Sul comandante partigiano Gemisto

Francesco Moranino, il comandante partigiano «Gemisto», fu tra i protagonisti della guerra di Liberazione e il più giovane componente dell’Assemblea Costituente. Ricoprì inoltre la carica di sottosegretario alla Difesa nel terzo governo De Gasperi, l’ultimo di «unità nazionale» prima del piano Marshall. Nel 1948 fu rieletto deputato, ma fu presto coinvolto in un’inchiesta per l’omicidio, avvenuto nell’inverno 1944, di cinque civili sospettati di spionaggio e delle mogli di due di essi. Moranino, assai poco fiducioso nella giustizia, espatriò in Cecoslovacchia. La sua travagliata vicenda animò il dibattito politico e si trascinò per molti anni tra rielezioni parlamentari, una nuova autorizzazione a procedere del 1955 e il conseguente processo con la condanna all’ergastolo. Moranino non usufruì della grazia concessa dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nel 1964, ma rientrò in Italia solo due anni dopo, quando gli eventi per cui era stato condannato furono riconosciuti come azioni di guerra. Questa nuova edizione, dopo la prima del 2013, contiene approfondimenti sul processo e sulla situazione italiana nel pieno della «Guerra fredda».
Redazione, Presentazione di Massimo Recchioni, Francesco Moranino, il comandante “Gemisto”. Un processo alla Resistenza, Derive Approdi, 2021

Piemontese di Tollegno, nel Biellese, il comandante partigiano Francesco Moranino è stato tra i protagonisti della guerra di Liberazione e il più giovane membro dell’Assemblea Costituente. Aveva scelto come nome di battaglia quello di «Gemisto». La sua storia è raccontata in un libro scritto da Massimo Recchioni che da lungo tempo svolge ricerche sulla Resistenza e sulle figure che vi hanno partecipato. Il frutto di questo impegno ha preso la forma di saggi e volumi che contribuiscono alla conoscenza di una pagina di storia dalla quale è nata l’Italia del dopoguerra; il paese che cercava di emergere dalle macerie lasciate da vent’anni di fascismo e dalla tragica partecipazione al secondo conflitto mondiale.
[…] In quegli anni terribili Gemisto contribuisce a combattere tutto questo per poi partecipare all’opera di ricostruzione materiale e soprattutto morale di un paese prostrato. Esponente di una classe politica rinnovata, diventa sottosegretario alla Difesa nel terzo governo De Gasperi, l’ultimo di “unità nazionale”, prima del Piano Marshall, e nel 1948 viene rieletto deputato. Ben presto, però, la sua vita cambia a causa di un’inchiesta giudiziaria che lo coinvolge. Quella riguardante l’uccisione, nell’inverno del 1944, di cinque civili sospettati di spionaggio e delle mogli di due di essi. Temendo il peggio Moranino si rifugia in Cecoslovacchia. La vicenda che lo vede coinvolto infiamma il dibattito politico e si protrae a lungo: si arriva a una nuova autorizzazione a procedere che ha luogo nel 1955 e alla condanna all’ergastolo. Nel 1964 gli viene concessa la grazia dal presidente Saragat ma non ne approfitta e torna in Italia solo nel 1966, quando finalmente i fatti per cui era stato condannato vengono riconosciuti come azioni di guerra.
Con i suoi approfondimenti, il libro completa la prima edizione, uscita nel 2013 con le prefazioni di Lidia Menapace, Alessandra Kersevan e Pietro Ingrao a testimonianza della qualità dell’opera, e illustra la situazione esistente in Italia negli anni della Guerra fredda. Descrive il profilo del personaggio, contiene pagine del suo diario e alcune delle lettere scritte ai familiari dal carcere in cui era detenuto come prigioniero politico negli anni del conflitto. Da esse traspare una convinta adesione all’antifascismo e alla resistenza, la determinazione, espressa ai genitori, a portare avanti quel percorso, malgrado le sofferenze legate a tale scelta. Numerosi gli approfondimenti riguardanti il dopoguerra. L’amnistia del Guardasigilli Togliatti in nome della pacificazione nazionale che provoca accese proteste da parte dell’associazionismo partigiano e una frattura fra la base del PCI e il segretario, impegnato nell’organizzazione del partito come forza politica di massa incardinata nei processi di democratizzazione di un paese in via di rinnovamento. Ma va detto che lo schieramento del PCI con l’URSS di Stalin nega qualsiasi prospettiva di “democrazia progressiva” e avrebbe presto impedito al partito di partecipare a iniziative di governo, secondo la condizione poi definita conventio ad excludendum.
Con la pretesa pacificazione nazionale vengono amnistiati diversi personaggi coinvolti direttamente o indirettamente nel regime fascista, altri non vengono mai né “indagati né interrogati”. Il libro passa in rassegna alcune di queste figure dando di esse dei brevi cenni biografici: Giorgio Almirante, Gaetano Azzariti, Rodolfo Graziani, Pietro Badoglio, Junio Valerio Borghese, l’uomo del tentato golpe. Si fa menzione, quali nuove forme di resistenza represse, dell’eccidio di Portella della Ginestra, di quello delle Fonderie Riunite di Modena nel gennaio del 1950, quando la Polizia di Stato sparò contro i manifestanti uccidendo sei operai e ferendo circa 200 persone. Avevano partecipato allo sciopero indetto dalla CGIL per protestare contro il licenziamento di oltre 500 operai metalmeccanici. Si ricordano le manifestazioni di Genova nel 1960 per impedire lo svolgimento in quella città, medaglia d’oro della Resistenza, del congresso del MSI. Si ricordano le manifestazioni e la relativa dura repressione da parte del governo Tambroni nel capoluogo ligure, e i morti di Reggio Emilia provocati dall’intervento di polizia e carabinieri a fronte dello sciopero cittadino per protestare contro le violenze di Genova.
