Sul retroterra storico dell’impegno di Giuseppe Dossetti

Foto: D.D.

Oltranzismo cattolico
Più oltre andavano certi ambienti intellettuali, legati al fondatore dell’Università Cattolica Agostino Gemelli, che nel fascismo vedevano l’incarnazione secolare dell’ideologia della “regalità di Cristo”: in qualche modo, cioè, essi interpretavano Mussolini come un novello Costantino o Carlomagno, l’autocrate cristiano che traeva la sua legittimità dalla benedizione della Chiesa. La prima guerra mondiale era stata bollata dal pontefice come “inutile strage”, ma quello stesso Papa non riuscì ad arginare la torsione nazionalistica del clero e dei fedeli, tanto che il 5 gennaio 1917 padre Agostino Gemelli propose e in parte riuscì a realizzare un atto collettivo di consacrazione della guerra per due milioni di uomini in divisa. Almeno un milione di soldati italiani pronunciò questa preghiera, stampata dietro l’immaginetta del Sacro Cuore di Gesù, fornita dallo Stato Maggiore: “O Sacro Cuore di Gesù, che ti sei lagnato d’aver tanto amato gli uomini e di non aver avuto da essi che ingratitudine e disprezzo, nel desiderio ardente di contribuire al sociale riconoscimento della sovranità dell’amore del tuo Sacro Cuore, seguendo l’esempio delle famiglie che vanno sempre più consacrandosi a Te, noi pure, soldati d’Italia, a te ci consacriamo. Ti riconosciamo Dio nostro, ti proclamiamo nostro Sovrano d’amore ed intendiamo renderti e procurarti gloria, riparazione e amore… Illumina, dirigi, benedici e conduci a vittoria il nostro Re, i nostri Generali, noi tutti soldati d’Italia, rendi la nostra patria più grande”… Strana diffusività della guerra: la stessa consacrazione, pressappoco con le stesse parole, nell’estate del 1917, avvenne sul fronte francese e sul fronte austriaco, in Inghilterra e in Romania. La crociata italica combatté contro, o insieme, le altre crociate dei cattolici in nome della regalità nazionalistica di Cristo. Il generale Cadorna, il 12 aprile del 1915, aveva introdotto nell’esercito la figura del cappellano militare ed aveva arruolato diecimila preti-soldati. La Sacra Congregazione Concistoriale nominò un vescovo per questo ufficio, detto vescovo castrense o di campo. La rete dei cappellani militari propagandò la cerimonia di consacrazione a cui abbiamo accennato. L’ordine dei cappellani fu soppresso nel 1922, ma non era più possibile tornare indietro.
Nel 1925-1926 i cappellani militari furono ricostituiti, per reciproco interesse dello Stato e della Chiesa. L’ideologia della regalità del Sacro Cuore sollecitò l’entusiasmo dei seminaristi e del clero giovane per la divisa da cappellano militare. Dopo la firma del concordato, tra il 1930 e il 1934, la presenza del clero, oltre che nell’esercito e nella marina, fu introdotta nella Croce Rossa, nella Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, nell’Opera Nazionale Balilla, nell’Opera Nazionale per l’Assistenza Religiosa e Morale agli Operai e nell’Opera Dopolavoro. Il ruolo di potentissimo vescovo di campo dell’enorme divisione dei preti fu ricoperto da mons. Angelo Bartolomasi.
Era nata una religione della guerra e della marzialità della pace. Quella contro la quale si batteranno e finiranno sotto processo don Lorenzo Milani e padre Ernesto Balducci, in aspra polemica appunto con i cappellani militari.
