Sulla giustizia di transizione in Italia

 

Nei tribunali è un volume curato da Giovanni Focardi e Cecilia Nubola ispirato dai seminari dedicati alla giustizia di transizione in Italia, svoltisi a Trento nel dicembre del 2013 e del 2014 presso l’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Bruno Kessler <1>.
L’opera intende colmare alcune lacune che caratterizzano gli studi dedicati alla giustizia di transizione e fornire nuovi spunti per future ricerche <2>. Per inaugurare un’auspicata inversione di tendenza, Focardi e Nubola decidono di ripartire «dal tribunale», inteso come «luogo fisico e simbolico delle pratiche e delle forme – diverse – nelle quali si concretizzò la giustizia di transizione», e da un’analisi meticolosa del dispositivo processuale, osservando ciò che vi sta «a monte», ovvero le «azioni delittuose, i crimini commessi e subìti (i carnefici e le vittime), le leggi e i codici in vigore all’epoca», e ciò che vi sta «a valle», «l’esito dei procedimenti, le condanne, le assoluzioni, i provvedimenti di clemenza» <3>.
Il volume è diviso in tre parti. La prima – intitolata La legislazione, gli avvocati e i magistrati – pone al centro dell’attenzione la giustizia e la sua applicazione nei tribunali destinati a sanzionare i fascisti <4>. Toni Rovatti ha il merito di rimarcare come diverse modalità di resa dei conti si siano alternate e sovrapposte tra il 1944, quando il governo del sud prese i primi provvedimenti in materia di epurazione al pari del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, e il 1946, anno in cui fu varata l’amnistia Togliatti ed una nuova ondata di violenza investì il Paese. Francesca Tacchi e Giovanni Focardi, al contrario, si concentrano rispettivamente sugli avvocati e sui magistrati, due attori della giustizia di transizione colpevolmente trascurati dalla storiografia. Gli avvocati, al termine di un rapido e relativamente indolore processo di epurazione, furono difensori d’ufficio o di fiducia presso l’Alta Corte di giustizia per le sanzioni contro i fascisti (Acgsf) e le Corti d’Assise straordinarie (Cas) o pubblici ministeri presso le medesime Corti o, ancora, componenti della giuria dell’Acgsf. Gli avvocati poterono scegliere se difendere i fascisti o favorire – nei pochi casi ammessi dalle leggi in materia di epurazione – le parti civili. In tale contesto, furono le penaliste, ben più dei loro colleghi uomini, a compiere le scelte più nette, come illustrato da Tacchi. Anche i magistrati, svestiti rapidamente i panni degli epurati, indossarono quelli a loro più consoni di arbitri della giustizia ed esercitarono un peso determinante nella resa dei conti con il fascismo. Il passato dei giudici – chiarisce Focardi – condizionò senz’altro le sorti dei sospetti collaborazionisti sottoposti a processo, ed è altrettanto vero che da quella transizione l’intero mondo della magistratura né uscì modificato:
parecchi giovani magistrati si dimisero per vari motivi […] è probabile che, oltre alle motivazioni economiche, vi fosse un contrasto interiore tra il loro impegno attivo e prolungato nella Resistenza e il modo di intendere e di vivere il ruolo di magistrato, non compatibile con i successivi cambiamenti che l’ordine giudiziario si apprestava a compiere <5>.
Il titolo della seconda parte dell’opera, Imputati e processi, descrive in modo esaustivo il contenuto dei saggi ospitati in questa sezione. Massimo Storchi ricostruisce l’attività del tribunale e del carcere unico delle Brigate Garibaldi e delle Fiamme Verdi di Reggio Emilia nel cuore della guerra civile. Per quanto la ricerca di Storchi sia ancora in fase di svolgimento, dal suo saggio emerge come l’universo resistenziale avesse intuito già in guerra l’importanza di fare giustizia e regolare il grado di violenza nei riguardi del nemico. La presenza di un tribunale e di un carcere unico conferiva legittimità alle autorità partigiane agli occhi della comunità locale e manteneva l’ordine pubblico ad un livello accettabile. Viceversa, i saggi di Giancarlo Scarpari, Floriana Colao e Cecilia Nubola analizzano più nei dettagli alcuni processi del dopoguerra e i destini degli imputati. Nubola, in particolare, ricostruisce le vicende di 38 donne che, dopo la condanna delle Cas, non beneficiarono del provvedimento di amnistia del 22 giugno 1946 per la gravità dei delitti commessi. Da questo contributo si può osservare come quelle collaborazioniste non si fossero macchiate unicamente del reato, «considerato tipicamente femminile», di delazione <6>. Molte donne erano state condannate per aver partecipato a rastrellamenti e per aver inflitto sevizie a partigiani, antifascisti ed ebrei. Il contributo di Nubola ha sia il merito di insistere sulle «radici profonde, spesso di lunga o lunghissima durata» alla base di queste gesta violente <7>, sia quello di evidenziare come la maggior parte dei giudici, nell’emettere il verdetto, si facesse condizionare dalla condotta morale assunta dalle imputate ai tempi della Repubblica sociale italiana (Rsi). Infine, la disamina dettagliata – condotta da Scarpari – delle vicende processuali di Piero Pisenti, ministro della Giustizia durante la Rsi, e quella – condotta da Colao – di Rodolfo Graziani, ministro delle Forze armate, consentono di evidenziare tutti i limiti delle norme adottate per punire i collaborazionisti nonché la ritrosia delle autorità nel giudicare figure che si autorappresentarono come onesti patrioti, scesi a patti con l’occupante tedesco per tutelare il popolo italiano dalle violente reazioni naziste.
La terza parte dell’opera – intitolata Una giustizia di «lunga durata» – mette in luce come l’ambigua resa dei conti condotta nei riguardi del fascismo non abbia smesso di condizionare il Paese fino ad oggi. E’ paradigmatico il caso che vide protagonista Francesco Moranino. Quest’ultimo fu accusato di essere il mandante dell’omicidio, risalente al 26 novembre 1944, di quattro aspiranti partigiani – Gennaro Santucci, Mario Francesconi, Ezio Maria Campasso e Giovanni Scimone – e di un esponente dei servizi segreti americani, Emanuele Strasserra [ndr 1]. Non solo: Moranino fu anche sospettato dell’uccisione di Maria Dau e Maria Martinelli, mogli rispettivamente di Santucci e Francesconi, risalente al 6 gennaio 1945. Il complesso iter giudiziario che si concluse con la condanna del partigiano Moranino alla pena dell’ergastolo nel 1956, fu oggetto di costanti strumentalizzazioni essendo l’imputato un noto parlamentare del Partito comunista. La vicenda fu adoperata da alcune forze politiche per delegittimare l’intera Resistenza, mentre il Pci tentava di contestualizzare le gesta di Moranino, dipingendolo come vittima della giustizia italiana. Il fatto che periodicamente l’opinione pubblica tornasse a dividersi sul quel caso – osserva Philip Cooke – è indicatore di come i difetti del «sistema giudiziario italiano» e l’ambigua politica della memoria veicolata dalla classe dirigente del Paese abbiano condizionato la «comprensione del movimento resistenziale» e, si potrebbe aggiungere, della stessa transizione <8>. Altrettanto emblematica è la disamina di Ilaria Pavan che si concentra, nella prima parte del saggio, sui lavori della cosiddetta Commissione Anselmi, istituita nel dicembre 1998 con il compito di indagare la sorte dei beni sottratti agli ebrei durante la persecuzione fascista e che si sofferma, nella seconda parte, sulle controversie – perduranti ancor oggi – della legge Terracini, la n. 96 del 10 marzo 1955 che prevede delle provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti e delle vittime delle persecuzioni razziali. Nonostante dai risultati della Commissione Anselmi emerse «oltre ogni ragionevole dubbio la pervasività della persecuzione economica condotta dal fascismo, delle misure discriminatorie introdotte [e] dell’operato puntuale e zelante della macchina burocratica del regime che le applicò diligentemente dal 1938 al 1945», non vi fu alcuna significativa reazione a riguardo da parte dell’opinione pubblica e della classe politica <9>. Per quanto concerne l’applicazione della legge Terracini, la Commissione incaricata di vagliare le varie richieste continuò ad ostacolare l’estensione del vitalizio a chi rimase vittima di persecuzioni razziali, come se non volesse riconoscere quella macchia nel passato italiano. Il saggio di Andrea Speranzoni, infine, denuncia come lo Stato – dopo aver occultato per decenni i fascicoli processuali riguardanti i crimini di guerra commessi dai tedeschi – non abbia mai garantito un’assistenza psicologica di tipo specialistico alle vittime di prima e seconda generazione delle stragi naziste e fasciste, non affrontando la questione.