Il resoconto della vicenda di Moranino e dell’Italia della Guerra fredda sono un invito a tenere caro il messaggio della Resistenza e a difenderne il valore dai revisionismi in atto. Quelli che vorrebbero addossare agli autori dell’attentato di via Rasella la responsabilità della rappresaglia nazista, complici le autorità fasciste, o che intendono delegittimare l’opera dei partigiani accusandoli di esecuzioni sommarie e di regolamenti di conti violenti. Valga per tutte queste accuse la risposta di Italo Calvino: “Dietro il milite delle Brigate Nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, che di queste non ce ne sono”.
Massimo Congiu, Il partigiano Gemisto e la criminalizzazione della Resistenza, Micromega, 16 luglio 2021

Non c’è biellese, non c’è valsesiano, oggi possiamo ben dire non c’è partigiano italiano che non conosca Gemisto.
Non tutti forse sanno che Giorgio Gemisto era il nome di un filosofo famoso nato intorno al 1355, ma tutti sanno che Gemisto era il nome di battaglia di Franco Moranino.
Aveva vent’anni quando fu condannato dal tribunale speciale, appena 23 quando, l’8 settembre, primo tra i primi organizzò le formazioni partigiane biellesi sul Monte Cucco, al Bocchetto della Sessera.
I nomi di Moscatelli, di Ciro (Eraldo Gastone), di Gemisto, di Quinto (Antonietti), di Italo (A. Poma), di altri valorosi, ignoti o quasi alla vigilia dell’armistizio diventarono ben presto leggendari in quelle valli ed in tutto il Piemonte, sono tra i protagonisti di un’epoca eroica, del più grande moto popolare nella storia del nostro paese.
Nino Bixio, Carlo Pisacane, Mameli, i fratelli Bandiera, A. Gramsci, questi i nomi che Moranino assegnò ai distaccamenti che costituivano la sua brigata. Questa durante il 1944 si ingrandi, si sviluppò nella lotta, diventò la XII divisione Garibaldi.
I giovani di oggi, che non sanno chi è Franco Moranino, apprendono dalle cronache che si tratta di un «delinquente» condannato all’ergastolo.
Dodici anni or sono, quando organizzava e guidava al combattimento i soldati e gli ufficiali, non vi era baita di montagna, non cascinale in pianura che non si aprisse al bussare degli uomini di Franco Moranino.
Dappertutto in ogni villaggio, in ogni cascinale, sino alla più piccola baita il nome di Gemisto era pronunciato quasi con venerazione.
I più non l’avevano mai visto, non l’avevano mai conosciuto, ma conoscevano il suo nome per le gesta eroiche, egli era obbedito come un capo leggendario, i suoi partigiani, le sue staffette trovavano aiuto, ospitalità in ogni casa ove si presentavano.
Ecco come descrivono la figura di F. Moranino due scrittori svizzeri, André Guex e René Caloz, in un libro, Le sang et la peine, pubblicato alcune settimane dopo il 25 aprile 1945.
«Dopo aver lasciato la Valsesia, penetriamo nel Biellese, distretto popolare e industriale dove sono concentrate la maggior parte delle filature italiane. Qui non ci sono più tedeschi. La zona è stata liberata dai partigiani. Gli uomini di Gemisto non dormono più nelle baite, nelle tane, nei vigneti e tra i boschi, ma sono accolti, alloggiati, accarezzati da una popolazione esultante, liberata da una presenza esecrata. […]
«Finalmente arriviamo. Gemisto ha installato il suo comando in una di quelle vecchie case di campagna tipicamente italiane. Entriamo, Gemisto sta dettando una lettera con la sua voce rapida e sonora, mentre nella stanza altri partigiani, il medico militare, un ex prigioniero tedesco, il cappellano don Russo stanno discutendo animatamente.
«Gemisto, mentre dettava a macchina, ha ascoltato sino a quel momento la conversazione senza intervenire, balza ad un tratto dalla sedia e grida a Costanzo (un ex ufficiale dell’esercito): “Come, tu sostieni che gli italiani non sono intelligenti? Anch’io durante i lunghi anni della mia prigionia mi chiedevo: ma il popolo italiano non ha del coraggio? Eppure, vedi, ora che cosa hanno saputo fare gli italiani.” E Gemisto parla, parla sul coraggio, sull’intelligenza dei popoli quando lottano per la loro causa, per la causa della libertà. Quest’uomo trasportato dal suo tema sembra un vulcano, la sua parlata italiana chiara e sonora si ripercuote sotto l’arcata come un ritmo di mitragliatrice. Dei nomi di filosofi, di poeti, di musicisti, Verdi, Goethe, D’Annunzio, Garibaldi, Labriola, Gramsci vengono gettati, ripresi, rilanciati, ma questa lava bollente sembra canalizzata dalla logica serrata di Gemisto. Egli si anima spinto dalla sua passione e gli ascoltatori sono afferrati dai suoi argomenti. Tutto ad un tratto si precipita su di un mucchio di libri, ne prende uno, lo apre, si rivolge al suo segretario e gli dice: tu sei un contadino o figlio di contadini. Ebbene: “…si vedono degli animali feroci, dei maschi e delle femmine sparsi per la campagna, neri, lividi e tutti bruciati dal sole, attaccati alla terra che essi frugano e rimuovono con una ostinazione invincibile, essi hanno come una voce inarticolata, in realtà sono degli uomini. Si ritirano durante la notte nelle tane, nelle caverne, vivono di pane nero, d’acqua e di radici, essi risparmiano ad altri uomini la fatica di seminare, di lavorare e di raccogliere per vivere e meritano così di non mancare del pane che essi hanno seminato.”