Il complesso rapporto della Chiesa con il fascismo
Se il fascismo delle origini fu marcatamente anticlericale e i suoi programmi potevano mettere in serio pericolo i beni ecclesiastici ed anche quelli delle cooperative “bianche”, successivamente, con la presa del potere, tale atteggiamento cambiò. Non prima però che fossero perpetrate anche efferate violenze: una su tutte la morte per le bastonate di una squadraccia di don Minzoni, anche se i casi da citare potrebbero essere tanti altri. Tuttavia quando Mussolini giunse al comando si rese subito conto di quanto fosse utile per mantenerlo conseguire l’appoggio dei cattolici. Non a caso furono stipulati i “Patti Lateranensi” del 1929, dove sostanzialmente rinasceva lo Stato del Vaticano nella nuova Città del Vaticano, mentre il regime fascista risarciva la Santa Sede delle perdite connesse ai fatti del 1870. Ma la cosa forse più importante fu la sostanziale assunzione della religione cattolica a “religione di Stato”. Va anche ricordato che la Costituzione incorporerà senza nessuna modificazione i Patti Lateranensi, con l’auspicio di modificarli al più presto. Bisognerà però aspettare il 1984 per la loro revisione, sottoscritta da Bettino Craxi e dal cardinale Casaroli.
E’ indubbio che la Chiesa di Papa Pio XI tenne un rapporto ambivalente con il fascismo. Non che mancassero da parte del Vaticano critiche e prese di distanze da un esasperato nazionalismo come dall’antisemitismo, nonché sugli stretti legami stabiliti da Mussolini con il Führer, tuttavia questi dissensi difficilmente superavano il perimetro delle mura leonine. Va detto che l’ordine imposto dal fascismo pareva dare una risposta in termini di conservazione ai laicismi di inizio del XX° secolo, visti da vasti settori dell’alto clero come un pericoloso indebolimento della Chiesa istituzione. Fascismo e Chiesa cattolica, seppur sostanzialmente distanti, avevano nemici comuni: il comunismo, il socialismo, il liberalismo. Particolarmente controversa fu anche la figura di papa Pacelli, proveniente da una famiglia della nobiltà romana. La sua posizione di neutralità mantenuta sia con il fascismo che con il nazismo, ha dato adito a diverse interpretazioni da parte degli storici. Sostanzialmente Pio XII perseguì una posizione di continuità con il suo predecessore, manifestando più volte l’avversione verso l’imminenza del conflitto bellico, ma nella sostanza in una sorta di accettazione degli eventi per quanto tragici essi si potessero manifestare. La questione ebraica fu forse la più spinosa. Nello stesso tempo andava maturando nella Chiesa, negli ambienti ad essa vicina e nella politica di ispirazione cristiana, un antifascismo militante che, dal Partito Popolare di Sturzo, ai cattolici che presero parte alla Resistenza e agli ecclesiastici che aiutarono concretamente gli ebrei a sottrarsi alla loro persecuzione e deportazione, andava ben oltre. Una materia davvero troppo complicata per essere liquidata in poche righe. Schiere di storici, su versanti diversi e giungendo a conclusioni non sempre convergenti, l’hanno affrontata. Certo la volontà manifestata da Papa Bergoglio di voler ulteriormente desecretare gli archivi vaticani, è una buona notizia per gli studiosi che vorranno ulteriormente approfondire la materia.
Il vecchio sogno teocratico
Era, al fondo, il vecchio sogno teocratico che all’atto della fondazione del Ppi (1919) aveva determinato la rottura fra Gemelli e Sturzo, il quale era fin troppo consapevole della complessità della società industriale per potersi abbandonare a questi sogni corporativi. Ma proprio la condizione di minoranza di questo pensiero democratico aveva imposto ai cattolici, subito dopo la caduta del fascismo e la progressiva liberazione della Penisola, di recuperare affannosamente il tempo perduto, scontando da un lato una buona dose di immaturità e dall’altro il perdurare di una mentalità gerarchica ed autoritaria, che mal si conciliava con la necessità di imparare la grammatica della democrazia.