Nel suo complesso, Nei tribunali restituisce centralità ad una importante pagina della storia italiana, quella della transizione dal fascismo alla democrazia, che non ha visto nella storiografia degli ultimi anni significativi contributi a livello nazionale <10>. Il volume evidenzia i ritardi degli storici che, anziché esplorare i vari attori del processo di defascistizzazione, tra cui i magistrati e gli avvocati, si sono attardati a formulare giudizi di valore più o meno negativi sull’epurazione <11>.
Il libro ha, inoltre, il merito di rimarcare come l’affrettato processo di normalizzazione avviato in Italia dopo pochi mesi dalla fine della guerra, abbia favorito l’insorgere di rappresentazioni distorte del recente passato. Se Hans Woller, nel suo volume I conti con il fascismo, nota come nelle aule di giustizia andarono in scene delle vere e proprie «lezioni di storia patria» <12>, è altrettanto vero che l’affidamento dei processi a delle Corti sparse in tutte le province non permise – come scrive Rovatti – un netto ed univoco riconoscimento di colpa dello Stato nei riguardi dei crimini perpetrati durante il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale. Non solo: con lo scorrere del tempo – il cui ruolo cruciale nella giustizia di transizione è ben descritto da tutti i contributi raccolti in questo volume – presero corpo ed acquisirono visibilità delle contro-narrazioni che rovesciarono il significato di concetti come collaborazionismo, occupazione e tradimento. Così, ad esempio, la Cassazione nell’aprile del 1947, confermando l’assoluzione stabilita dall’Assise speciale di Bergamo nel luglio 1946, arrivò a descrivere il guardasigilli della Rsi, Pisenti, né come un fascista, né come un antifascista, bensì come un semplice patriota <13>. Analogamente la Ia sezione speciale della Corte d’Assise di Roma e, successivamente, il Tribunale militare a composizione speciale della stessa città, non riuscirono, nonostante la condanna inflitta, a contrastare la rappresentazione che Graziani diede di sé stesso. Quest’ultimo si dipinse come un collaboratore degli italiani piuttosto che dei tedeschi e dichiarò di aver evitato al Paese di subire il medesimo destino della Polonia. Anche le collaborazioniste non esitarono a rivendicare, nelle richieste di grazia, i loro ideali e ad esaltare il loro eroismo. […]
1 Giovanni Focardi è professore associato presso l’Università di Padova, dove si occupa di storia delle istituzioni rivolgendo un’attenzione particolare alla magistratura. È autore di: FOCARDI, Giovanni, Storia dei progetti di riforma della pubblica amministrazione: Francia e Italia 1943-1948, Bologna, Bup, 2004; ID., Magistratura e fascismo. L’amministrazione della giustizia in Veneto 1920-1945, Venezia, Marsilio, 2012. Sul tema specifico dell’epurazione si veda almeno ID., «Le sfumature del nero: sulla defascistizzazione dei magistrati» in Passato e presente, 64, 2005, pp. 61-87. Cecilia Nubola è ricercatrice dell’Istituto italo germanico di Trento ed è interessata al funzionamento della giustizia in età moderna e contemporanea. Ha curato insieme a Karl Härter il volume NUBOLA, Cecilia, HÄRTER, Karl (a cura di), Grazia e giustizia. Figure della clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2011. Si segnalano inoltre: NUBOLA, Cecilia, I provvedimenti nei confronti dei “collaborazionisti” nell’Italia del secondo dopoguerra. Un esempio di giustizia di transizione, in HAUPT, Heinz-Gerhard, POMBENI, Paolo (a cura di), La transizione come problema storiografico, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 319-344; NUBOLA, Cecilia, Fasciste di Salò. Una storia giudiziaria, Roma-Bari, Laterza, 2016.
2 Sul processo di epurazione in Italia si veda almeno PALMER, Domenico Roy, Processo ai fascisti. 1943-1948: storia di un’epurazione che non c’è stata, Milano, Rizzoli, 1996 [Ed. originale: Italian fascists on trial, 1943-1948, Chapel Hill – London, The University of North Carolina press, 1991]; WOLLER, Hans, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 1997 [Ed. originale Die Abrechnung mit dem Faschismus in Italien 1943 bis 1948, München, Oldenburg, 1996]; CANOSA, Romano, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Milano, Baldini&Castoldi, 1999.
3 FOCARDI, Giovanni, NUBOLA Cecilia (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 7-8.
4 Il Dll n. 159 del 27 luglio 1944 istituì l’Alta Corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo al fine processare i gerarchi fascisti. Questa rimase operativa sino al novembre del 1945. Le Corti d’Assise straordinarie, incaricate di giudicare chi aveva collaborato con l’occupante tedesco e la Rsi, nacquero invece il 22 aprile 1945, mediante il Dll n. 142. Denominate sezioni speciali delle Corti d’Assise nell’ottobre 1945, rimasero operative sino al dicembre del 1947.
5 FOCARDI, Giovanni, NUBOLA, Cecilia (a cura di), Nei tribunali, cit., p. 121. Focardi menziona i casi di Renato Chabod, Ettore Gallo, Paolo Barile e Carlo Galante Garrone che nel volgere di alcuni anni dalla fine della guerra abbandonarono la magistratura.
6 Ibidem, p. 230. Sull’associazione delazione-genere femminile si veda ALLEGRA, Luciano, Gli aguzzini di Mimo. Storie di ordinario collaborazionismo (1943-1945), Torino, Silvio Zamorani, 2010, p. 169.
7 FOCARDI, Giovanni, NUBOLA, Cecilia (a cura di), Nei tribunali, cit., p. 241.
8 Ibidem, p. 302.
9 Ibidem, p. 318.
10 L’opera di FRANZINELLI, Mimmo, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946 colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006 rappresenta probabilmente l’ultima monografia che, su scala nazionale, provi a riflettere sulla transizione italiana e sulle sanzioni contro i presunti collaborazionisti. Sul tema correlato dei processi ai partigiani si ricordi invece: PONZANI, Michela, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Roma, Aracne, 2008; ID, «Trials of partisans in the Italian Republic: the consequences of the elections of 18 April 1948», in Modern Italy, 16, 2/2011, pp. 121-138.
11 Cfr. MONTRONI, Giovanni, L’epurazione in Italia (1943-1949), in ALBANESE, Giulia, ISNENGHI, Mario (a cura di), Gli Italiani in guerra, Torino, Utet, 2008, vol. 4, tomo 2, pp. 689-696.
12 WOLLER, Hans, I conti con il fascismo, cit., p. 421.
13 Cfr. FOCARDI, Giovanni, NUBOLA, Cecilia (a cura di), Nei tribunali, cit., p. 167.
<Notizia bibliografica: Giovanni Focardi, Cecilia Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2015, 395 pp.>
Andrea Martini, Giovanni Focardi, Cecilia Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, DIACRONIE, N. 27,3 / 2016

Il libro inaugura una collana di studi curata dagli stessi Marco De Paolis <1> e Paolo Pezzino <2> e dedicata ai processi per crimini di guerra tedeschi in Italia. Il progetto prevede la pubblicazione di dieci volumi, di cui nove analizzano ciascuno una strage e la corrispettiva vicenda processuale, mentre il primo, oggetto di questa recensione, intende ricostruire l’atteggiamento assunto, dal dopoguerra ad oggi, dalla giustizia italiana al cospetto dei crimini di guerra nazisti.
L’opera è suddivisa in tre parti. La prima è scritta da Paolo Pezzino <2> che ha dedicato la maggior parte della sua carriera allo studio delle stragi naziste <3> e si concentra sugli anni Quaranta e Cinquanta: l’autore osserva come sin dal 1943 si discusse su chi avrebbe dovuto giudicare i tedeschi macchiatisi di crimini verificatisi in Italia, aprendo una controversia destinata a concludersi soltanto nell’estate del 1947 quando il governo italiano ottenne l’autorizzazione ad istruire i primi processi. Questa stagione giudiziaria, però, si concluse assai presto, secondo l’autore già il 31 ottobre 1951, con la condanna all’ergastolo del maggiore delle SS Walter Reder comminatagli dal Tribunale militare di Bologna, ma con un bilancio progressivo ben più magro: solo tredici procedimenti giunti a sentenza e diciotto archiviati in fase istruttoria <4>. Da allora sino agli anni Novanta, vennero celebrati solamente due processi, per giunta contro imputati latitanti, e nel frattempo il Procuratore generale militare Enrico Santacroce archiviò in modo illegittimo ben 695 fascicoli giudiziari riguardanti crimini di guerra tedeschi destinandoli ad una stanza della Procura dove rimasero inutilizzati dal 1960 al 1994.
[…]
Il libro si conclude con un’interessante appendice documentaria che, tra l’altro, fornisce al lettore una scheda riassuntiva di tutti i procedimenti e i processi intentati in Italia per crimini di guerra tra il 2003 e il 2013.