«”Chi è quel fascista che ha scritto questo?”, grida il contadino partigiano. Gemisto ride di cuore e dice: “Non è un fascista, si tratta di uno scrittore francese, si tratta di La Bruyère. Ci fa vedere com’erano le cose al mondo alcuni secoli or sono. Poi da allora ne vennero molti altri, vi è stato soprattutto Marx…”»
Ecco l’uomo condannato all’ergastolo. La condanna di Franco Moranino non colpisce un uomo, un garibaldino, un comandante partigiano, ma tutta la Resistenza. L’ergastolo tramutato in dodici anni di reclusione a Moranino è una condanna che può indignarci, ma non ci umilia. I partigiani possono attaccare la sentenza sulle loro bandiere, assieme alle medaglie che ricordano le ore del combattimento e del riscatto.
Non vi è nessuno di coloro che hanno conosciuto Franco Moranino che possa credere che egli uccidesse degli innocenti così, per il bel gusto di uccidere. Nessuno dei partigiani, dei patrioti, degli uomini che lo hanno conosciuto crederà mai che nel suo animo albergasse la ferocia.
Egli ha sempre avuto il cuore aperto alla generosità, alla pietà, al perdono. Nei primi tempi della guerra di Liberazione, quando l’esperienza era ancora scarsa, egli fu persino rimproverato dal comando militare del CVL perché troppi nemici fatti prigionieri riuscivano a commuoverlo e a farsi liberare.
Qualcuno nei giorni scorsi ha pronunciato in un’aula, dove la giustizia e la verità dovrebbero essere sacre, parole di bestemmia; qualcuno ha detto che Moranino non appartiene alla Resistenza. Chi ha pronunciato quelle parole – ne siamo ben certi – non ha mai conosciuto Moranino, non ha mai conosciuto la Resistenza.
La Resistenza per certi uomini che non la vissero è qualcosa di astratto, poco più di un vocabolo, è una ricorrenza che si celebra una volta all’anno, al 25 aprile.
Ma la Resistenza nella sua grandezza, nei suoi eroismi e nelle sue tragedie, la terribile realtà della guerra è ignorata da molti di coloro che oggi, a distanza di anni, si ergono a giudici dei nostri combattenti.
Non conoscono la Resistenza nella sua realtà viva, nei suoi sacrifìci, nelle sue audacie e nelle sue asprezze, non conoscono la Resistenza fatta dagli uomini in carne ed ossa, fatta di stenti, di sangue, di sofferenze, di immani responsabilità.
Non pensano che i partigiani non disponevano né di prigioni, né di fortezze, né di archivi, né di territori stabilmente liberati, né di possibilità per condurre indagini e inchieste. Eppure i comandanti partigiani in certi momenti erano costretti a giudicare i loro simili e lo dovevano fare poiché lo imponevano le dure esigenze della guerra, perché dovevano difendere la vita dei loro uomini dalle insidie del nemico, dei traditori e delle spie.
Sacro, anche se duro, era il dovere che compivano quegli uomini perché sul capo dei comandanti partigiani chiamati a giudicare, ad amministrare giustizia sui monti o in mezzo ai boschi pendeva la minaccia continua del nemico in agguato che poteva in qualsiasi momento sorprenderli, loro ed i loro uomini, catturarli, sarebbe stata la tortura atroce e poi la morte.
È facile oggi processare e giudicare. Ma coloro che giudicano hanno conosciuto la Resistenza? Le angosce delle notti senza sonno, l’avvicinarsi delle SS, dei passi ferrati, le brigate nere che arrivavano, che bussavano alle porte delle case, e i partigiani costretti a restare nascosti, sotterrati nelle buche? Sanno che cosa voleva dire venire a conoscere le sevizie dei compagni torturati, la notizia dei pacifici cittadini e dei patrioti impiccati all’angolo delle strade?
Si dice che tra le spie fucilate vi sono stati degli innocenti, si dice che durante la Resistenza si sono commessi degli errori. Ma come non commettere anche degli errori in quelle condizioni?
Come si può giudicare con giustizia, con onestà se non si tiene conto di come era allora la vita, se si dimentica che si trattava di una guerra per la vita e per la morte, di una guerra in cui i patrioti si battevano con ogni mezzo per conquistare al nostro paese la libertà, se si dimentica che i partigiani erano continuamente braccati dai tedeschi e dai fascisti, se si dimenticano le orrende torture cui erano sottoposti?
Quando si pensa ai nostri caduti, alle baite, alle cascine incendiate, ai villaggi saccheggiati, alle nostre donne violentate dai barbari che non conoscevano né leggi umane, né leggi civili, quando pensiamo alle camere di tortura fasciste, ai campi di sterminio nazisti e poi ci guardiamo intorno e scorgiamo le nostre città liberate, i comignoli fumanti delle nostre fabbriche, le nostre campagne ubertose, questo apparente benessere del nostro paese, in confronto all’Italia di dodici anni or sono, allora pensiamo al miracolo. Ma questo miracolo lo hanno compiuto i Moranino ed i loro uomini.
Pietro Secchia, La resistenza accusa 1945-1973, Mazzotta editore, 1973

Francesco Moranino, nato in un piccolo centro del Biellese nel 1920, fu arrestato dai fascisti all’inizio del 1941 e condannato a 12 anni di carcere dal tribunale speciale. Nel 1943, dopo la caduta del fascismo, tornò in Piemonte e, col nome di battaglia di “Gemisto”, formò, insieme ad altri giovani come lui, una tra le primissime Brigate Garibaldi. Quella Brigata, unendosi ad altre, sarebbe diventata, nell’autunno del 1944, la Divisione “Nedo”, con 1.500 componenti.
Dopo la liberazione, come componente più giovane in assoluto, Moranino fu eletto all’Assemblea Costituente. Nel 1947, nel terzo governo De Gasperi, fu chiamato a ricoprire il ruolo di sottosegretario alla Difesa.
Poi venne il 1948, e con esso le elezioni politiche che segnarono la sconfitta del “Fronte Popolare” e l’inizio della “restaurazione”. I fascisti, cifre alla mano, furono nella quasi totalità amnistiati. Molti partigiani, tra i quali Moranino, furono invece oggetto di indagine e destinatari di rinvio a giudizio. Nel novembre del 1944 il Comando della Divisione Nedo aveva dovuto prendere la sofferta decisione di uccidere cinque uomini, reputati delle spie. Poche settimane dopo furono uccise anche le mogli di due di essi.
