Nella missione alleata Nemo anche un monaco benedettino

Trieste – Fonte: SiViaggia

Figlio di beati e postulatore di Santi, cappellano militare in guerra e monaco benedettino, scout e collaboratore del SIM-Marina (servizio di intelligence) e della «Missione Nemo» (intelligence), Padre Paolino rimane una figura da non far cadere nell’oblio. Le sue sedi religiose furono: abbazia di San Paolo fuori le Mura (1924-1928), abbazia di San Giovanni Evangelista a Parma (1928-1962), abbazia di Nostra Signora del Santissimo Sacramento (località Frattocchie, vicino a Roma; 1962-2008). Valido predicatore (lo ricorderà lo scrittore Giovannino Guareschi), compagno di strada di tante vocazioni (tra queste quella di Pietro Barilla [1]), costituisce a tutt’oggi un esempio, specie quando si devono affrontare salite e scelte radicali […] Nel novembre e nel dicembre del 1943 Padre Paolino è inviato a Trieste e a Fiume per acquisire dati da trasmettere poi ai servizi di intelligence italiani e alleati. A Trieste, in casa del Colonnello Ponzo, conosce il giovane maggiore degli alpini Riccardo De Haag.[15] […] L’attività dell’Operazione Nemo a Parma viene scoperta e distrutta nel marzo del 1945 (poco prima della fine della guerra). Forse alcuni resistenti, sottoposti a tortura, rivelarono dati sensibili. Nel convento dei Padri Stimmatini è trovato l’archivio del servizio informativo partigiano. Cadono nelle mani degli agenti tedeschi gli elenchi degli informatori, dei collaboratori, delle spie, le relazioni periodiche e molta altra documentazione circa l’attività cospirativa. È arrestato il comandante Gavino Cherchi [56] «Stella», ucciso e gettato nelle acque del Po insieme a Ines Bedeschi [57] e Alceste Benoldi [58] dopo tre settimane di prigionia e sevizie. Catturato pure Massimiliano (Max) Casaburi, stretto collaboratore di Padre Paolino. Quest’ultimo sfugge alla cattura perché in quel momento è in missione a Roma per conto del Generale Cadorna. Comunque, il religioso benedettino il 28 aprile è già a Parma liberata, ritrovando i suoi compagni liberi (fuggiti dal carcere il 22 aprile dopo un bombardamento).[59]

1 Pietro Barilla (1913-1993). Titolare per oltre 50 anni della multinazionale alimentare Barilla [...]    
15 Riccardo De Haag, nato a Trieste. Nel 1942 era stato responsabile della II divisione Lavori pubblici del Comune di Trieste. Parlava perfettamente il tedesco [...]
56 Gavino Cherchi (1911-1945).
57 Ines Bedeschi (1911-1945).
58 Alceste Benoldi (1909-1945).
59 P. Beltrame Quattrocchi, Relazione sul nucleo di Parma della missione Nemo. 22 luglio 1945. Il testo si trova in: F. Gnecchi Ruscone, Missione Nemo, Mursia, Milano 2011, pagina 164.

Pier Luigi Guiducci, Uno 007 insospettato: Padre Paolino Beltrame O.S.B. (1909–2008). Un uomo tenace e coraggioso che, tra le altre cose, probabilmente ispirò a Guareschi la figura di Don Camillo, ottobre 2019 in Storico.org

Il Servizio Informazioni Militari nel marzo 1944 infiltra nell’Italia occupata dai tedeschi una missione denominata Nemo Op. Sand II. Obiettivo: trasmettere notizie militari, industriali e politiche all’Intelligence britannica per affiancare gli alleati nella Campagna d’Italia nella salvaguarda di bacini idroelettrici, impianti industriali e neutralizzare cellule nemiche di spionaggio. La coordina il capitano di corvetta Emilio Elia. In un’operazione complessa e ad alto rischio non potevano mancare gli alpini. La rete articolata in sette gruppi ha al comando il capitano Riccardo De Haag, una penna nera che opera col nome di copertura “Alpino”. ANA

