essere stato estraneo alla sua conduzione e, così come non sapeva delle torture praticate all’interno della sede del suo comando, nulla poteva sapere di quanto accadeva all’interno del carcere, né doveva interessargli perché al di fuori delle sue mansioni: «Il mio compito – scriverà – era solo la difesa contro i partigiani, che mi occupava veramente giorno e notte. Koch ed io ricevevamo tutti gli ordini solo da Rauff ed il carcere di S. Vittore dipendeva direttamente e solo da lui».
Il copione è quello recitato da tutti gli ex criminali nazisti: hanno solo eseguito degli ordini
superiori. Ma l’ex commissario va più in là, lui addirittura si chiama fuori da tutto ciò che a che
vedere con il carcere milanese: era Rauff a occuparsene. Lo SS-Standartenführer Rauff, l’ufficiale
che in Polonia aveva coordinato l’impiego dei camion della morte, colui che si riuniva con i
rappresentanti del mondo industriale dell’Italia settentrionale e con i plenipotenziari dei ministeri
tedeschi interessati agli armamenti, alla produzione bellica, all’alimentazione e all’incetta di forza
lavoro, l’uomo le cui valutazioni erano tenute in alta considerazione al quartier generale del Sipo-SD
di Verona, l’uomo su cui gravava la responsabilità della sicurezza dell’esercito germanico in
Piemonte, Liguria e Lombardia avrebbe dovuto, a detta di Saevecke, occuparsi anche – e lui
soltanto – della gestione di San Vittore. Saevecke mente anche su questo punto e lo fa per stornare
la responsabilità dei crimini che vi sono stati commessi e di cui era perfettamente al corrente, che ha acconsentito si protraessero nel tempo e ai quali ha talvolta assistito di persona senza battere ciglio.
La gravità di ciò che accade tra le mura di piazza Filangeri è denunciata fin dal dicembre 1943 in
un rapporto inviato ai servizi alleati da Alberto Damiani, delegato del Comitato di liberazione
nazionale della Lombardia:
Le carceri di San Vittore sono riservate quasi esclusivamente ai politici e la custodia è affidata alle SS; i prigionieri vivono in celle incatenati alle mani e ai piedi e solo dieci minuti al giorno vengono slacciati per mangiare e per i bisogni corporali. Così incatenati, vengono fustigati e la tortura normale per farli parlare è quella di mettere le dita delle mani sotto una pressa. Si parla di altre torture spaventevoli! Uno dei nostri amici è stato visitato: piagato in tutto il dorso, mani spaventevolmente tumefatte, polsi sanguinanti.
Alla crudezza di questi fatti non vogliamo aggiungere commenti, solo vi riproduciamo testualmente l’appello che ci giunge dal Comitato [di liberazione nazionale]: «Preghiamovi nel modo più vivo dare massima pubblicità in stampa, sollevando più alto scandalo possibile. Forse potrete alleggerire la sorte di qualcuno dei nostri.
Pregate radiolondra e radio N.Y. di chiamare in causa la responsabilità personale dei gerarchi fascisti e dei nazisti come criminali di guerra», con il riassunto della dichiarazione che il Comitato di Liberazione ha fatto nell’Italia occupata e che Vi preghiamo trasmettere con tutta urgenza per radio. Bisogna che tutto il mondo sappia di quanta bestiale crudeltà ed infamia sono capaci i nazifascisti; è bene che tutti gli uomini ricordino.
La relazione di Damiani e l’appello del Cln lombardo sono un’indiscutibile conferma delle atrocità
e dei metodi nazisti ma non costituiscono ancora una prova della diretta colpevolezza di Saevecke
quale emerge invece in modo inoppugnabile la mattina del 22 marzo 1963 quando Gina Righi,
dipendente comunale, rievoca davanti a Wiedemann e a Melodia le violenze subite:
fui arrestata, in Milano, il 23.3.1944, dal Mar.[esciallo] Franz. Insieme a me fu arrestato il sig. Antonio Ingéme.
L’imputazione era di aver fornito carte dì identità a persone ricercate dai nazisti e in particolare a Ebrei e a partigiani italiani.
[…] Dopo un paio di giorni che il mio compagno e io eravamo a San Vittore (3° raggio), fui condotta nella stanza degli interrogatori, al p.[iano] t.[erreno]. Erano presenti il mar. Franz e un interprete tedesco […].