La storia di Moranino è stata tramandata a noi come frutto dell’informazione “monocolore” dell’epoca. Il processo a Gemisto (primo parlamentare della storia della Repubblica per il quale fu concessa l’autorizzazione a procedere e all’arresto) fu celebrato nel pieno della guerra fredda, con una magistratura che ben poco si discostava da quella del ventennio. Inoltre, nel processo, numerose testimonianze a difesa non vennero considerate; molti testimoni cambiarono versione. Insomma Moranino andava riconosciuto colpevole e lo fu. Stravolgendo i fatti, scagionando tutti gli altri, persino la dozzina di persone che materialmente sparò; perché solo così si poteva negare la decisione “collettiva”; perché’ solo così addebitando quei fatti a una sola persona si poteva disconoscere l’azione di guerra.
Il deputato Moranino fuggì a Praga, poi ritornò, poi rifuggì… alla fine, quando – solo nel 1966 – si riconobbero quei fatti come fatti di guerra, tornò in Italia, dove, due anni dopo, fu eletto al Senato. Morì, a soli 51 anni, nel 1971.
Con l’analisi delle testimonianze, delle carte processuali, della figura di quel giovanissimo capo partigiano, ne emerge la storia di un processo politico che, nel clima di quegli anni bui, tendeva a colpire il partito comunista e il movimento resistenziale. A distanza di tanti anni, un po’ di luce su una figura “scomoda” per il suo stesso partito e sul processo che lo condannò.
Massimo Recchioni

Francesco Moranino (Gemisto). Nato il 6 febbraio 1920 a Tollegno, ivi residente, impiegato della Gioventù italiana del littorio. Il 18 gennaio 1941 fu arrestato in seguito alla scoperta del gruppo antifascista “Gomirc” (Gruppo operai movimento italiano rivoluzionario comunista) che aveva costituito. Deferito al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, l’8 aprile fu condannato a dodici anni di reclusione, a sei mesi di arresto, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e alla libertà vigilata. Fu detenuto a Civitavecchia (Rm) e a Castelfranco Emilia (Mo). Scarcerato il 26 agosto 1943, dopo l’8 settembre fu uno dei primi organizzatori del movimento di liberazione nel Biellese. Comandante del distaccamento “Pisacane”, poi della 50a brigata d’assalto Garibaldi “Nedo” e successivamente commissario politico della XII divisione, fu una delle figure più note della Resistenza. Dopo la Liberazione ricoprì incarichi nel Partito comunista […]
(a cura di) Piero Ambrosio, I “meravigliosi” legionari. Storie di fascismo e Resistenza in provincia di Vercelli, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, 2015

Il sottotitolo del libro “Un processo alla Resistenza” annuncia subito la tendenza storiografica e politica dell’autore, il che è sempre la migliore ricetta per fare della storiografia seria. Non vuol dire «oggettiva», «neutrale», ma impegnata e attenta alle prove, alle testimonianze, alla documentazione ecc. Come è noto, mentre negli studi delle scienze dette «esatte» – dati certi presupposti logici – si è necessitati a certe conclusioni (come volevasi dimostrare) e nelle scienze dette sperimentali la prova della verità sta nella ripetibilità dell’esperimento, nelle scienze dette «morali» o «storiche», la verità scientifica che si raggiunge si chiama «certezza morale»; vera, certa, ma anche sempre aperta al rischio che nuove prove o documenti, o più raffinate capacità di lettura e interpretazione dei testi, dei documenti e delle prove, suggeriscano altro. Niente di meglio che sottoporre la Resistenza italiana a questo metodo, andando oltre le glorificazioni acritiche (a dire il vero assai rare) e le condanne ideologiche (queste sì molto numerose) per avviare – in un rinnovato interesse storiografico per quello straordinario evento – la ricerca di un’immagine più vera, spessa, complessa, ma soprattutto contestualizzata e non giudicata in aria, astrattamente, secondo categorie pregiudiziali e del tutto inutili. Il lavoro di Massimo Recchioni si colloca per l’appunto su questo difficile ma necessario crinale e prende di petto una delle vicende più contestate della Resistenza, uno dei crocicchi di domande, interpretazioni e accuse che collocano il «caso» Moranino accanto a quello Gentile o a quello delle foibe; non nel senso che le vicende siano paragonabili – sono anzi del tutto dispari – ma per far vedere come le posizioni pregiudiziali e precostituite (meritano ancora il nome di storiografia o si chiamano piuttosto propaganda?) non reggano a una seria e aperta metodologia storica. Poiché la lettura del libro rafforza ciò che dico – dimostrando con abbondanza di documenti, testimonianze, analisi ciò che afferma – non aggiungo altro su questo terreno, limitandomi a osservare che la documentazione dei dibattiti parlamentari ha ancora fortissimo il senso delle passioni che agitavano le aule: le testimonianze di deputati che presero parte alla Resistenza affermano una solidarietà politica, morale e giuridica ineccepibili. E ancora commovente. Lasciato dunque il libro parlare da solo attraverso le voci dei vari attori della vicenda, raccolte e discusse molto attentamente da Massimo Recchioni, voglio dire qui come giudico la Resistenza sotto il profilo delle responsabilità etiche. Premetto in linea generalissima che essa come ogni evento storico importante ha il suo oro (grande, grandissimo) e il suo fango (qualche spruzzo), ma che non può comunque essere giudicata alla stregua dei criteri che si usano per le guerre. La guerriglia ha altre motivazioni situazioni, norme e legittimazioni. So che la guerriglia non fa prigionieri se non per scambiarli, perché a tacer d’altro non possiede sul territorio né tribunali specifici né carceri, e i suoi insediamenti sono così avventurosi, pericolosi e clandestini che non consentono di avere una giurisdizione «normale». Inoltre voglio dire che la Resistenza italiana ha caratteri peculiari che non si possono paragonare a quelli di nessun’altra resistenza antifascista e antinazista: Francia, Belgio, Danimarca, Olanda, Norvegia, Jugoslavia ecc. avevano i loro rappresentanti statali che ne garantivano la legittimità dall’esilio in Inghilterra, oppure li avevano sul territorio (come il maresciallo Tito). Vi furono certo collaborazionisti con l’invasore, ad esempio in Francia, in Norvegia, ma in nessun caso i resistenti si trovarono a dover fronteggiare un nuovo Stato insediato dai nazifascisti sul suolo del paese occupato. Mentre in Italia il Re, col suo governo, fuggì – ma restando sul suolo nazionale – e Mussolini liberato dalle SS dalla prigionia sul Gran Sasso costituì un altro Stato, mettendo cittadini e cittadine (se così ci potevamo chiamare sotto il fascismo redivivo) in una situazione di drammatiche domande.