Senza dubbio sul tema disponiamo di un’abbondante storiografia – si pensi, ad esempio, allo studio di Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer e alle ricerche di Mimmo Franzinelli e Michele Battini <5> – eppure De Paolis e Pezzino confezionano un’opera originale che ha il duplice merito di ricostruire i fatti in modo sintetico e di adoperare alcune interessanti chiavi di lettura. Il libro osserva con particolare attenzione come la ragion di stato e la mentalità della magistratura militare abbiano inciso sull’altalenante e contradditorio percorso della giustizia. Nell’immediato dopoguerra, le autorità italiane furono più interessate a coprire i propri crimini di guerra – impedendo che i responsabili venissero sottoposti al giudizio di corti straniere o di tribunali internazionali – piuttosto che ad invocare la punizione dei criminali nazisti. Negli anni Novanta, fu sempre un atteggiamento di realpolitik ad indurre le istituzioni a non prendere posizione in merito al ritrovamento dei fascicoli processuali archiviati illegittimamente nel 1960, dando l’impressione che il gesto di Santacroce combaciasse con la volontà dello Stato di chiudere definitivamente i conti con un passato che, invece, per i parenti delle vittime delle stragi naziste stentava a “passare” <6>. Dalla ricostruzione di De Paolis è particolarmente interessante rilevare come la procura militare di La Spezia – fatto salvo per il sostegno di una parte dell’opinione pubblica e dei media locali e nazionali oltre che dei comuni liguri, toscani ed emiliano romagnoli – sia stata a lungo mal supportata dalle istituzioni centrali, costringendola a risolvere personalmente una serie di problemi pratici scaturiti dall’apertura di così tante inchieste in un breve torno di tempo.
[…]
Proprio il fatto che uno degli autori del libro sia stato anche protagonista diretto delle vicende narrate costituisce un altro elemento di estremo interesse de La difficile giustizia la quale è al contempo sia un’opera storiografica che di testimonianza oltre che una ricerca che intreccia due approcci diversi, quello dello storico e quello del giurista. Tra gli autori si nota, in particolare, una differenza sul compito attribuito alla giustizia: De Paolis affida infatti a questa l’incarico di proteggere come «uno scudo solido e imparziale» la realtà storica dei fatti, difendendola da ogni tentativo negazionista e deformante <16>, mentre Pezzino sottolinea i limiti del diritto penale di fronte a questioni così controverse e rileva come una nuova stagione – quella della politiche della memoria – debba ora prendere il sopravvento rispetto a quella giudiziaria. Si tratta di una diversità di vedute ben radicata tra studiosi di storia e di diritto, su cui forse gli autori avrebbero potuto accennare in una comune introduzione. In ogni caso tale approccio differente non impoverisce bensì arricchisce il libro il quale, nel complesso, contribuisce in modo significativo all’avanzamento degli studi riguardanti i crimini di guerra tedeschi e la storia della magistratura militare.
Andrea Martini, Marco De Paolis, Paolo Pezzino, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013, DIACRONIE, N. 33, 1 / 2018

[…] Al contrario, secondo la dottrina <11>, nelle transizioni verrebbero in gioco almeno quattro regimi giuridici differenti (diritto penale nazionale, diritto internazionale dei diritti umani, diritto umanitario e diritto penale internazionale). Essi possono portare a conclusioni differenti sul concetto di legalità e illegalità di certe misure, in quanto i rispettivi standard nell’attribuzione di responsabilità rispondo a logiche differenti. In questo senso la transizione è sì un fenomeno giuridico, ma anche al tempo stesso un fenomeno eccezionale, proprio in virtù del rapporto fra il perseguimento dei fini transizionali e le cornici giuridiche che interessano la giustizia di transizione come disciplina autonoma <12>. La giustizia di transizione ha un ruolo «costituente» e «costruttivista» <13>, in quanto «mentre in tempi ordinari ci si aspetta che il diritto garantisca ordine e stabilità, in periodi straordinari di disordini politici, il diritto è chiamato a mantenere l’ordine e al tempo stesso a consentire una trasformazione» <14>. Tale forma di giustizia è dunque al tempo stesso giustizia di transizione, eppure anche «giustizia nella transizione», nonché «giustizia in transizione» <15>.
La dottrina ha elaborato una catalogazione delle diverse esperienze. La storia della giustizia di transizione viene generalmente suddivisa in tre fasi:
1) La prima fase coincide con la giustizia postbellica, con il ricorso agli schemi del diritto internazionale e l’insaturazione del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga e del Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente.
2) La seconda fase coincide con il periodo che i politologi hanno definito “la terza ondata di democratizzazione” <16>; essa inizia con la transizione spagnola del 1975 e, sulla spinta degli eventi del 1989 e della fine della Guerra Fredda, include le esperienze transizionali degli Stati latinoamericani, del Sudafrica e dell’Europa orientale. Tale fase ha visto la sperimentazione di modelli transizionali alternativi a quello di Norimberga, cioè all’uso dello strumento penale e della giustizia retributiva. Ci si riferisce in particolare alle esperienze di giustizia restaurativa o alle diverse forme di commissioni per la verità <17>.
11 Così C. BELL, “Transitional Justice, Interdisciplinarity”, cit., 20.
12 Ivi, 21.
13 Cfr. R.G. TEITEL, Globalizing transitional justice, cit., 181.
14 Ivi, 150.
15 Cfr. R. BARTOLI, “La «giustizia di transizione», cit. 63. Aggiunge l’Autore che «la giustizia di transizione ha un obiettivo finale consistente nella convivenza pacifica e quindi nella sostanza nel reciproco rispetto dei diritti umani» (ivi 62).
16 Espressione di S.P. HUNTINGTON, The Third Wave: Democratization in the Late Twenty Century, Norman, University of Oklahoma Press 1991.
17 Su queste ultime si veda il fondamentale volume di P.B. HAYNER, Unspeakable Truths. Confronting state terror and atrocity, New York, Routledge 2001.
Paolo Caroli, La giustizia di transizione in Italia. L’esperienza dopo la seconda guerra mondiale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2015-2016

«Che cosa è stata la giustizia di “transizione” nel caso italiano del secondo dopoguerra? E’ riuscita la giustizia in Italia a dare un contributo fattuale a questi processi?» <1>
La serie collaborazionisti del Ministero di Grazia e Giustizia conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato permette di dare un quadro storico dell’Italia pre-repubblicana sulle vicende che dal fascismo hanno portato con molte difficoltà alla democrazia, affrontando un capitolo della storia per molti anni oscurata e resa quasi impossibile da documentare <2>.
La serie, che originariamente era fornita di un semplice elenco di nominativi in ordine alfabetico, è stata nuovamente oggetto di un lavoro di riordino e inventariazione. Essa comprende un totale di 2734 fascicoli personali, i cui intestatari, sia uomini che donne, avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana (RSI) e collaborato con il tedesco invasore.
[…]
Una “giustizia di transizione” (4) di Ilaria Bisti
Al crollo del regime fascista, sancito il 25 luglio 1943 dalla sfiducia del Gran consiglio a Mussolini e dal suo arresto per ordine del Re Vittorio Emanuele III, non seguì un’ondata di violenza, né una sanguinosa resa dei conti con gli sconfitti. Ma nell’autunno 1943, dopo la dichiarazione dell’armistizio siglato tra l’Italia e le forze Alleate (8 settembre 1943) e la formazione della RSI, la costituzione del governo collaborazionista innescò una guerra civile, a metà tra giustizia rivoluzionaria e vendetta privata.
Nel vuoto istituzionale lasciato dal dissolvimento dei poteri preesistenti e l’affermazione del nuovo ordine, le autorità governative stentarono ad affermare il ruolo del diritto e l’amministrazione della giustizia risentì del condizionamento pubblico. Un sentimento di vendetta portò di conseguenza gli organi competenti a pronunciare numerose sentenze sommarie ed esecuzioni capitali (5).
All’interno di questo contesto s’inserisce l’insieme delle leggi, dei processi e delle misure di clemenza, quali elementi di una giustizia di transizione che si poneva il compito di traghettare le società europee fuori dai regimi autoritari e farle approdare a istituzioni democratiche. Il governo Bonomi avviò la punizione dei delitti fascisti col decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159. L’articolo 2 istituiva l’Alta Corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo e per le sentenze da essa emanate non era ammesso nessun mezzo d’impugnazione. L’articolo 3 colpiva gli organizzatori «delle squadre fasciste, le quali hanno compiuto atti di violenza o di devastazione, e coloro che hanno promosso l’insurrezione del 28 ottobre 1922, coloro che hanno promosso o diretto il colpo di Stato del 3 gennaio 1925 e coloro che hanno in seguito contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista» (6).
L’articolo 5 perseguiva chiunque dopo l’8 settembre 1943 avesse «commesso […] delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza ad esso prestata» (7).