Particolarmente fervido in quegli anni era il dibattito culturale, in cui si affacciava una figura che nel resto dell’Europa cristiana era ormai ritenuta centrale: Jaques Maritain. Intento principale del pensatore francese era quello di spostare i paletti della riflessione filosofica dei cattolici: se i neo-scolastici si erano generalmente limitati a riproporre in termini statici il pensiero di San Tommaso d’Aquino in forma di sistema compiuto, Maritain, indubbiamente influenzato dal pensiero esistenzialista, accentuò la riflessione sulla centralità della persona umana nella creazione e sul suo ruolo sociale. Egli mirava a far sì che l’uomo moderno potesse recuperare l’integralità della sua dimensione personale affinché l’etica predatoria ed egoistica fosse convertita dall’etica della donazione e della solidarietà. L’operazione compiuta da Maritain fu notevole in quanto, senza proporsi in prima istanza fini politici, egli collocò naturalmente il tema dell’ispirazione cristiana in politica in una nuova cornice, da un lato ancorandola in termini inequivocabili ai principi democratici, dall’altro introducendo in termini ontologici la distinzione fra piano sovrannaturale e piano temporale. Il riferimento ai principi democratici assunse particolare importanza negli anni Trenta e Quaranta, a fronte delle tentazioni totalitarie che lambivano anche il mondo cattolico, ed in questo senso è importante (e complementare a quella di Maritain) l’opera di Emmanuel Mounier. Assai più animatore politico che filosofo, Mounier, dalle colonne della rivista “Esprit”, condusse una dura battaglia per la rivoluzione personalista contro i totalitarismi di destra e di sinistra, mettendo in guardia nel frattempo dalla falsità della proposta “centrista” del cattolicesimo borghese. Eppure Dossetti ed i suoi amici del “gruppo del porcellino” entrano alla Costituente sapendo ben poco di questo dibattito, e diventano punto di riferimento basandosi quasi unicamente sulle proprie forze intellettuali, filtrando alla luce della necessità di creare l’architettura di uno Stato democratico di tipo nuovo una fede religiosa profonda ma non integralista. Lo stesso Dossetti, nell’intervista citata, dimostra di guardare senza particolari illusioni e nostalgie retrospettive al periodo costituente, ricordando come vi fosse una sostanziale diffidenza fra i vertici dei due maggiori partiti (Dc e Pci) circa le caratteristiche da attribuire agli organi dello Stato, facendo in modo che prevalessero preoccupazioni garantistiche rispetto a quelle di funzionalità, proprio per evitare che in un contesto presidenziale o di cancellierato una parte potesse avere il sopravvento sull’altra in termini para-dittatoriali. Risponde a questa logica di ansiosa garanzia il bicameralismo perfetto che ha caratterizzato il funzionamento del nostro Parlamento.
Un quadro condiviso
Per questo, ricostruendo quel periodo, Dossetti afferma che lo sforzo principale suo e dei suoi amici fu quello di creare un quadro valoriale condiviso, lasciando a personalità di carattere più giuridico-pratico (come Tosato o Mortati) le discussioni sulla concreta architettura dello Stato e le sue articolazioni. In questo senso la rivendicazione che negli ultimi anni della sua vita Dossetti fece della perenne validità dell’ispirazione di fondo della Costituzione è da inquadrare nel contesto di allora, ossia nella difficoltà di mettere insieme, intorno ad un quadro valoriale condiviso, persone che venivano da ispirazioni diverse, avendo intorno un Paese che vent’anni di fascismo avevano politicamente diseducato. A confessare questa difficoltà fu l’ideale interlocutore di Dossetti in Costituente, ossia Palmiro Togliatti, che nella seduta del 9 settembre 1946 dichiarò “…che fra lui e Dossetti c’è difficoltà nel definire la persona umana, ma non nell’indicare lo sviluppo ampio e libero di questa come fine della democrazia…”. E ciò in risposta ad