Il mar. Franz, e l’altro tedesco, cominciarono a schiaffeggiarmi, e poi mi picchiarono con una bacchetta che sembrava di legno, ma aveva dentro una ‘anima’ metallica.
Questo primo interrogatorio durò circa 45 minuti; dopodiché, pesta e malconcia fui rimandata in cella.
Dopo qualche giorno […] fui ricondotta nella stanza degli interrogatori. Oltre al suddetto Franz, c’era, in borghese, questo Signor Saevecke, che io riconosco con sicurezza sia per la foto che mi viene esibita sia per il fatto che fu detto il suo nome, e non l’ho dimenticato. D’altra parte anche l’interprete disse: “Guardi, signorina, che noi stiamo riferendo al capitano quello che lei ha sostenuto durante il primo interrogatorio; tutte cose alle quali noi non possiamo credere, in quanto abbiamo delle prove. Si ricordi che lei sta rischiando la morte.”
Mi dissero che se avessi fatto i nomi dei membri del comitato mi avrebbero lasciata libera.
Saevecke era presente a questo interrogatorio e assistette imperterrito alla battuta datami dal mar. Franz. Fui sbatacchiata contro la parete della stanza, presa a schiaffi e a pugni, ecc. ecc. Si noti che Franz era molto grosso e massiccio e io pesavo, allora, 42 chili.
A mezzo dell’interprete, mi dissero: “Probabilmente, dopo 4 o 5 di questi interrogatori, si deciderà a parlare.”
Dopo altri 2 o 3 giorni subii un altro interrogatorio; ma il Signor Saevecke non era presente. Ricominciò la solita solfa di domande accompagnate da schiaffi, pugni, calci e nerbate. Io mi mantenni sempre sulla negativa.
Ci fu poi un quarto interrogatorio, simile in tutto ai precedenti, dopodiché mi fu letto un verbale, nel quale c’era scritto quello che volevano loro, ma c’era anche scritto che io mi ero mantenuta sulla negativa. Perciò firmai. […]
Ero così conciata, per le botte che mi avevano dato, che dovetti essere trasportata in infermeria, dove, date le condizioni in cui mi trovavo, dovetti restare per 4 o 5 giorni.
Dopo qualche altro giorno fu richiamato il mio numero; in cortile mi attendeva un’automobile nera, dove già era stato fatto salire il povero Ingéme, che, e si vedeva, era stato bastonato molto più di me. […]
Fummo condotti all’Albergo Regina, mi pare al 2° piano. […] c’erano il cap. Saevecke, il mar. Franz e altri tedeschi. Ci lessero il verbale, in tedesco. Credo che Ingéme capisse il tedesco, ma io non capii nulla.
Il 27 aprile 1944 fui mandata a Fossoli, dove il povero Ingéme fu fucilato, col gruppo dei 70, il 12 luglio del ’44. Io, il 2 agosto, fui mandata in Austria, e poi in Germania, a Thelthov, vicino a Berlino, dove fui costretta a lavorare in una fabbrica di piccole parti meccaniche per aeroplani.
Appena arrivata, io e le mie compagne fummo sottoposte a visita medica, alla fine della quale una donna fece a ognuna di noi una puntura, a seguito di che più nessuna di noi ha avuto le mestruazioni.
Sono rimasta lì 13 mesi; il 22 aprile fummo liberate, per opera dei Russi.
Saevecke dunque non soltanto conosceva i metodi usati dai suoi subalterni ma presenziava
quando qualche interrogatorio gli pareva di particolare interesse ed era così poco estraneo a quanto
accadeva nel carcere che vi si recava di persona.
All’interrogatorio di Antonio De Bortoli l’ufficiale nazista non è invece presente, ma sa bene cosa
gli stanno facendo e vuole dei risultati.
Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre sul monte San Martino, nel luinese, prende
vita una delle prime formazioni partigiane denominata «Regio Esercito-Gruppo 5 Giornate San
Martino». A novembre tra militari sbandati e ex prigionieri alleati evasi dai compi di concentramento sono circa cinquecento uomini comandati da Carlo Croce, un tenente colonnello dei bersaglieri sfortunatamente ignaro delle leggi della guerriglia partigiana, cosicché, quando a metà mese vengono circondati e attaccati da ingenti forze nazifasciste, l’esperienza si conclude con un tragico bilancio: decine di caduti tra morti in combattimento e fucilati, centocinquanta sfuggiti al rastrellamento e «un numero imprecisato consegnato ai servizi di sicurezza di Milano».