Dalla Prefazione di Lidia Menapace.
Massimo Recchioni, Francesco Moranino, il Comandante «Gemisto». Un processo alla Resistenza, Derive Approdi, 2013

[…] Il Comandante “Gemisto”, Francesco Moranino, iscritto al Partito comunista clandestino nel 1940, l’anno successivo venne arrestato e condannato a 12 anni di carcere da parte del Tribunale speciale. Detenuto a Civitavecchia, venne liberato nel 1943 a seguito della caduta del fascismo e, dopo il successivo armistizio, entrò nella Resistenza. Inviato dal PCI nel Biellese, assunse il nome di battaglia di “Gemisto”, diventando prima comandante del Distaccamento delle Brigate Garibaldi denominato “Pisacane” e succesivamente quello della 50ª Brigata Garibaldi fino a che, con l’incarico prima di comandante e poi di commissario politico, fu destinato alla XII Divisione Garibaldi Pietro Pajetta (Nedo), che arrivò a contare ben 1500 uomini. Dopo la liberazione, come componente piu’ giovane in assoluto, Moranino fu eletto all’Assemblea Costituente. Gli anni dopo il 1948, in seguito alla sconfitta elettorale del Partito Comunista, furono gli anni delle epurazioni e della persecuzione giudiziaria dei partigiani, mentre i fascisti corresponsabili della dittatura, delle stragi insieme ai nazisti, delle torture dei partigiani, cifre alla mano, furono nella quasi totalita’ amnistiati. Quando non addirittura assunsero pari pari, gli stessi ruoli nelle prefetture, nelle questure, negli uffici pubblici, che avevano avuto durante il fascismo. L’inizio della “restaurazione”.
E così anche per “Gemisto” iniziarono gli anni forse peggiori, subendo le accuse più infamanti, macchiandone con il sospetto la storia, la persecuzione politica poichè partigiano comunista. Nel novembre del 1944 ebbe luogo nel Biellese quella che è stata consegnata alla storia come la “strage della missione Strassera”, quando il Comando della Divisione Nedo aveva dovuto prendere la decisione di uccidere cinque uomini, spie infiltrate tra i partigiani e poche settimane dopo furono uccise anche le mogli di due di essi.
Motivo sufficiente nel corso degli anni per montare la peggior propaganda antipartigiana e anticomunista, fino al punto che “Gemisto” diventerà il capro espiatorio del revisionismo politico di Stato. Fu infatti il primo parlamentare della storia della Repubblica per il quale venne concessa l’autorizzazione a procedere e all’arresto, celebrato nel pieno clima della guerra fredda e con una magistratura i cui componenti, come detto, non erano per nulla diversi da quelli che operarono nei tribunali fascisti.
Il processo fu una farsa, senza alcuna intenzione di fare giustizia, quello che andava istituito doveva essere un processo politico alla Resistenza ed al Partito Comunista. Tant’è che numerose testimonianze difensive non vennero affatto prese in considerazione, testimoni che cambiarono più volte versione, fatti storici volutamente stravolti e gli stessi esecutori del fatto, erano in tutto una dozzina, vennero scagionati senza la stessa “meticolosità” con cui doveva essere invece riconosciuto colpevole Moranino.
Il comandante partigiano comunista, il deputato comunista. Solo così, negando e omettendo nel processo la decisione “colletiva” di quanto avvenne, addebitando quei fatti ad una sola persona, si poteva disconoscere l’azione di guerra. Moranino così fuggì a Praga, sorte toccata a tanti altri partigiani comunisti, ai quali si voleva far pagare colpe che non avevano, sempre in ragione dell’anticomunismo su cui si stava edificando l’Europa del dopo guerra. Rientrò e poi fuggì nuovamente, nonostante la grazia concessa dal presidente Saragat e solo quando nel 1966 si riconobbero quei fatti come “legittimi fatti di guerra” , Moranino tornò in Italia, dove, due anni dopo, fu eletto al Senato. Morì, a soli 51 anni, il 28 giugno 1971.
Redazione, “Francesco Moranino, il comandante Gemisto”: il partigiano comunista, il più giovane eletto all’assemblea costituente. L’iniziativa di Patria Socialista, Next stop Reggio, 4 Dicembre 2021

Francesco Moranino, il comandante partigiano «Gemisto», fu tra i protagonisti della guerra di Liberazione e il più giovane componente dell’Assemblea Costituente. Ricoprì inoltre la carica di sottosegretario alla Difesa nel terzo governo De Gasperi, l’ultimo di «unità nazionale» prima del piano Marshall. Nel 1948 fu rieletto deputato, ma fu presto coinvolto in un’inchiesta per l’omicidio, avvenuto nell’inverno 1944, di cinque civili sospettati di spionaggio e delle mogli di due di essi. Moranino, assai poco fiducioso nella giustizia, espatriò in Cecoslovacchia. La sua travagliata vicenda animò il dibattito politico e si trascinò per molti anni tra rielezioni parlamentari, una nuova autorizzazione a procedere del 1955 e il conseguente processo con la condanna all’ergastolo. Moranino non usufruì della grazia concessa dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nel 1964, ma rientrò in Italia solo due anni dopo, quando gli eventi per cui era stato condannato furono riconosciuti come azioni di guerra. Questa nuova edizione, dopo la prima del 2013, contiene approfondimenti sul processo e sulla situazione italiana nel pieno della «Guerra fredda».