La legge considerava dunque collaborazionisti i governanti della RSI, i dirigenti del Partito fascista repubblicano, i componenti del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, i direttori di giornali politici, i segretari di federazione e gli ufficiali delle camicie nere (8); tutti coloro che avevano aderito con ruoli e responsabilità diverse alla RSI tra il settembre 1943 e l’aprile 1945.
Con decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 625, l’Alta Corte di giustizia veniva soppressa e i processi pendenti passarono a una Sezione speciale della Corte d’Assise (9).
I Tribunali del popolo, le Corti d’Assise Straordinarie, le Sezioni speciali delle Corti d’Assise di Margherita Recupero
Mentre ancora infuriava la guerra, il movimento resistenziale pensava all’istituzione di organismi e regole per l’amministrazione della giustizia in condizioni di emergenza, nel vuoto giuridico-istituzionale determinato dall’8 settembre 1943.
Per superare ogni forma di giustizia sommaria nella primavera del 1945 vennero istituiti i Tribunali del popolo operanti nell’ambito del CLNAI (10). Sulla scia di tale esperimento si prefigurava per il dopoguerra, sotto l’egida del CLN (11), l’istituzione delle Corti d’Assise del popolo: uno strumento di giustizia rivoluzionaria avversato dal governo Bonomi, il quale riaffermò l’importanza di avere una magistratura ordinaria (12).
Di conseguenza Bonomi istituì, con decreto legislativo luogotenenziale n. 142 del 22 aprile 1945, le Corti d’Assise Straordinarie (CAS) in ogni capoluogo di provincia, per giudicare i reati di collaborazionismo col tedesco invasore commessi dopo l’8 settembre 1943 e fermare l’emorragia di esecuzioni sommarie (13).
Le sentenze di primo grado emesse dalle CAS potevano infliggere qualsiasi tipo di pena, anche la pena di morte, estendendo quindi ai civili le norme del Codice penale militare di guerra, con particolare riferimento agli articoli 51, 54 e 58 di quest’ultimo (14). Ciò dimostra come l’Italia versasse ancora in un clima di militarizzazione, nonostante fosse ufficialmente terminata la guerra. Contro le sentenze delle CAS era ammessa l’impugnazione in Cassazione entro 3 giorni e 10 in caso di condanna a morte. La Cassazione poteva annullare la sentenza con eventuale rinvio a nuovo processo oppure applicare l’amnistia, con conseguente estinzione del reato.
Nei primi cinque mesi di funzionamento delle CAS, furono inflitte 270 condanne a morte, confermate dalla Cassazione in 122 casi. All’alto numero di condanne corrispose però una bassa incidenza delle fucilazioni: 90 ca. (15).
Nell’ottobre del 1945 le CAS cessarono l’attività e iniziò il lavoro delle Sezioni speciali delle Corti d’Assise ordinarie, istituite con decreto legislativo luogotenenziale n. 625 del 5 ottobre 1945 e rimaste in funzione sino a tutto il 1947, per intensificare e accelerare l’attività giudiziaria: spettava infatti alle Sezioni speciali condurre rapidamente a termine la istruzione dei procedimenti già in corso e iniziare quei procedimenti contro rei fascisti reclamati dall’opinione pubblica. In effetti tale riforma giudiziaria accelerò i tempi di giudizio e dal gennaio 1946 al luglio 1947 furono completati 8800 processi (16).
Alla sommarietà delle indagini e dei giudizi emessi nell’estate 1945, si sostituì col tempo una tendenza alla clemenza che sfociò nell’impunità: i condannati venivano puniti con pene sempre meno dure e, tra condoni e amnistie, nel giro di qualche anno riuscivano a ottenere la libertà. Poiché contro le condanne inflitte dalle Corti Straordinarie d’Assise era possibile solo l’impugnazione in Cassazione, s’istituì il 13 giugno 1945 a Milano (in quanto la gran parte dei ricorsi proveniva dal Nord Italia) una Sezione speciale della Corte di Cassazione, rimasta attiva fino al novembre dello stesso anno, dopo di che i ricorsi confluirono alla Corte di Cassazione di Roma. La Sezione speciale milanese annullò sentenze nelle quali il coinvolgimento pubblico aveva reso difficile la garanzia della difesa e determinato condanne alla pena capitale. Altrettanto opportuna fu la distinzione delle responsabilità tra comandanti e gregari. Di conseguenza molte condanne a morte furono cancellate <17>. Dal gennaio 1948 la competenza passò alle Corti d’Assise ordinarie. All’interno della serie collaborazionisti è stato rilevato un solo condannato dal Tribunale del popolo (Borsatti Odorico) <18> e tre condannati dall’Alta Corte di giustizia (Caruso Pietro <19>, Scarpato Federico <20>, Koch Pietro <21>). Alcuni imputati furono invece condannati dai Tribunali Militari. Tutti gli altri dalle Corti d’Assise Straordinarie e dalle Sezioni speciali delle Corti d’Assise. E’ interessante notare che tra i tre condannati dall’Alta Corte di giustizia vi sono due personaggi divenuti celebri nella storia per essersi macchiati di un efferato crimine: la strage delle Fosse Ardeatine. Si tratta di Pietro Koch e Pietro Caruso, poi giustiziati con la pena capitale.
L’amnistia Togliatti di Margherita Recupero
Il 22 giugno 1946, pochi giorni dopo la nascita della Repubblica, fu varata l’amnistia <22> Togliatti: un provvedimento di condono delle pene proposto dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti, promulgato con decreto presidenziale 22 giugno 1946 n. 423.
L’amnistia comprendeva i reati comuni e politici, compresi quelli di collaborazionismo con il nemico e relativi reati commessi dopo l’8 settembre 1943 fino a tutto il giorno 18 giugno 1946 <24>. Non veniva quindi messo sotto accusa l’intero regime fascista, ma solo il periodo della RSI. Ne è dimostrazione un documento dell’Headquarters Allied Military Government Piemonte Region Legal Division, datato al 3 agosto 1945 e indirizzato al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Torino, in cui si chiede di comunicare ai Procuratori delle Corti Straordinarie d’Assise che non costituisce reato l’aver appartenuto al Partito fascista o alle Forze Armate della Repubblica Italiana <25>.
Lo scopo del provvedimento varato da Togliatti era dunque la pacificazione nazionale dopo gli anni della guerra civile ma vi furono numerose polemiche sulla sua estensione, tanto che il 2 luglio 1946 Togliatti si vide costretto a emanare la circolare n. 9796/110 per raccomandare interpretazioni restrittive nella concessione del beneficio.
L’art. 3 del decreto prevedeva che fossero esclusi dall’amnistia i reati di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidio o saccheggio e delitti compiuti a scopo di lucro. L’amnistia non era inoltre prevista per chi avesse avuto «elevata responsabilità di comando civile e militare» <26>, ma fu applicata dalla Cassazione in modo disinvolto.
Emerge infatti dai fascicoli processuali che la maggior parte dei condannati riuscì a fruire dell’amnistia del 22 giugno 1946 e successivamente, con l’ulteriore allargamento dei margini di condono delle pene, riuscirono a beneficiare di tali provvedimenti e ottenere una riduzione, se non la cancellazione, delle pene principali e accessorie.
Infatti l’amnistia varata da Togliatti fu seguita da ulteriori provvedimenti che allargarono i termini temporali e la casistica.
[…]
I fascicoli processuali di Ilaria Bisti
All’interno dei fascicoli processuali dei richiedenti grazia è presente materiale probatorio che gli inquirenti hanno raccolto per la fase dell’istruttoria <27>. Esso comprende innanzitutto le istanze di grazia e le pratiche di liberazione condizionale, le sentenze, le denunce delle parti lese e delle vittime dei reati, le dichiarazioni dei testimoni che assistettero ai reati, i verbali degli interrogatori degli imputati e dei dibattimenti, i ricorsi in Cassazione, i memoriali difensivi, le comunicazioni della Commissione Alleata e delle Corti Marziali Britanniche.
Vi sono inoltre materiali di diverso genere quali corrispondenze private, diari, memorie, articoli di giornale relativi ai condannati, volumi contenenti le raccolte firme a favore della concessione della grazia ai condannati, testimonianze della Santa Sede che si poneva in difesa del condannato e in favore della concessione della grazia.
Tra le carte contenute nei fascicoli è possibile trovare referti medici e medico-psichiatrici, che riguardano sia i detenuti che scontavano la propria pena in Case di cura, sia i condannati ai quali erano stati diagnosticati problemi di salute.
All’interno di tale documentazione sono dunque conservati dati sensibili relativi allo stato di salute dei condannati e lo “Specchietto Biografico” è lo strumento sul quale venivano registrati tutti i dati fisiognomici, clinici e psicologici del condannato, comprese le impronte digitali.