De Bortoli è un artigiano varesino, all’epoca quarantenne, impegnato nella raccolta di rifornimenti
alimentari per il San Martino ma una spia lo denuncia all’Ufficio politico investigativo della Milizia e il 22 ottobre 1943 viene arrestato. Rinchiuso per quattordici giorni nelle carceri di Varese e per altri
trentasei in quelle di Como, subisce complessivamente ben trentotto interrogatori, poi viene portato a San Vittore […] dove – racconta a Wiedemann – fui torturato cinque volte, dai marescialli […] Klemm, Klinzen [sic] e Grazach. Una volta mi furono date 180 nerbate, per tutto il corpo, mentre mi tenevano legato sul tavolino di una macchina da scrivere, che fu tutto fracassato. Ero vestito: mi era stata tolta soltanto la giacchetta. Rottosi il tavolino della macchina da scrivere, la fustigazione continuò sulla scrivania, mentre il Klemm mi teneva la testa e gli altri due (Klinzen e Grazach) mi battevano stando l’uno da una parte l’altro dall’altra. Dopo due ore, visto che non ce l’avevano fatta a farmi parlare, telefonarono all’hôtel Regina, dopo aver detto fra di loro che dovevano sentire dal Saevecke che cosa dovevano fare. Io capisco un poco di tedesco perché sono stato prigioniero,
durante l’altra guerra. Fu detto loro di continuare. Allora presero una catena e mi legarono con le braccia sotto le ginocchia. In quella posizione io non mi potevo più difendere. Così, con un colpo, mi ruppero la mascella (e ne porto ancora il segno), e la testa (idem) e il timpano dell’orecchio destro, dal quale non sento più. Penso che il timpano me l’abbiano rotto con un pugno. Il mio viso era tutto un grumo di sangue e quindi non potevo neanche vedere se avevano o no qualche oggetto nelle mani. Mi fu anche dato un gran colpo in fondo alla spina dorsale; e poi mi ruppero tre costole e, con gli stivaloni, le ossa delle mani. Io detti un grande strattone e ruppi la catena.
Pensavo che fosse finita; invece essi presero una corda e mi legarono di nuovo, nello stesso modo. Quando avevo rotto la catena si erano messi a ridere. Quando ruppi anche la corda si misero sull’attenti.
Poi fui messo in cella di rigore, isolato, e lasciato per molti giorni senza acqua. Ero anche senza paglione e non ebbi mai il diritto alla passeggiata.
[…] Quando uscii dalla cella non potevo stare diritto, mi trascinavo. Il mar. Franz pretendeva che camminassi in piedi, e mi dette 7 calci nelle gambe, uno dei quali sul nervo della coscia; ancora oggi, se tocco il punto esatto, sento dolore. Il calcio mi fu dato con la scarpa chiodata. Io rimasi in terra 4 ore; mi trascinavo a quattro zampe.
[…] Dalla foto che mi viene mostrata riconosco il Capitano Saevecke, che veniva spesso nelle carceri.
Confermo che quando coloro che mi interrogavano e mi bastonavano, telefonarono all’albergo Regina fecero il nome di Saevecke. Me lo ricordo, questo nome, perché io mentalmente lo collegai con la parola ‘Seveso’, che è un paese della Lombardia.
[…] Mentre mi deportavano verso la Germania, riuscii, a Verona, a fuggire e tornai a Milano a mezzo di camion tedeschi, viaggiando nella cabina di guida.
Virginia Dal Pozzo, anche lei arrestata insieme al figlio Manfredo il 21 febbraio 1944, rimane a
San Vittore fino al 21 giugno quando viene inviata al campo di Fossoli.
Io sentivo torturare – testimonia – e le suore di San Vittore sono andate da Schuster, dal vescovo, a dirci [sic] di far cambiare posto perché […] le torture che fanno le sentono tutti, e quelli che sono in prigione stanno male.