Resistenza ai fatti…
Massimo Recchioni, Francesco Moranino, il comandante “Gemisto”. Un processo alla Resistenza, Derive Approdi, 2013

Riuscire a rivalutare la figura di un personaggio come Francesco Moranino, uno dei pochi comandanti partigiani a non essere riuscito ad avvalersi delle varie amnistie succedutesi dal 1946 in avanti è impresa a parer nostro improba, oltre che controproducente: non si capisce infatti la ragione per cui dovrebbe essere necessario uno studio, peraltro di fattura tutt’altro che eccelsa, per offrire luce (sinistra) a un uomo la cui attività nel corso della guerra partigiana aveva suscitato giudizi tutt’altro che lusinghieri all’interno del movimento di Liberazione.
Recchioni, comunque, si dedica anima e corpo per inquadrare Gemisto in un ottica agiografica, polemizzando con la “storiografia revisionista” ma finendo per fare, a sua volta errori marchiani all’interno dello studio: il generale Enrico Adami Rossi diventa “Adamo Rossi”, il 75° corpo d’armata di Hans Schlemmer diventa “750”, più altre incertezze nelle descrizioni della guerra partigiana in Valsesia (non c’è il nome di un singolo reparto della RSI, ma ovunque si parla di “nazifascisti”, ignorando gli ultimi vent’anni di storiografia sull’argomento).
Desta sconcerto soprattutto la descrizione dell’episodio controverso di cui Moranino fu protagonista, ossia il massacro della missione americana guidata dall’agente OSS Emanuele Strassera, che comportò l’uccisione del comandante, di quattro partigiani e di due donne, con l’accusa di essere “spie fasciste”. Ebbene di quei fatti, praticamente non c’è traccia; l’autore descrive i prodromi, i fatti successivi, si addentra – in modo tutt’altro che sicuro – nella vicenda processuale, ma non dice nulla con precisione su cosa avvenne il 26 novembre 1944 e il 6 gennaio 1945. Non dice che Strassera e i suoi furono spogliati e depredati dei loro averi; non dice che le donne uccise ad inizio 1945 con un colpo alla nuca stavano semplicemente raccogliendo notizie inerenti quel fatto di sangue; non dice che, prima della difesa processuale incentrata sulla ossessione dei partigiani per le spie fasciste, la versione riguardante questi ultimi omicidi era che essi erano da addebitare a militi di Salò. Peraltro, solo di passata, aggiungiamo che alcuni terribili fatti di sangue avvenuti a Vercelli a maggio 1945 non furono addebitati a Gemisto e ai suoi uomini solo perché compresi fra quelli estinti dalla sanatoria che considerò “atti di guerra” pure gli eccidi perpetrati a ostilità abbondantemente concluse. […]
Andrea Rossi, Interpretazioni, negazioni, revisioni, Orientamenti storici, 22 aprile 2013

Francesco Moranino
Nato a Tollegno (Vercelli) il 16 febbraio 1920, deceduto a Grugliasco (Torino) il 18 giugno 1971, operaio e poi tecnico tessile.
Nel 1940 si era iscritto al Partito comunista clandestino e già l’anno dopo era finito davanti al Tribunale speciale. Condannato a 12 anni di reclusione, Moranino fu detenuto a Civitavecchia sino alla caduta del fascismo. Il tempo di tornare a casa ed eccolo organizzare, nel settembre del 1943, con il nome di battaglia di “Gemisto”, le prime formazioni partigiane nel Biellese. Dopo essere stato comandante del distaccamento Garibaldi “Pisacane”, “Gemisto” assunse il comando della 50ª Brigata Garibaldi che diresse sino a quando gli fu affidato l’incarico, prima di comandante e poi di commissario politico della XII Divisione Garibaldi “Nedo”. Alla Liberazione, “Gemisto” divenne segretario della Federazione comunista biellese e valsesiana e fu quindi eletto nel 1946 deputato alla Costituente. Sottosegretario alla Difesa nel terzo governo De Gasperi, Moranino fu rieletto deputato nel 1948. Nel 1951 fu nominato segretario della Federazione mondiale della gioventù democratica. Nello stesso anno una montatura giudiziaria, che aveva come obiettivo la Resistenza nel suo complesso (“Gemisto” era stato accusato dell’eliminazione di sette persone, avvenuta nella zona partigiana controllata dalla sua formazione), costrinse Moranino a riparare in Cecoslovacchia per sfuggire all’arresto. Rieletto parlamentare nel 1953, Moranino poté tornare in Italia, ma dovette di nuovo riparare all’estero, quando una maggioranza di centrodestra votò alla Camera l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Processato in contumacia, nel 1956, “Gemisto” fu condannato all’ergastolo. Era così evidente l’intento persecutorio contro il comandante partigiano che, nel 1958, il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, decretò la commutazione della pena in dieci anni di reclusione. Il provvedimento avrebbe consentito a Moranino di tornare in Italia, ma il comandante partigiano rifiutò di accettare questa sorta di grazia. In seguito, il 27 aprile 1965, respinse anche la vera e propria grazia del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Rimpatriò soltanto quando fu ufficialmente riconosciuto che i fatti di cui era accusato erano “atti di guerra” (tra l’altro non da lui ordinati), connessi con la Guerra di Liberazione e quindi giuridicamente legittimi. Rientrato in Italia, Moranino fu eletto, nel 1968, senatore nel collegio di Vercelli con 38.446 voti. Morì, tre anni dopo, stroncato da un infarto.