Le sentenze rappresentano senz’altro la documentazione più preziosa, perché permettono di conoscere i crimini commessi dagli imputati e quantificare i complici di tali crimini. Dalle sentenze emerge l’intero corpus di leggi che punisce i crimini di collaborazionismo e regolamenta la pratica di concessione della grazia o indulto delle pene per i reati legati al fascismo.
Attraverso le sentenze è inoltre possibile ricostruire la cronologia delle pratiche di richiesta della grazia da parte dei condannati, i ricorsi fatti in Cassazione e il condono delle pene.
Le pene inflitte ai collaborazionisti: allontanamento dagli uffici pubblici, confisca dei beni, pena di morte commutata poi in ergastolo di Ilaria Bisti
L’allontanamento dei fascisti dagli uffici pubblici, prima ancora di diventare un obiettivo dei nuovi governanti, fu una condizione imposta dagli Stati Uniti, Inghilterra e Unione Sovietica nell’autunno 1943, che alle conferenze di Teheran e di Mosca chiesero al governo Badoglio d’intraprendere la via di un profondo rinnovamento del personale e delle strutture statali, rimuovendo tutti gli elementi fascisti dalle cariche pubbliche. Un processo di epurazione che vide coinvolti anche alcuni personaggi che ricorrono nei fascicoli processuali appartenenti alla serie collaborazionisti del Ministero di Grazia e Giustizia. Infatti si possono trovare, tra le carte conservate nell’Archivio Centrale dello Stato, richiedenti grazia la cui condanna riguardava la destituzione da incarichi pubblici ricoperti in epoca fascista. In tal caso la richiesta di grazia riguarda il reintegro professionale negli uffici pubblici.
Ne sono un esempio i seguenti casi incontrati durante il lavoro di inventariazione:
– Fasc. 2657 b. 78, De Santis Placido, condannato per collaborazionismo politico e sevizie efferate, ex capitano della GNR <28> a Genova, poté usufruire solo in parte dell’amnistia del 1946, ma richiedeva il condono della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, al fine di esercitare nuovamente la sua professione.
– Fasc. 2659 b. 78, Gemma Gioacchino, condannato dapprima alla pena di morte e poi a 20 di reclusione per aver aderito alla RSI, finì per scontare solo 5 anni di reclusione ma chiedeva la grazia della pena accessoria, ovvero l’interdizione dai pubblici uffici.
Per quanto riguarda la confisca dei beni, essa rappresenta una pena accessoria che si andava a sommare alle condanne alla reclusione o alle pene capitali. Sono molti i casi in cui la condanna alla reclusione veniva amnistiata, ma rimaneva da scontare la pena della confisca dei beni: è il caso di Gianoglio Olimpo, condannato per collaborazionismo a 10 anni di reclusione e alla confisca dei beni con sentenza 16 giugno 1945 ai sensi dell’art. 9 del dll 27 luglio 1944 n. 159, il quale beneficiò, per la pena detentiva, dell’amnistia concessa con d. p. 22 giugno 1946, ma richiedeva il condono della confisca dei beni in quanto avente natura di pena principale <29>.
E’ il caso di Corti Giovanni, il quale dopo essere stato condannato per il reato di collaborazionismo a 20 anni di reclusione (sentenza del 20 agosto 1945) e dopo aver ottenuto la grazia da parte del Presidente della Repubblica (grazia intesa sia per la pena detentiva, che per la confisca dei beni) presentava in data 17 settembre 1954 istanza per ottenere il rimborso della somma di 1.419.000 lire già versata a titolo cauzionale per il riscatto dei beni confiscati <30>.
Per quanto invece riguarda la pena di morte – la più gravosa e diffusa tra le pene inflitte ai condannati per collaborazionismo – molti dei condannati con sentenze emesse nel 1945 furono effettivamente giustiziati. Ne rimane memoria nei fascicoli processuali attraverso relazioni sull’esecuzione della pena, che descrivono nei minimi dettagli le procedure allora imposte: fucilazione alla schiena, esecuzione della pena all’interno dei poligoni di tiro e senza la presenza del pubblico, spesso all’alba o nelle prime ore del mattino. Si trattava di precauzioni utili a non accrescere il sentimento di vendetta e rancore sociale nei confronti dei condannati <31>.
Il primo fascicolo della serie si apre infatti con l’esecuzione della pena di morte dei giovanissimi Ciani Auro e Gandolfi Eugenio <32>.
Per le sentenze di condanna emesse post 1945, la pena di morte viene commutata in ergastolo (30 anni di reclusione), ovvero la massima pena prevista dal codice penale, sia per via del provvedimento di amnistia del 22 giugno 1946, sia in seguito all’approvazione della Costituzione italiana (1 gennaio 1948), che abolì definitivamente la pena di morte per tutti i reati comuni e militari commessi in tempo di pace. Secondo l’art. 27 della Costituzione «[…] Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra». La pena di morte rimaneva comunque in vigore nel Codice penale militare di guerra <33>, utilizzato dalle CAS per le sentenze di condanna emesse fino a tutto il 1945, nella consapevolezza che l’Italia versasse ancora in un clima di guerra e non di pace.
Nel periodo tra il 1945 e il 1947 furono comminate un totale di 259 condanne a morte per crimini commessi da ex appartenenti alla RSI da parte delle Corti Straordinarie d’Assise e dai Tribunali straordinari, 91 delle quali eseguite tra il 2 agosto 1945 ed il 5 marzo 1947 <34>.
I crimini commessi dai collaborazionisti di Margherita Recupero
Si può concludere elencando di seguito alcuni casi emblematici di crimini commessi da esponenti fascisti ai danni di partigiani, in quanto indicativi del clima di guerra civile che si respirava in Italia all’indomani dell’8 settembre 1943.
I fascc. 171, 51 e 755 sono tra i più consistenti e ricchi di documentazione dell’intera serie, poiché si trattò di processi collettivi che videro coimputati diversi personaggi. Dallo studio e dall’analisi dei documenti ivi contenuti, emerge che la maggior parte dei condannati alla pena capitale riuscì ad ottenere la libertà condizionale, in seguito all’ultimo provvedimento di amnistia del 1953 proposto da Antonio Azara per spirito di pacificazione nazionale.
– Fasc. 51 b. 4: Iannuzzi Mario, Martinotti Luciano, Saracco Osvaldo, Fornero Carlo, Barbano Lorenzo, Ubertazzi Carlo, Zola Giovanni appartenenti alla GNR e militi delle brigate nere, nel circondario di Casale Monferrato collaborarono col tedesco invasore nelle azioni da questo organizzate. Colpirono a morte partigiani, prelevarono ostaggi, incendiarono e devastarono paesi e borgate, saccheggiarono abitazioni private, fomentarono il popolo italiano verso una guerra civile opponendosi con la violenza alle iniziative della forze di liberazione nazionale.
Condannati alla pena capitale con sentenza 3 luglio 1945 dalla CAS di Casale Monferrato, riuscirono tutti a ottenere la libertà condizionale nel 1954, in seguito al provvedimento di amnistia del 1953.
– Fasc. 171 b. 12: Ferrari Carlo, Ferrari Giovanni, Bellinetti Silvio, condannati con sentenza 23 ottobre 1945 dalla Corte d’Assise di Cuneo alla pena capitale per collaborazionismo militare e concorso in omicidio; eseguirono l’impiccagione del capo partigiano Lorenzo Spada; fucilarono un parroco e due giovani ragazzi, dopo averli torturati, per rappresaglia dell’uccisione di un milite fascista; uccisero numerosi partigiani ed ebrei. Loro correi furono Pansecchi Franco e Brachetti Tommaso, i quali ottennero la libertà condizionale nel 1951. Per gli altri condannati si propose nel 1954 l’ammissione alla libertà condizionale.
– Fasc. 755 b. 32: Paone Giuseppe, Accornero Pietro e altri, condannati con sentenza 4 dicembre 1945 dalla CAS di Como alla pena capitale, commutata poi in 19 anni di reclusione, per collaborazionismo, omicidi e sevizie efferate. Fecero parte della “banda Paone”, partecipando ad azioni di rastrellamento e di rappresaglia contro partigiani e patrioti.
Venne infine concessa loro la libertà condizionale nel 1953.
– Fasc. 2659 b. 78: Gemma Gioacchino, condannato alla pena di morte il 30 agosto 1945 dalla CAS di Milano, poiché ordinò la fucilazione del partigiano Bianchi Bruno per rappresaglia, fu amnistiato dalla Corte di Cassazione. Suo correo fu Corti Giovanni. Torriani Renzo, Riboni Rolando, Corti Giovanni (ma anche Capizzi Francesco e Appiani Adolfo) fecero parte del plotone “Caruso”, responsabile di azioni di rastrellamento contro elementi della resistenza. Parteciparono inoltre all’esecuzione di Bianchi Bruno e alla fucilazione di 9 partigiani a Milano, il 12 gennaio 1945, al Campo Giurati.