un’importante affermazione di Dossetti, che aveva chiesto ai suoi interlocutori di “affermare l’anteriorità della persona di fronte allo Stato”, presentandola come “principio antifascista o afascista”, ma sapendo di andare a toccare un nervo scoperto anche per i marxisti più ortodossi. Eppure, proprio da questo dibattito nasceranno gli articoli 2 e 3 della Carta repubblicana che chiaramente definiscono la persona umana, e le società naturali da essa fondate, come antecedenti allo Stato. Dossetti seppe anche cogliere con lucidità le esigenze che derivavano dalle situazioni oggettive che gli si presentavano, e se ne fece carico anche quando non le condivideva. Non si spiegherebbe altrimenti il ruolo delicato che egli esercitò nella questione dell’articolo 7, ossia del rapporto fra la nuova Costituzione e i Patti lateranensi sottoscritti da Mussolini e dal card. Gasparri in una situazione politica tanto differente. In questa circostanza Dossetti, e con lui De Gasperi, dovettero prendere atto dell’impossibilità pratica di modificare un testo oggettivamente incompatibile con i valori costituzionali, quale era quello sottoscritto il 12 febbraio 1929, e decisero di incorporarlo tal quale, fatte salve (come disse Dossetti in aula) auspicabili revisioni da avviare prima possibile. Era già molto comunque – ed anche qui funzionò l’intesa operosa con un Togliatti determinato a non presentare il Pci come forza antireligiosa – definire lo Stato e la Chiesa come “indipendenti e sovrani ciascuno nel proprio ordine”.
Anni dopo, nel 1955, Dossetti presentò al cardinale Giacomo Lercaro uno schema di riflessione in preparazione all’assemblea dei cardinali italiani che in quel gennaio, a Pompei, avrebbe gettato le basi della Cei, affermando chiaramente che le garanzie giuridiche ottenute dal regime fascista e conservate nell’articolo 7, in particolare in ordine al matrimonio, all’educazione religiosa e agli enti ecclesiastici, dovessero essere sostituite da una decisa azione pastorale della Chiesa. Un tale avvertimento, nell’epoca in cui ancora si celebravano quelli che Mario Rossi avrebbe definito “i giorni dell’onnipotenza”, era a dir poco profetico, e lo si sarebbe visto con chiarezza nel 1974 quando la gerarchia ecclesiastica, sostenendo vigorosamente al referendum le ragioni contrarie al divorzio, tentò vanamente di difendere un vincolo giuridico che nella coscienza degli Italiani era già morto da tempo.
Dunque il Dossetti che dal 1994 fino alla sua morte nel dicembre di due anni dopo scende in campo per difendere la Costituzione non è un conservatore malmostoso o un visionario rimasto ancorato ai sogni del passato, ma un lucido intellettuale che è passato attraverso le tempeste del XX secolo e della Costituzione, anzi prima ancora nella ricerca costituente che ne è stata alla base – e che non sarebbe stata possibile se gli uomini di buona volontà e di maggiore lucidità delle diverse sponde non avessero a tal fine collaborato – individua la piattaforma di una convivenza civile possibile in un Paese a lungo lacerato da divisioni e da odi, e che a suo fondamento aveva non un processo di unificazione, ma la conquista territoriale di uno Stato e di una dinastia dalle tradizioni guerriere. Fin dal famoso discorso in memoria di Lazzati nel maggio 1994, Dossetti non esita a vedere nella deriva berlusconiana non tanto un semplice elemento di discontinuità politica, ma l’avvio di una fase di delegittimazione della Storia repubblicana precedente e dei valori che ne erano alla base, sottoposti alla duplice corrosione di un revisionismo che spesso è ideologia restauratrice mal mascherata e di una logica di mercificazione della politica e della morale da cui sarebbero nate nuove e più gravi divisioni della coscienza civile.
Giovanni Bianchi e Andrea Rinaldo, La Resistenza dalla foce. Quale nazione per gli italiani postmoderni, eremo e metropoli edizioni, Sesto San Giovanni, aprile 2017