Quando andavamo ‘all’aria’ stavamo male perché sentìvum quelle cose lì […] e allora hanno cambiato. Li hanno messi nelle cantine a torturare … perché non si poteva resistere. […]
Le suore sono andate a chiedere che cessassero le torture ma anche di finire perché noi, insomma, le nostre donne l’era troppo un dolore. Non so se era suor Enrichetta o è andata la madre superiora. […] Era vicino […], era abbasso, al pian terreno, li torturavano anche lì. Non so in dov’erano ma so che, abbasso, io sentivo quando andavo giù: “No… non è vero… non ho fatto niente io …”, e giù botte.
L’avvocato Gaetano De Martino non poté essere sentito dal dottor Wiedemann ma sicuramente
Melodia consegnò al funzionario di Bonn il libro da lui scritto appena rientrato dalla deportazione,
quando tutto ciò che il professionista milanese aveva subito e visto era ancora freschissimo in ogni
particolare e per questo ce ne serviamo.
Detenuto a San Vittore dal 16 novembre 1943 al 3 marzo dell’anno successivo, De Martino incontrò diversi personaggi tra quelli fin qui rievocati e ne raccolse le testimonianze. La sua voce ha quindi il valore della loro.
«L’uomo allora più conosciuto in carcere e che più ci commuoveva per i patimenti subiti e per la
fermezza di carattere dimostrata» era Angelo Scotti. De Martino lo incontra appena incarcerato,
quando la gamba comincia ad essere afflitta dalla flebite procuratagli dai calci e dalle altre percosse
ricevuti prima all’albergo Regina e poi continuati a San Vittore […] Un ignoto capitano degli alpini, rinchiuso nella cella 54 del VI raggio, viene legato per i polsi a una corda fatta pendere dal soffitto e lasciato «per tre giorni e tre notti, sempre in piedi, senza alcun minuto di ristoro, neppure per i suoi bisogni, rigorosamente schernito dalle SS».
L’autista Luigi Luraghi è accusato di aver portato diversi ebrei alla frontiera svizzera e i tedeschi
ne vogliono i nomi […] Un altro giovane, un polacco, per porre fine ai massacranti interrogatori si impicca all’inferriata della finestra della propria cella e nello stesso giorno un vecchio viene raccolto agonizzante dopo essersi lanciato dalla ringhiera del terzo piano.
Anche il direttore dell’Opera Pia Cardinal Ferrari, don Paolo Liggeri, arrestato il 24 marzo 1944
per aver dato rifugio a renitenti ed ebrei, ha lasciato la sua testimonianza in un libro. E’ un uomo mite che ha fatto scelta e pratica di carità e compassione e nessuno può dubitare della veridicità di quanto ha scritto […] Di ciò che accade nel carcere milanese nei venti mesi dell’occupazione tedesca non rimangono soltanto le testimonianze di chi è passato per quell’inferno ma anche documenti ufficiali.
L’approssimarsi della ormai inevitabile sconfitta rende i nazifascisti sempre più bestiali e il 3
gennaio 1945 anche il cardinale Schuster si decide a compiere un passo ufficiale segnalando a Rauff,
tramite monsignor Bicchierai, i più recenti casi di violenza esercitati sui detenuti […] Il carcere milanese dipendeva da Saevecke e, se veramente il capitano non avesse avuto alcuna autorità in merito, avrebbe potuto troncare ogni discorso informando monsignor Bicchierai che la conduzione di San Vittore esulava dalle sue competenze anziché giustificarsi asserendo di essere all’oscuro degli eccessi che gli venivano denunciati. Inoltre avrebbe potuto liquidare la questione indirizzando monsignore a chi di quell’autorità era il detentore, non fosse altro per togliersi dai piedi quella che probabilmente considerava una seccatura che, non potendo essere risolta in modi a lui più
congeniali, bisognava ogni tanto sopportare. Ma l’Hauptsturmführer non fece niente di tutto questo e si limitò a scusarsi accampando una una poco credibile ignoranza dei fatti lamentati. A riprova delle sue responsabilità vi è anche un documento di fonte tedesca che, se da un lato tende a scagionarlo per il trattamento riservato agli ebrei all’interno di San Vittore, dall’altro invece attesta la sua piena autorità sulla sezione dei detenuti politici Negli stessi giorni in cui il cardinale Schuster inoltra formale protesta anche la Resistenza denuncia a Londra le responsabilità di Saevecke per le crudeltà di Franz e degli altri carcerieri.