1 Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, a cura di GIOVANNI FOCARDI e CECILIA NUBOLA, Il Mulino, Bologna 2015, p. 11.
2 Si fa riferimento all’”armadio della vergogna”, scoperto dal giornalista dell’Espresso, Franco Giustolisi e raccontato da M. FRANZINELLI in Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti: 1943-2001, Mondadori, Milano, 2002.
4 Termine utilizzato da M. FRANZINELLI in Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006 e da Giovanni Focardi e Cecilia Nubola in Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana (a cura di G. FOCARDI e C. NUBOLA), Il Mulino, Bologna 2015, per intendere l’amministrazione della giustizia nel periodo a cavallo tra il Regime fascista e la nascita della Repubblica democratica italiana.
5 M. FRANZINELLI, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006.
6 M. FRANZINELLI in L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006, p. 9; http://www.straginazifasciste.it/?page_id=139
7 M. FRANZINELLI in L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006, p. 10; http://www.straginazifasciste.it/?page_id=139
8 M. FRANZINELLI, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006.
9 M. FRANZINELLI, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006.
10 Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI): un’organizzazione politico-militare italiana costituitasi nel febbraio 1944 a Milano con lo scopo di opporsi al fascismo e all’invasione tedesca dell’Italia nei mesi susseguenti all’armistizio dell’8 settembre – https://it.wikipedia.org/wiki/Comitato_di_Liberazione_Nazionale_Alta_Italia
11 Comitato di Liberazione Nazionale (CLN): un’organizzazione politica e militare italiana formatasi a Roma il 9 settembre 1943 allo scopo di opporsi al fascismo e all’occupazione tedesca in Italia. Scioltasi nel 1947, ha coordinato e diretto la resistenza italiana ed ebbe per delega poteri di governo nei giorni di insurrezione nazionale – https://it.wikipedia.org/wiki/Comitato_di_Liberazione_Nazionale
12 M. FRANZINELLI, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006.
13 M. FRANZINELLI, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006.
14 Codice penale militare di guerra, Libro terzo, Titolo II, Art. 51: «Il militare che commette un fatto diretto a favorire le operazioni militari del nemico, ovvero a nuocere altrimenti alle operazioni delle forze armate dello Stato italiano, è punito con la morte». Art. 54: «Il militare, che, per favorire il nemico tiene con esso intelligenze o corrispondenza, è punito con la morte con degradazione. Se le intelligenze o la corrispondenza non hanno prodotto danno, la pena può essere diminuita. Se trattasi di offerta di servizi al nemico, ancorché non accettata, la pena è della reclusione non inferiore a quindici anni». Art. 58: «Nei luoghi del territorio dello Stato invasi od occupati dal nemico, chiunque favorisce i disegni politici del nemico sul territorio invaso od occupato, ovvero commette un fatto diretto a menomare la fedeltà dei cittadini verso lo Stato italiano, è punito con la reclusione da dieci a venti anni». Vedi: http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/ISSMI/Corsi/Corso_Consigliere_Giuridico/Documents/95805_CPMG.pdf
15 M. FRANZINELLI, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006.
16 Ibidem.
17 M. FRANZINELLI, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006.
18 b. 32, fasc. 752, Borsatti Odorico.
19 b. 2, fasc. 17, Caruso Pietro.
20 b. 3, fasc. 38, Scarpato Federico.
21 b. 31, fasc. 741, Koch Pietro.
22 È bene ricordare che per amnistia s’intende l’estinzione del reato e la rinuncia, da parte dello Stato, al perseguimento di determinati reati. Per indulto s’intende invece il condono, la commutazione o l’estinzione della pena, ma non del reato.
23 M. FRANZINELLI, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006; Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, a cura di G. FOCARDI e C. NUBOLA, Il Mulino, Bologna 2015, p. 221.
24 https://www.ilpost.it/2016/06/22/amnistia-togliatti
25 b. 77, fasc. 2559, Gianoglio Olimpo.
26 Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, a cura di G. FOCARDI e C. NUBOLA, Il Mulino, Bologna 2015, p. 66.
27 Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, a cura di G. FOCARDI e C. NUBOLA, Il Mulino, Bologna 2015.
28 Guardia Nazionale Repubblicana (GNR): una forza armata istituita in Italia dal governo fascista repubblicano l’8 dicembre 1943, con compiti di polizia interna e militare – https://it.wikipedia.org/wiki/Guardia_Nazionale_Repubblicana
29 b. 77, fasc. 2559, Gianoglio Olimpo.
30 b. 78, fasc. 2659, Torriani Renzo.
31 Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, a cura di G. FOCARDI e C. NUBOLA, Il Mulino, Bologna 2015.
32 b. 1, fasc. 1, Caiani Auro, Gandolfi Eugenio.
33 Vedi nota 15.
34 Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, a cura di G. FOCARDI e C. NUBOLA, Il Mulino, Bologna 2015.
Redazione, Collaborazionisti 1944-1954, Ministero di Grazia e Giustizia, Direzione Generale Affari Penali Grazie e Casellario, Ufficio Grazie, 2018 – Coordinamento scientifico a cura di Caterina Arfè – Revisione e stampa a cura di Franco Nudi – Inventario a cura di Margherita Recupero e Ilaria Bisti – Rilegatura: Antonio Blasi e Mariella Turetta

Borsatti fu giudicato dal TDP in ragione di diversi fattori; pesarono le caratteristiche della collaborazione prestata, la gravità dei crimini commessi, la sua personale posizione e le modalità con le quali fu arrestato. Non vanno dimenticati il contesto del periodo e la posizione assunta da CLN e dai reparti partigiani nei confronti dell’imputato nei giorni della liberazione. Il tenente Borsatti infatti era una figura nota e questo elemento, seppur non da solo, ebbe un peso rilevante nel caratterizzare la sua vicenda processuale. La sua condotta e le gesta compiute durante il conflitto, in particolare nella zona di Palmanova, erano conosciute alla popolazione e già durante la guerra l’ufficiale era ritenuto il mandante e l’esecutore materiale di crimini efferati contro civili e partigiani. Molti lo ritenevano uno dei maggiori responsabili dell’esasperazione del conflitto che aveva prodotto innumerevoli violenze arrestati, sfociate anche in fucilazioni sommarie. Borsatti era noto ai servizi di informazione Comandi partigiani che conoscevano il suo ruolo nei reparti tedeschi e l’attività svolta nella repressione antipartigiana: le operazioni alle quali partecipò portarono alla morte e cattura di molti resistenti allo smantellamento delle loro strutture.
Fabio Verardo, La Corte d’Assise Straordinaria di Udine e i processi per collaborazionismo in Friuli (1945-1947), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno accademico 2015/2016

[…] In riferimento all’esperienza italiana esaminata, riprendendo la distinzione fra impunità normativa e impunità di fatto <802>, può ritenersi che in Italia fra il 1946 e il 1966 abbia avuto luogo un percorso qualificabile come un’amnistia complessa, in quanto unisce elementi normativi e di fatto.
Essa ha avuto come punto di partenza e “base d’appoggio” l’amnistia Togliatti, un’amnistia che si presenta come limitativa solo in parte della persecuzione penale e che può collocarsi a metà strada fra le amnistie compromissorie e le amnistie con attribuzione di responsabilità (accountable amnisties) <803>. Tuttavia essa contiene al suo interno errori e imperfezioni tecnico-giuridiche in grado di consentire molto facilmente la manipolazione dell’interprete. In questo modo l’amnistia diventa dunque veicolo di impunità e anzi costituisce, dal punto di vista giuridico, la giustificazione formale alla stessa.
Su tale base sono intervenuti in maniera significativa elementi di fatto (in particolare, il ruolo della magistratura). A partire dal 1947-1948 e dal mutamento del clima politico, non solo tali elementi non sono stati contrastati dal potere politico, bensì anzi sono stati avvallati e cavalcati dal legislatore, intervenuto nuovamente. In questa fase si registrano dunque nuovi elementi di amnistia normativa, questa volta di segno nettamente diretto all’impunità, in una forma tendente all’amnistia generalizzata (blanket; si pensi all’amnistia del 1953). A questi si aggiungono i provvedimenti di clemenza individuale, che arrivano sino agli anni ’60. Questo quadro complesso e misto caratterizza i crimini del fascismo, mentre con riferimento ad altri fatti (crimini italiani all’estero e crimini nazisti sino al 1994), vi è un’amnistia blanket data solo da elementi de facto, senza nessun coinvolgimento del diritto.