Redazione, Francesco Moranino, ANPI, 25 luglio 2010

Portula è un comune di circa 1500 abitanti della Provincia di Biella, provincia di recente istituzione. Portula fa parte della Comunità Montana Valle Sessera. Fra queste aspre valli nel novembre del ’44, avvenne un episodio di sangue, propedeutico alla guerra fredda tra Occidente Libero e Cortina di ferro: un gruppo di agenti operativi, di nazionalità italiana, dei servizi segreti Americani (Oss, il precursore della Cia) furono massacrati, parrebbe dai futuri procedimenti giudiziari, da una formazione di partigiani comunisti capitanati dal noto Francesco Moranino, «Gemisto», futuro deputato del Pci e in quel momento comandante di un temibile distaccamento di partigiani rossi.
Moranino nel suo genere era il primo della classe, comunista ideologizzato, marxista ortodosso, scaltro e strategico, poco ricco di sentimenti, guidava i suoi uomini con gelida efficacia e li spronava a compiere atti da fare rimordere la coscienza per decenni a persone normali… ma si sa, che i tempi erano troppo duri per tutti, tempi dove la Pietas era morta.
In un quadro di pianificazione della human intelligence, i comandi americani inviano in Nord Italia un loro agente, di nazionalità italiana, Emanuele Strassera ex ufficiale monarchico, molto diffidente verso i nuclei armati comunisti, che venivano chiamati, comunemente, partigiani garibaldini. Il suo compito era di osservazione, coordinamento tra la Resistenza e il Comando Alleato e su tali argomenti doveva inviare rapporti dettagliati ai suoi contatti Oss in Svizzera.
Strassera, uomo d’’azione, sbarca nel golfo di Genova, da un mezzo sottomarino, in modo avventuroso, raggiunge il Piemonte passando per l’’Appennino, prende contatti con le formazioni di patrioti non comunisti, con il loro aiuto raggiunge l’’alto Piemonte, comincia ad infiltrarsi nel Vercellese e nel Biellese ed inizia a osservare la realtà della Resistenza, molto articolata e complessa in quell’’area.
L’’agente Oss recluta tra i partigiani non comunisti, quattro collaboratori fidati: Gennaro Santucci, Ezio Campasso, Mario Francesconi e Giovanni Scimone.
Attenti conoscitori della realtà locale, della posizione dei reparti fascisti e di quelli partigiani, i 5 agenti capiscono immediatamente che gli obiettivi delle formazioni comuniste, sono sì la eliminazione del Fascismo, ma soprattutto il cambiamento violento e radicale della società italiana attraverso l’’eliminazione dei ceti borghesi, cattolici e non comunisti, mediante l’’uso delle armi: in pratica una rivoluzione proletaria armata vera e propria.
Viene in gran segreto approntato un rapporto riservatissimo, che fotografa senza mezzi termini la grave situazione che vede sempre più egemoni le formazioni partigiane comuniste, e si decide di portarlo direttamente in Svizzera ai contatti dell’’Oss. Il problema è che le linee di comunicazione sono controllate, dai fascisti o dalle formazioni comuniste, oggetto proprio del pericoloso rapporto.
Strassera chiede una scorta ai partigiani, senza sapere che saranno i suoi boia e che elimineranno anche i suoi collaboratori. Infatti, forse per timore che il rapporto arrivi ai comandi alleati, e che cessino i lanci di materiale, i 5 agenti del Servizio segreto americano vengono brutalmente assassinati e depredati di ogni avere. Chi compie materialmente la strage è un gruppo di partigiani comunisti, scelti dal loro capo, per la loro ferocia e per le scarse attitudini umane. I loro corpi privi di vestiti, dopo l’’eccidio, vengono lasciati nella campagna di Portula. Era il 26 novembre del ’44.
Ma le armi dei partigiani comunisti, non si fermarono qui… il 9 gennaio del 45, due donne, Maria Santucci e Maria Francesconi, mogli di due dei collaboratori dello Strassera vengono uccise con un colpo alla nuca. Le due donne cercavano di fare luce sulla strage dei loro congiunti avvenuta a Portula. Venne accreditata la voce che la responsabilità dei sette omicidi fosse dei fascisti. I compagni sono abili a creare favole e a diffonderle. A guerra finita, i familiari dei 5 partigiani fucilati e delle 2 donne uccise presentarono alle autorità delle prove frutto di loro indagini informali. A seguito di queste prove vennero avviate delle indagini ufficiali che orientarono le responsabilità sul partigiano Francesco Moranino, capo riconosciuto delle brigate combattenti comuniste nel Vercellese e nel Biellese che nel frattempo era diventato deputato del Pci, soprannome di battaglia Gemisto. Gemisto, fu accusato dell’eccidio dei 5 membri della «Missione Strassera»: il 26 novembre 1944 in località Portula, attirandoli in un ’imboscata e della sorte che il 9 gennaio 1945 toccò a due spose degli uccisi. […]
Redazione, La strage di Strassera diede inizio alla guerra fredda, il Giornale.it, 3 aprile 2009

Vediamo ora le affermazioni del generale Bozzo: in sintesi, uomini della Franchi si sarebbero inseriti nelle formazioni comuniste, ad esempio il futuro magistrato Adolfo Beria D’Argentine (che ritroveremo tra i collaboratori di Sogno negli anni ’70) si sarebbe introdotto nei gruppi di Francesco Moranino Gemisto, facendone arrestare diversi elementi; sfuggito alla cattura, dopo alcuni mesi entrò nelle formazioni repubblichine.
[…] Il generale Bozzo aggiunse che «nell’ultima fase della guerra partigiana, un certo numero di repubblichini in contatto con uomini della Franchi avevano infiltrato diverse Brigate Garibaldi per indurle a compiere azioni particolarmente efferate, in modo da metterle in cattiva luce agli occhi dell’opinione pubblica o per portarle all’annientamento soffiando informazioni ai reparti della RSI» <17; e che «le persone utilizzate per le infiltrazioni «erano uomini e donne» che avrebbero agito per conto di «qualche servizio segreto alleato (…) una struttura (…) che non si è mai sciolta ed è tutt’ora operante dietro il terrorismo rosso e nero».