Della cattura di Ferruccio Parri esistono diverse versioni che divergono in alcuni particolari, ma di
certo avviene per puro caso. Il 2 gennaio 1945, guidata da una spiata, la polizia di sicurezza
germanica piomba in un appartamento al terzo piano di via Vincenzo Monti 92 per arrestare due
membri della Organizzazione Franchi di Edgardo Sogno. Parri, appena arrivato da Voghera, è
provvisoriamente ospitato con la moglie in un’altra abitazione al piano superiore. I tedeschi ci vanno, trovano della documentazione compromettente e lo portano via senza sapere di aver fatto un colpo sensazionale. Arrivato a San Vittore, per non aver compreso immediatamente un ordine impartitogli, viene massacrato di botte dal solito Franz e gettato per due notti e tre giorni nei sotterranei, senza cibo né acqua. Condotto poi all’albergo Regina per essere interrogato si imbatte nello stesso poliziotto italiano che lo aveva arrestato nel 1942 e che ora ne rivela la vera identità. Da questo momento interviene Saevecke e il trattamento cambia: il personaggio è troppo importante e la sconfitta sempre più prossima.
Il Comitato di liberazione nazionale è però nel frattempo venuto a conoscenza del pestaggio
subito in carcere e, in ansia per la sorte di Parri, incarica Enzo Boeri di mandare agli alleati il
seguente messaggio: «Da Cln: prego BBC annunciate al più presto che gen. Wolff e capt. Saevecke
sono ritenuti responsabili per inumane crudeltà del caporale Franz e altri mascalzoni nel carcere di
San Vittore in Milano».
Il servizio informativo del Comando generale del Cvl lavora bene, tanto bene che, come riferirà
Boeri, Parri «riuscì a scrivermi un biglietto in cui mi raccomandava un’estrema prudenza, e mi diceva che i tedeschi avevano la più grande ammirazione per il nostro servizio Informazioni. “Il riconoscimento del nemico – egli mi scrisse – è il miglior elogio”».
Con monsignor Bicchierai Saevecke sostenne sempre, a quell’epoca, che il carcere era di
esclusiva competenza di Klimsa. […] Nel gennaio 1945 la polizia di sicurezza arresta casualmente Ferruccio Parri, anima della Resistenza e vicecomandante del Corpo volontari della libertà. «Maurizio», questo il suo nome di battaglia, deve essere salvato a tutti i costi, ma Saevecke, conscio dell’importanza della preda ne ordina il trasferimento da San Vittore all’albergo Regina dove viene posto sotto strettissima sorveglianza. Arrischiarsi a penetrare all’interno del comando tedesco per uscirne con Parri è un’impresa disperata ma Sogno, raccolte le informazioni necessarie, decide di tentarla ugualmente insieme a Turrina e al medico Stefano Porta, suoi fidatissimi e altrettanto coraggiosi collaboratori.
Scoperti mentre sono in procinto di attuare il piano studiato, Porta si apre un varco sparando ma
Sogno e Turrina vengono presi e, condotti nel garage dell’albergo, vengono sottoposti a un violento
pestaggio. Pugni, pedate, colpi da ogni parte con i calci dei moschetti: Turrina perde sangue dalla
testa, Sogno cerca di ripararsi come può, poi, immediatamente informato dell’accaduto, arriva
Saevecke. Turrina racconta che furono torturati «per ordine e in presenza di Saevecke» e che
Sogno, tra l’altro, venne denudato e gli furono schiacciati i testicoli con i calci dei fucili […]
Nelle sue memorie non accennerà al particolare ricordato da Turrina e scriverà: «Un ufficiale che stava con Saevecke prese nota di quanto dicevo. Poi Saevecke si allontanò e di nuovo le SS mi presero in mezzo e il pestaggio ricominciò […] Alla fine smisero. Cercai di alzarmi, ma in una gamba il dolore delle percosse era così vivo che non riuscivo a reggermi. Avevo anche ricevuto dei calci al basso ventre e provavo delle fitte lancinanti». I giornali che pubblicano il racconto di Turrina non riceveranno tuttavia alcuna rettifica o smentita a quanto dichiarato da quello che era stato uno dei suoi più fidati collaboratori […] Poi ci sono la violenza e la crudeltà a prima vista gratuite, ma che rispondono invece alla logica della affermazione razziale in virtù del perverso assioma che la superiorità è tale se anche nelle sue manifestazioni più brutali è esercitata senza apparente motivazione. Ecco allora, anche per gli