Nel primo caso a cui si è fatto riferimento (cioè l’amnistia Togliatti), gli elementi di impunità normativa sono stati introdotti da un governo non democraticamente eletto, ma rappresentativo di tutte le forze politiche antifasciste, prima fra tutte quella del ministro firmatario, forza d’opposizione per eccellenza e in qualche modo la più rappresentativa dei gruppi della Resistenza. Non ci si può tuttavia esimere da una considerazione, necessaria a maggior ragione a fronte della consapevolezza che l’amnistia Togliatti costituisce il testo legislativo dirimente, la scelta originaria e la giustificazione per tutto il percorso successivo. Ci si riferisce al fatto che la sua adozione non ha visto un coinvolgimento della popolazione, né nella forma della democrazia diretta <804>, né in quella della democrazia rappresentativa a mezzo del potere legislativo esercitato da un Parlamento eletto dai cittadini. Nemmeno l’Assemblea Costituente è stata investita della questione. Quanto invece ai provvedimenti di clemenza successivi, essi sono stati emanati dal Presidente della Repubblica su legge di delegazione votata da un Parlamento democraticamente eletto.
In tutta la procedura descritta, si denota un’assenza complessiva delle vittime dei delitti amnistiati, sia nella fase della repressione penale che in quella dell’adozione dell’amnistia, che in procedimenti stragiudiziali di attribuzione della responsabilità, inesistenti.
L’assetto della transizione italiana, con l’eccezione dei crimini tedeschi (in seguito al ritrovamento fortuito dell’Armadio della Vergogna), non è stato mai più rimesso in discussione in settant’anni di storia repubblicana.
802 Cfr. K. AMBOS, Impunidad y derecho penal internacional, cit., 34.
803 R. SLYE, “The Legitimacy of Amnesties…”, cit., 245.
804 La stessa Costituzione priverà la popolazione anche di un potere di referendum sulla stessa amnistia (art. 75 Cost.).
Paolo Caroli, Op. cit.

[ndr 1] Da un sommergibile era sbarcato nel gennaio 1944 anche Emanuele Strassera, agente dell’OSS, con il compito di coordinare la lotta partigiana. Strassera aveva il compito di consegnare un rapporto agli agenti alleati operanti in Svizzera. Contattò Francesco Moranino alias Gemisto e altri quattro partigiani, Campasso, Santucci, Francesconi, Scimone […]
Capitano di Fregata Jerzy Kulczychy “Sass” alias Colonnello Sassi alias… Della Rovere?, lacorsainfinita

 

[…] Giovanni Focardi si concentra proprio sulle figure dei magistrati ordinari chiamati ad operare quali presidenti nelle Cas, per indagarne le eventuali compromissioni con il fascismo e le presunte inaffidabilità politiche, avvalorate dagli esiti contraddittori della preventiva epurazione amministrativa del corpo. Il saggio ci offre il profilo di alcuni tra i 64 magistrati individuati attraverso la Banca dati sulle Corti d’assise straordinarie dell’Istituto Nazionale Parri, restituendoci i caratteri dominanti della scelta operata da presidenti di Corte d’appello e procuratori generali: un gruppo professionale relativamente omogeneo di giudici anziani di lunga esperienza (i 2/3 dei quali ha un’età compresa tra i 55 e i 62 anni), consiglieri e sostituti procuratori generali di Corte d’appello o primi pretori spesso trattenuti in servizio oltre i limiti d’età a causa della carenza di personale, per la maggior parte originari del sud, che formatisi ed entrati nei ranghi della magistratura in età liberale avevano «convissuto con la dittatura», sebbene non fossero del tutto privi di collegamenti organici con il regime e avessero spesso mantenuto incarichi di servizio anche durante la Rsi.Un insieme di magistrati complessivamente poco compromessi con il fascismo, ma con altrettanto marginali contiguità con il movimento di Resistenza, che per cultura e habitus professionale sembra contraddistinto soprattutto da una comune presa di distanza dalla dimensione politica. Come posto in evidenza dal contributo di Toni Rovatti, quest’istintiva refrattarietà della magistratura ordinaria verso i rischi di sovrapposizione con il giudizio politico, compensata da una costante propensione al formalismo giuridico e esasperata dalla progressiva distorsione del principio di legalità per motivazioni politiche operata sotto il regime e durante la Repubblica sociale italiana, contribuisce a modulare con accenti di particolare rigore la valutazione dei giudici delle Cas sugli imputati protagonisti della giustizia straordinaria fascista: colpevoli all’interno di un complesso gioco di specchi di evidenziare le fragilità dello stesso corpo professionale, mettendo in scena quello che viene percepito come un intollerabile «atto di dileggio della cultura giuridica nazionale e dei principi del diritto penale».
[…] Il contributo di Andrea Martini presenta un’originale ricostruzione del collaborazionismo fascista in Lazio, ricavata dallo studio delle sentenze delle Sezioni speciali di Corte d’assise ma anche delle Corti d’assise ordinarie (che a seconda dei casi si avvicendarono o si sovrapposero agli organismi straordinari, mantenendo una competenza di giudizio sui reati di collaborazionismo fino agli anni Cinquanta). Una rappresentazione plurale, che si articola attraverso tre immagini distinte: un collaborazionismo di provincia, che interessa i territori di Cassino, Frosinone, Latina e Rieti e «si concretizza prevalentemente nell’appropriazione indebita di beni preziosi, bestiame e derrate alimentari»; il caso della Corte d’assise di Viterbo, sede regionale prediletta dalla II Sezione di Cassazione per il rinvio a giudizio di casi giudiziari controversi di particolare rilievo a livello nazionale; e, infine, la capitale, dove l’attività giudiziaria si concentra – come a Milano, ma in un contesto distante dall’esperienza resistenziale – sulle responsabilità della classe dirigente fascista (in questo caso di regime), ma mette anche in rilievo l’attiva partecipazione popolare al progetto nazista di deportazione ebraica a fini di lucro e vantaggio personale.
Il saggio di Elisabetta Tonizzi e Chiara Dogliotti offre invece un primo affresco sulle complesse condizioni operative in cui opera la Cas di Genova, la cui attività giudiziaria (già oggetto, insieme alle restanti sentenze emesse dagli organismi straordinari del Distretto giudiziario ligure, di una schedatura negli anni Novanta) risulta contraddistinta da una peculiare severità di giudizio, riconducibile all’esigenza di contenere ‘legalmente’ l’incontrollata resa dei conti che investe il territorio dopo la Liberazione: emerge la predominanza di un collaborazionismo militare, impegnato nella persecuzione di oppositori politici e partigiani attraverso forme di violenza selettive, tipiche del contesto di guerra civile. […]
(a cura di) Cecilia Nubola, Paolo Pezzino, Toni Rovatti, Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari , Fondazione Bruno Kessler, Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento Quaderni, 103, Mulino, Bologna, (Il presente volume è pubblicato con il contributo dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e della Provincia autonoma di Trento), 2019

La CAS di Trento condannò Lunelli a 12 anni di reclusione, ridotti a dieci per la concessione delle attenuanti generiche in virtù della «buona fede» dell’imputato. Lo assolse dalle restanti imputazioni per non aver commesso il fatto e per insufficienza di prove. La Corte trentina dimostrava di non comprendere fino in fondo le reali responsabilità degli ex fascisti. Lunelli non si era macchiato di gravi crimini, non aveva guidato rastrellamenti, non aveva seviziato né torturato partigiani, non aveva collaborato con l’invasore tedesco. Forse non aveva neppure guidato i giovani fascisti alla devastazione degli oratori. Nonostante questo, Lunelli non solo si era avvantaggiato della posizione ricoperta nel Partito fascista, ma ne aveva propagandato la dottrina, il mito del duce e sostenuto pubblicamente l’alleanza con la Germania di Hitler. Era stato uno dei protagonisti della politica del Ventennio in provincia e a Roma. Le distruzioni, le atrocità, le macerie materiali e morali prodotte dalla guerra e dalla dittatura rappresentavano il risultato diretto dell’attività esaltata e frenetica di figure politiche come quella di Lunelli. Erano personaggi come lui che dovevano essere giudicati, puniti severamente e allontanati al più presto da quella società che, a detta degli esponenti antifascisti, andava ricostruita e «rieducata» al più presto possibile. Il 30 ottobre 1946, la Corte di cassazione di Roma dichiarò estinto il reato in virtù del DP d’amnistia del 22 giugno 1946 <275. Lunelli non scontò alcuna pena rientrando impunito nella società.
Nell’ambito di questo fascismo per così dire «intellettuale», la Sezione speciale della CAO di Trento giudicò anche Carlo Piaget <276. L’ex vice segretario del fascio di Trento, già direttore del giornale “Credere, obbedire, combattere”, comparve sul banco degli imputati in virtù dell’art. 3 DLL 27 luglio 1944, n. 159, per avere «contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime» <277. Dell’intero procedimento a suo carico è rimasta solo la sentenza, emessa nel luglio 1946. Tuttavia, il fascicolo contiene una dichiarazione sottoscritta dal tenente colonnello De Finis. L’ufficiale dei carabinieri intervenne a favore dell’imputato dichiarando che, pur avendo diretto il giornale propagandistico fascista, dopo l’8 settembre non si era occupato in alcuna maniera di questioni politiche e aveva rifiutato l’offerta fattagli dal prefetto Foschi278 di riprendere un posto di direzione politica. Anche in questo caso, essendo intervenuta l’amnistia del giugno precedente, la Sezione speciale dichiarò estinto il reato.