Bozzo avrebbe riferito un tanto al suo superiore, che in seguito lo convocò ad un incontro con Edgardo Sogno, al quale però, Sogno non volle che Bozzo fosse presente. E dopo il colloquio, Dalla Chiesa avrebbe detto a Bozzo «lascia perdere (…) è una storia più grande di noi, qui siamo a livelli internazionali, le BR non c’entrano più» <18.
[…] Ma, nel caso specifico, Dotti non fu mai accusato di questo omicidio, si era rifugiato in Cecoslovacchia nel 1949 perché denunciato per l’omicidio del membro dei FAR (i Fasci di Azione Rivoluzionari, organizzazione terroristica fondata da Pino Romualdi) Alberto Raviola (avvenuto a Torino nel 1947 ed attribuito alla Volante Rossa), e risulta rientrato in Italia nel 1950, cioè due anni prima dell’omicidio Codecà, e poi non più espatriato <78. Ciò può far pensare che intorno a Dotti sia stato creato un falso profilo biografico per costruire meglio il suo personaggio di agente provocatore.
Vediamo il racconto di Sogno: «A Praga era finito Roberto Dotti (…) sospettato dalla polizia per l’assassinio del dirigente Fiat Erio Codecà, ucciso da partigiani comunisti che disapprovavano la politica moderata di Togliatti (…). Quando tornò dalla Cecoslovacchia, Dotti era un uomo bruciato per il partito. E cominciò a collaborare a Pace e libertà (…) Di Dotti mi parlò Pietro Rachetto, socialista, partigiano in Val di Susa (in quota Franchi, n.d.a.), dirigente di Pace e libertà a Torino. Rachetto aveva aiutato Dotti a fuggire a Praga <79.
[NOTE]
17 Possiamo riconoscere in questo punto alcune delle indicazioni del “piano Graziani”, ma anche il modo d’agire di Zolomy. Consideriamo che il 26/11/44 nella zona controllata dai partigiani di Moranino furono fucilati i componenti della “missione Strassera”, ritenuti spie nazifasciste, e per tale azione il comandante Gemisto fu perseguito negli anni ’50, come vedremo.
18 Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Il golpe inglese, Chiarelettere 2011, p. 245-246, che citano una «testimonianza di Nicolò Bozzo a Sabina Rossa», inserita in G. Fasanella e S. Rossa, Guido Rossa, mio padre, BUR 2006.
78 Cfr. G. De Lutiis, Il golpe di via Fani, Edizione l’Unità 2008, p. 34, che cita una nota della Questura di Torino d.d. 16/12/54, copia in Atti Commissione Stragi.
79 Come un ex partigiano anticomunista possa avere avuto le entrature per permettere a Dotti di rifugiarsi in un paese all’epoca “di oltrecortina”, non è comprensibile. Però consideriamo quanto risulta nel citato articolo “Affaire Moro e il nodo Markevitch/Caetani”, e cioè che in Cecoslovacchia Dotti avrebbe tenuto i contatti con Moranino, ivi espatriato dopo essere stato accusato dell’esecuzione della “missione Strassera” cui abbiamo accennato in precedenza.
Claudia Cernigoi, La serpe in seno: l’infiltrazione e la provocazione nei movimenti comunisti, Supplemento al n. 416 – 3/12/21 de “La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo”, Trieste

Nonostante il paese avesse celebrato «con il concorso di tutte le autorità dello Stato, il decennale della propria liberazione e delle propria rinascita, e quando si sta svolgendo un profondo travaglio politico, diretto all’attuazione della Costituzione e al consolidamento degli ideali di libertà», <205 iniziava una nuova fase della persecuzione giuridica antiresistenziale. Inoltre si assisteva, parallelamente alla conclusione della triste vicenda giudiziaria di Francesco Moranino, <206 segretario della federazione comunista del biellese, ex comandante del distaccamento Garibaldi Pisacane, della 50a brigata Garibaldi ed ex commissario poHtico della XIIa Divisione Nedo, alla presentazione di alcuni disegni di legge per la concessione di benefici e provvidenze agli ex repubblichini e alle milizie fasciste <207.
[NOTE]
205 A. BATTAGLIA, Terzo tempo?, «Patria indipendente. Quindicinale della resistenza e degli ex combattenti», 1° gennaio 1956.
206 ARCHIVIO MINISTERO DIFESA, DIREZIONE GENERALE PER IL PERSONALE MILITARE, VII Reparto, 25″ divisione Riconoscimento qualifiche e ricompense ai partigiani. Moranino era stato riconosciuto partigiano combattente dalla Commissione regionale qualifiche piemontese, il 26 aprile 1947, per aver militato nella resistenza come comandante della XII Divisione Garibaldi dal 12 settembre ’43 al 7 giugno ’45, con i gradi gerarchici di comandante di gruppo, di distaccamento, di brigata e di divisione. Moranino era stato poi accusato di essere il mandante dell’uccisione, avvenuta nei primi mesi del ’45, di cinque partigiani e delle loro mogli. Per sfuggire all’arresto riparò in Cecoslovacchia nel 1951. Rieletto parlamentare nel 1953 potè tornare in Italia ma dovette di nuovo riparare all’estero quando una maggioranza di centrodestra votò alla Camera l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. La vicenda si concluse il 18 aprile 1957 con la sentenza della Corte di Assise di Appello di Firenze che commutava la pena dell’ergastolo in 10 anni.
207 ARCHIVIO DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Disegno di Legge n. 1751, 29 luglio 1955 su iniziativa dei deputati Infantino e Delcroix.
Michela Ponzani, L’eredità della Resistenza nell’Italia repubblicana tra retorica celebrativa e contestazione di legittimità (1944-1963), Annali della Fondazione Luigi Einaudi, XXXVIII-2004