ebrei e in dosi più massicce, la frequente sfibrante “ginnastica” raccontata da don Liggeri, il trascinarsi carponi, la cosiddetta «corsa dei ranocchi»: correre il più velocemente possibile stando «inginocchiati e piegati sui gomiti»; «la tortura del coniglio», consistente nell’obbligarli a sdraiarsi nudi sul pavimento e a percorrere poi tutto il corridoio del raggio sostenendosi solamente sui gomiti e sugli alluci portando sulla schiena un tedesco; gli spettacoli gladiatori imposti da Franz. Tutto rientra in un progetto organico e ben preciso finalizzato al conseguimento di quella disumanizzazione totale che troverà compimento nei lager […] Luigi Borgomaneri, Hitler a Milano. I crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo, DATANEWS Editrice, 1998

Un bel giorno agli inizi del gennaio 1945, in debito sfacciato con la fortuna, Saevecke cattura Ferruccio Parri, la più prestigiosa personalità politica e militare della Resistenza. Con «Maurizio» Saewecke si comporterà poi con una diplomatica correttezza che, in previsione dell’ormai inevitabile sconfitta, non è malignità attribuire a una opportunistica valutazione dell’importanza del prigioniero, ma per il resto, nel dirigere la repressione antifascista, il capitano non sembra proprio essere cambiato.
Fosse stato preso un anno prima c’è da giurare che sarebbe morto tra le più atroci torture, ma i tempi sono cambiati, l’uomo è personaggio di importanza europea, di «Europa Format» come lo definisce Wolff, e adesso per i tedeschi è di primario interesse l’acquisizione di elementi di valutazione politica. Più che la conoscenza della rete organizzativa del Comando generale partigiano o la dislocazione delle forze, a Saevecke e ai suoi superiori necessita ora capire se e quali margini esistano per inserirsi in quelle contraddizioni e per manovrare una pace separata con gli occidentali. Saevecke, che quando si tratta di personalità italiane di rilievo si dimostra pienamente consapevole dei limiti della brutalità dei suoi subalterni, affida a Luca Osteria l’incarico di interrogare Parri, ma l’ex provocatore dell’Ovra ha definitivamente fatto il salto della quaglia e perquasi un mese non soltanto concerterà con Parri le risposte, passando poi a Saevecke relazioni dal contenuto inconsistente e fuorviante, ma mostrerà al prigioniero importanti documenti riservati di fonte germanica, finché il 3 febbraio 1945 «Maurizio» viene trasferito al comando centrale di Harster a Verona. Vi rimane fino al 7 marzo quando, per diretto intervento di Wolff viene prelevato e accompagnato in Svizzera insieme al maggiore degli alpini Antonio Usmiani: gli americani ne hanno preteso la liberazione come pregiudiziale prova di buona fede per la continuazione delle trattative. Ad Harster Wolff dà a intendere che si tratta di uno scambio di prigionieri, un regalo per il compleanno di Hitler: Parri in cambio del colonnello Wünsche, ex aiutante di campo del Führer. Il gioco è rischioso anche per Wolff: Himmler ha proibito qualsiasi contatto con gli angloamericani e lo stesso Harster, che sul finire del 1944 ha avuto degli abboccamenti con il presidente della Snia Franco Marinotti nell’eventualità di un passaggio pacifico di potere agli alleati258, da tempo ne spia le mosse e adesso segnala a Himmler la strana liberazione di Parri.
Quando alla fine del febbraio 1945 il fidato Osteria sparisce improvvisamente, Saevecke lo rimpiazza con Vincenzo Cairella, dirigente la sezione dell’ufficio politico della Muti distaccata nella caserma Salines di via Tivoli, e per opera precipua del quale, verso la fine del 1944 divennero assai stretti i rapporti della Muti col comando SS dell’albergo Regina. Non è invece possibile appurare come si sia comportato rispetto alla prosecuzione delle trattative segrete fra tedeschi e angloamericani. Nei documenti e nella memorialistica sui negoziati con gli alleati, e su quelli poi abortiti con il Cln tramite la Curia milanese, ricorrono i nomi di Wolff, Dollmann, Rauff e del tenente Guido Zimmer, aiutante di campo di Wolff, compare anche quello del capitano Josef Vötterl, comandante la polizia di sicurezza alla frontiera di Como, ma non compare mai quello di Saevecke.