Nessuno dei principali esponenti del fascismo trentino fu condannato a qualche pena detentiva. Anzi alcuni, come Ettore Tolomei <279, non furono nemmeno chiamati a rispondere della loro attività politico-ideologica. La maggior parte dei procedimenti fu archiviata ancora in corso d’istruttoria. Il decreto d’amnistia promulgato nel giugno 1946 fu applicato retroattivamente e giunse a comprendere i processi a carico dei «detenuti in attesa di giudizio» <280. Guido Larcher, nell’agosto 1946, fu giudicato per avere «nella sua qualità di squadrista, di ufficiale della MVSN e di senatore del Regno, mediante propaganda, soprusi e atti di violenza, contribuito a mantenere in vigore il regime fascista». A sua difesa, l’ex gerarca dichiarò di non aver svolto alcuna attività politica all’indomani dell’8 settembre 1943, disinteressandosi del PFR e rifiutandosi di collaborare con l’invasore tedesco. Nel corso dell’istruttoria, numerosi testimoni affermarono di averlo visto durante alcune delle principali azioni squadristiche condotte nella periferia della provincia, a Cembra, nel 1924, e a Lavarone, nel febbraio 1926. L’applicazione del decreto d’amnistia giunse a salvare l’imputato da qualsiasi condanna <281.
Se le «alte sfere» intellettuali e politiche del fascismo trentino riuscirono a superare indenni i procedimenti giudiziari, anche gli esecutori materiali delle azioni squadristiche realizzate durante il Ventennio furono in grado di evitare la sanzione penale della «giustizia antifascista». Responsabili di violenze e devastazioni avvenute nel corso della dittatura come Leonida Scanagatta <282, Mario Verdiani <283 o Leopoldo Libardoni <284 furono tutti graziati in virtù dell’amnistia del giugno 1946. Il giudizio riguardante i crimini e le violenze compiute da squadristi nel periodo compreso tra il 1922 e il 1943 era passato alla competenza di corti d’assise e tribunali ordinari fin dal febbraio 1946, al momento della soppressione dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo <285. Con la RSI e la guerra civile l’uso della violenza raggiunse l’apice. Essa di fatto rappresentò, all’interno dei confini della Repubblica sociale e non solo, «la norma per il controllo dell’ordine pubblico e per le diverse forze di polizia incaricate di tutelarlo» <286. Il ricorso a pratiche violente, brutali e umilianti era stato tuttavia usuale nel corso dell’intera dittatura. «La violenza», secondo Massimiliano Griner, fu «profondamente intrinseca al fascismo delle origini», talmente connaturata all’ideologia da diventarne la caratteristica essenziale, la sua «‹quintessenza›» <287.
Non colpì unicamente i militanti dei partiti d’opposizione, ma coinvolse anche singoli cittadini.
[NOTE]
275 Trento, Corte d’appello di Trento, Archivio Procedimenti Corte d’assise straordinaria, 1945, fasc. 31/45.
276 Milano, 27 novembre 1905. Residente a Trento, commerciante.
277 Trento, Corte d’appello di Trento, Archivio Procedimenti Corte d’assise straordinaria, 1946, fasc. 11/46.
278 Nel breve periodo di tempo intercorso tra l’armistizio e la definitiva occupazione della provincia da parte tedesca, l’ultimo prefetto fascista di Trento ebbe la possibilità di rientrare momentaneamente nel suo incarico cercando di riorganizzare il PNF in vista di un prossimo rientro di Mussolini sulla scena politica nazionale. Alla fine prevalse l’orientamento tedesco diretto alla costituzione dell’Alpenvorland e Foschi fu nominato commissario prefetto per la provincia di Belluno. Si confronti VADAGNINI 1978: 106-108.
279 Rovereto, 16 agosto 1865-Roma, 25 maggio 1952. Giornalista, politico e senatore del Regno d’Italia. Nel 1906, fondò la rivista Archivio per l’Alto Adige, pubblicazione diretta a dimostrare l’italianità della regione e dunque la necessità di porre il confine al Brennero. Irredentista radicale, comprese anche l’importanza strategica dell’Alto Adige e l’opportunità di avanzare il confine italiano fino allo spartiacque alpino. La pubblicazione, che alla zona dava il nome del dipartimento napoleonico di cui all’inizio dell’Ottocento faceva parte Bolzano, fu subito sequestrata. Sempre nel 1906 cominciò la stesura del Prontuario dei nomi locali dell’Alto Adige, pubblicato nel 1916. La toponomastica italiana dell’Alto Adige non fu quindi il prodotto della politica fascista, ma il fascismo s’incaricò di realizzare il programma tolomeiano. Fervente interventista, nel 1915 si arruolò nell’esercito italiano. Nel 1918, s’insediò a Bolzano dove gli fu affidato il Commissariato alla lingua e alla cultura per l’Alto Adige. Il 15 luglio 1923 rese pubblico il suo programma di assimilazione e italianizzazione del territorio già tirolese con la rieducazione politica-culturale degli abitanti di lingua tedesca (Programma di Tolomei). Da questo punto di vista, può essere considerato come l’ideologo del fascismo in Trentino-Alto Adige. Nel 1923, fu nominato senatore per i suoi meriti culturali e patriottici. Durante la seconda guerra mondiale si ritirò dalla politica, ma, arrestato dai tedeschi, fu deportato prima a Dachau e poi in Turingia da dove ritornò a guerra finita. Si spense a Roma il 25 maggio 1952. Per maggiori informazioni, si confronti FERRANDI 1986 e BENVENUTI – HARTUNGEN VON HARTUNG 1998.
280 BORGHI – REBERSCHEGG 1999: 91-92.
281 Trento, Corte d’appello di Trento, Archivio Sezione istruttoria Corte d’appello di Trento, 1946 (201-250), fasc. 219/46.
282 Rovereto, 1899-1980. Industriale. Volontario nella prima guerra mondiale, aderì al fascismo partecipando a numerose azioni squadristiche, nell’ottobre 1922 a Bolzano e a Verona. Probabilmente, tra il 1924 e il 1926, quale segretario del fascio di Rovereto organizzò spedizioni squadristiche a Rovereto, Nomi e Vallunga. Nominato amministratore nel Comune di Rovereto (1925-1930), nel corso degli anni trenta non occupò significative cariche di partito, ma continuò a ricoprire incarichi amministrativi in numerosi enti, sia a livello locale che provinciale. Allo scoppio del secondo conflitto, fu richiamato nell’esercito come ufficiale degli alpini partecipando alle operazioni sul fronte greco-albanese e orientale (1940-1943). Dopo l’armistizio del settembre 1943, aderì alla RSI prestando servizio nel Battaglione alpini Bassano prima a Novara e poi in Germania per l’addestramento. Le sue condizioni di salute lo tennero lontano dai combattimenti. Ricoverato all’ospedale militare di Torino nel luglio 1944, ottenne un lungo periodo di inabilità completa. Nell’immediato dopoguerra la Sezione istruttoria della CAO di Trento, nel luglio 1946, dichiarò di non doversi procedere in quanto i reati a lui ascritti erano estinti per amnistia. In Trento, Corte d’appello di Trento, Archivio Sezione istruttoria Corte d’appello di Trento, 1946 (101-150), fasc. 106/46.
283 Imputato «per avere in Trento ai primi di aprile 1924 promosso e organizzato la spedizione fascista contro la sede del giornale Il Nuovo trentino, compiendo devastazioni», la Sezione istruttoria, nel luglio 1946, giudicò di non doversi procedere in quanto il reato era estinto per amnistia. In Trento, Corte d’appello di Trento, Archivio Sezione istruttoria Corte d’appello di Trento, 1946 (101-150), fasc. 113/46.
284 Levico, 26 maggio 1897. Imputato «per essersi nel 1926 e 1927, in Trento, e avvalendosi della situazione politica creata dal fascismo, insinuato nelle fila del partito comunista denunziando poi alcune persone che svolgevano attività contraria al partito fascista, provocandone il loro arresto e il conseguente loro deferimento al Tribunale speciale […] per la difesa dello Stato». La Sezione istruttoria della CAO di Trento, sempre nel luglio 1946, giudicò estinto il reato. In Trento, Corte d’appello di Trento, Archivio Sezione istruttoria Corte d’appello di Trento, 1946 (151-200), fasc. 188/46.
285 WOLLER 1997: 518-520.
286 STORCHI 2008: 147.
287 GRINER 2004: 3.
Lorenzo Gardumi, Violenza e giustizia in Trentino tra guerra e dopoguerra (1943-1948), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, 2009