Né si sa quale posizione abbia preso dopo il 17 aprile 1945, quando, in seguito alla partenza di Wolff richiamato improvvisamente in Germania da un Himmler sempre più insospettito, il quadro della situazione milanese sembra improvvisamente peggiorare.
Impossibile che dal suo posto d’osservazione Saevecke non abbia colto i maneggi di Rauff e Dollmann con la Curia milanese, ma ormai lo sfoggio di un fanatismo fuori tempo può costare caro. Meglio asserragliarsi insieme agli altri all’interno del Regina e aspettare l’ala protettrice degli americani.
Saevecke e i suoi sanno in quali rischi incorrerebbero se si arrendessero ai partigiani e Wolff ha inoltre ottenuto dagli alleati l’impunità per i negoziatori. Si tratta di attendere due o tre giorni, l’albergo è difendibile e per stanarli la Resistenza dovrebbe distruggere l’intero palazzo, sacrificare altri combattenti e non ne vale la pena, il prezzo della libertà è già stato salato. Questa, almeno, la motivazione che fornirà Pietro Secchia268, ma oltre alla volontà di non versare altro sangue, sui comandi partigiani deve aver pesato anche il volere degli americani, a ricordare il quale ci penserà molto probabilmente anche il capitano dell’Office strategic services Emilio Quintius Daddario.
Il 28 aprile Daddario fa la spola tra l’albergo Regina e il comando generale del Corpo volontari della libertà, poche ore dopo, il 29 aprile, i carri armati americani entrano in città e il 30, sotto la loro protezione, Saevecke abbandona la sede del suo comando dopo diciannove mesi e diciassette giorni di occupazione spietata. Di quel giorno, e della fine dell’Aussenkommando Mailand, rimane una serie di fotografie che fissano la resa e l’evacuazione del Regina, e le riprese filmate dai cineoperatori militari della V armata statunitense e da un partigiano al seguito delle brigate di Moscatelli: gli appartenenti alla Wehrmacht, sotto scorta partigiana, sfilano a piedi per via Dante preceduti da due ufficiali che si coprono il volto davanti all’obiettivo; le SS, truppa e graduati insieme alle segretarie del comando, vengono caricati su camion mentre gli ufficiali lasciano l’albergo a bordo di alcune macchine scoperte ostacolati da una folla sempre più minacciosa che tenta di agguantarli, tanto che gli americani sono costretti a sparare alcune raffiche di mitra in aria per consentire loro il passaggio. Saevecke non sembra comunque apparire nei fotogrammi impressionati, forse se lo sono già portato via gli alleati, forse, come altri, non vuole essere immmortalato in quello che non può non vivere come il momento dell’umiliante sconfitta della sua arroganza.
Saevecke fu reclutato dalla CIA ( Central Intelligence Agency ) americana verso la fine degli anni quaranta e gli fu attribuito il nome in codice “Cabanio”. Probabilmente fu dovuto a tale passaggio nei servizi statunitensi che le indagini relative la suo caso, istruite già alla fine della guerra dallo Special Investigation Branch che si occupava dei criminali di guerra nazifascisti furono accantonate, malgrado le foto degli eccidi e le oltre 40 testimonianze a carico raccolte, inclusa la piena confessione, resa dallo stesso Saevecke ai militari americani d’occupazione, relativamente alla Strage di Piazzale Loreto e la fucilazione per rappresaglia di altri otto civili innocenti a Corbetta (Milano) nell’estate del 1944.
Finì così nell’«armadio della vergogna» anche il fascicolo che riguardava la strage del 10 agosto 1944 , contrassegnato dal numero 2167, riguardante 13 tedeschi e 4 italiani. Tra i tedeschi incriminati il colonnello Walter Rauff (comandante delle SS nella regione Italia Nord-Ovest), il generale Willy Von Tensfeld ed il capo della piazzaforte di Milano generale Von Goldbeck.
Saevecke fu introdotto nei ranghi della polizia della Germania occidentale e vi fece carriera indisturbato, giungendo a ricoprire il grado di vicedirettore dei servizi di sicurezza del Ministero degli Interni. MyMilitaria

I compiti di queste unità, affiancate dalla polizia vera e propria, variavano dall’antiguerriglia al presidio territoriale. Ad aiutarle si erano aggiunte altre forze paramilitari indipendenti: la più famosa che operò in Lombardia fu certamente la Legione autonoma Mobile Ettore Muti con sede a Milano.
Inoltre venne costituita la 29a divisione di Waffen SS <68, composta interamente da italiani, fatta eccezione per il comandante. Oltre ad avvalersi dell‟aiuto di queste unità bisogna ricordare che i tedeschi utilizzarono anche delle vere e proprie bande composte da assassini, truffatori, delinquenti di ogni sorta che operavano come polizie private e divennero famose per i loro metodi brutali.
Queste furono una sorta di polizie parallele molto gradite ai nazisti per le torture inflitte durante gli interrogatori ai ricercati in genere ma spesso anche alla gente comune <69. Tra queste, due sono da ricordare per l’attività svolta a Milano: la squadra del dott. Ugo Modesti, alias Luca Ostéria <70, e la banda Koch <71. La banda Koch, certamente la più violenta delle due, aveva la sua base a villa Fossati, rinominata “villa Triste”, al 17/19 di via Paolo Uccello in zona san Siro e talvolta operò anche fuori sede. La banda del dottor “Ugo” invece agiva a Milano e partecipò, come vedremo, all’arresto di parte della redazione de “il Ribelle”. Ma, una volta compreso che la guerra era vinta dagli alleati, intervenne in favore della Resistenza per evitare poi ritorsioni a guerra finita <72. Nel caso specifico di OSCAR, durante la fuga in Svizzera di Indro Montanelli.
Gli alti ufficiali tedeschi di stanza a Milano che sono da ricordare per lo svolgersi degli eventi sono il generale SS Karl Wolff <73, il rappresentante diretto di Himmler colonnello SS Eugen Dollman <74, il colonnello SS Walter Rauff <75, comandante della SIPO <76 e dell’unità SD <77, il capitano SS Theodore Emil Saevekce, capo della GESTAPO <78 e da cui dipendeva direttamente la banda Koch <79.
68 Waffen sta per combattenti, quindi in italiano diventa “SS combattenti”.
69 Per la brutalità dei metodi possono ricordare le vecchie Sturm Abteilung (SA) tedesche, di ridottissime dimensioni ovviamente, le camicie brune di Rhom eliminate da Hitler per arrivare definitivamente al potere in Germania.
70 Molto interessante in questo senso visionare e confrontare i resoconti che lo stesso Ostéria lasciò nel suo fondo all’INSMLI e la testimonianza di altri protagonisti quali mons. Barbareschi sui medesimi eventi.
71 Prima di arrivare a Milano nell‟agosto 1944 la banda Koch aveva già operato a Roma. La banda Koch fu dispersa prima della fine della guerra dalla Legione autonoma Mobile Ettore Muti per via di tali atrocità, cfr. G. Vecchio, Lombardia 1940-1945, Morcelliana, Brescia 2005, p. 260.
72 Luca Ostéria è stato un personaggio ambiguo, parte della documentazione di questa tesi è tratta dal suo fondo in arch. INSMLI, resta però che i suoi memoriali sono in difetto per l‟utilizzo errato di nomi e date.
73 Cfr. Lamb R., La guerra in Italia, Corbaccio, Milano 1993, pp. 22-46-68-69.
74 Cfr. ibidem, pp. 84 e 373.
75 Vedi G. Vecchio, Lombardia 1940-1945, Morcelliana, Brescia 2005, p. 271.
76 Forma breve di Sichereistpolizei che significa polizia di sicurezza.
77 Forma breve di Sichereistdienst che significa servizio di sicurezza.
78 Forma breve di Geheime Staatspolizei che significa polizia segreta di Stato.
79 Per le relazioni che intercorrevano tra il cap. T. Saevekce e la banda Koch e il loro ruolo a Milano rimandiamo a Lamb R., La guerra in Italia, Corbaccio, Milano 1993, pp. 362-364
Stefano Bodini, Gli Scout Milanesi e la Resistenza, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2009-2010