Nel giugno ‘44 giunse a Roma l’810° Italian Service Squadron inserito nella Special Force “e da quel momento iniziò la trasformazione che doveva preludere alla nascita della Franchi. Era la risposta del SIM badogliano all’intelligence del CLNAI che aveva rifiutato collaborazioni e conformità di lavoro col governo del Sud e le sue diramazioni monarchiche” [41]. […] In questo schema di “regolarizzazione” dei vertici del CLN, nel novembre 1944, in concomitanza con la missione al Sud dei dirigenti Sogno, Parri, Pizzoni e Pajetta (che dovevano accordarsi con il governo del Sud per il proseguimento della Resistenza nell’Italia di Salò), il comandante di stato maggiore di Cadorna, Vittorio Palombo (già referente della Missione Oro che riceveva gli ordini da De Han e da Agrifoglio), insistette per sostituire Enzo Boeri, che si trovava al comando del servizio informativo del CLN, con l’agente della Calderini e suo uomo di fiducia Aldo Beolchini Bianchi [46], più gradito ai britannici, Beolchini fu però arrestato l’8/2/45 e Boeri mantenne l’incarico fino al suo arresto avvenuto il 27/3/45 [47]. […] All’inizio di febbraio 1945 l’Ispettorato Speciale di PS arrestò diversi dirigenti del CLN triestino: tra essi don Edoardo Marzari (presidente e cassiere del Comitato) ed il capitano Ercole Miani del Partito d’Azione. Fu arrestato anche Giuliano Girardelli, definito “fiduciario del comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, incaricato a Trieste di funzioni ispettive sul Comitato di Liberazione Giuliano” in un verbale dell’Ispettorato, dove leggiamo anche dell’arresto dell’“emissario angloamericano, capitano di corvetta Podestà Luigi” e di “altri individui figure secondarie dell’organizzazione stessa” [59]. […] Locardi sostiene che l’arresto di Girardelli sarebbe stato causato dall’arresto del suo “capo diretto”, cioè un “genovese” che si faceva chiamare Nicoletti e anche Carlo e che “dice di avere frequentato il corso dell’Intelligence service, di avere lavorato a Roma prima della liberazione della città, di avere passato a piedi le linee nemiche e di essere arrivato a Milano. Da lì è provato che sia giunto a Trieste in auto con due membri del CLN persone conosciutissime”. Il vero nome di Nicoletti era Luigi Podestà, e fu arrestato il 6 febbraio, però, secondo Locardi, Girardelli non sarebbe stato compromesso dalle sue dichiarazioni ma da quelle di don Marzari “il quale ha parlato abbondantemente facendo nomi e precisando (segue una parola illeggibile, n.d.a.)”. Nel verbale dell’interrogatorio reso da Giuliano Girardelli Giardino agli agenti di Collotti [63] leggiamo che l’arrestato dichiarò di conoscere da diversi anni Riccardo De Haag, identificato come “il triestino che a Milano era l’organizzatore della cosiddetta rete Nemo” e che alcuni mesi prima gli aveva presentato un certo “Nicoletti” che “so appena da ora che si chiami Podestà Luigi e dopo cioè che mi è stata mostrata la sua carta d’identità in questo Ufficio”. Girardelli spiegò che De Haag gli aveva presentato anche don Marzari “il quale mi venne riferito si stava occupando per l’Italianità di Trieste. Col Don Marzari ho avuto alcuni colloqui durante i quali ebbi a parlare con lui dei pericoli slavo-comunisti incombenti su Trieste e la possibilità di eliminare questo pericolo con una decisa azione”. Solo una volta, ammette l’interrogato, egli prese parte ad una seduta del Comitato di Liberazione Nazionale e precisamente ad una “riunione tenutasi in una casa di via Crispi, abitazione del Ing. Ponzo [64], presenti pure il De Hag (De Haag, n.d.a.), Nicoletti, Don Marzari, Miani, un signore di cui sconosco l’identità ma che si diceva Socialista, pure altro signore che credo appartenente al Partito d’Azione ed io. A detta seduta non era presente il padrone di casa Ing. Ponzo. L’argomento, motivo della riunione, era l’Italianità di Trieste ed il pericolo Comunista su di essa incombente. (…) Col Nicoletti parlai poi in altre occasioni dell’opportunità di trovare ed organizzare degli uomini atti a difendere l’Italianità della città nel momento dell’eventualità che si verificasse l’abbandono di questa da parte delle truppe tedesche”. […] Nell’ottobre del 1943, poco dopo l’occupazione nazista [66], si costituì un primo CLN, del quale facevano parte esponenti del Partito d’Azione (Gabriele Foschiatti), del Partito Comunista (Zeffirino Pisoni), del Partito Socialista (Edmondo Puecher), della Democrazia Cristiana (Giovanni Tanasco) e del Partito Liberale (Silvano Gandusio); i primi quattro furono arrestati nel dicembre del 1943 e deportati a Dachau, dove morirono Foschiatti e Pisoni. “Durante i primi mesi del 1944 languiva a Trieste l’attività clandestina”, scrive l’azionista Giovanni Paladin [67], spiegando che erano attivi solo il Partito comunista ed il Partito d’Azione; dove l’attività di quest’ultimo comprendeva, ad esempio, nel febbraio 1944 la pubblicazione di un documento (attribuito ad Ercole Miani), nel quale si auspicava come “soluzione al problema giuliano” una “UNITÀ ECONOMICA DELLA REGIONE GIULIA, DAL TAGLIAMENTO ALLE ISOLE ISTRIANE DEL CARNARO” e l’istituzione di un “porto franco” per Trieste [68]. Questo documento avrebbe ispirato, secondo quanto scrive Paladin [69], il progetto di “Trieste città libera” di cui parleremo tra un po’ […] All’inizio di dicembre arrivarono a Trieste, inviati “dal CLNAI per mandato di Nemo”, Riccardo De Haag e l’ex cappellano militare don Paolino Beltrame Quattrocchi (le due “persone conosciutissime” di cui scrisse Locardi nella relazione precedentemente citata), il quale scrive che “dopo avere accompagnato a destinazione una missione informativa giunta da Roma, composta dal comandante Podestà e da altro ufficiale di marina presiedemmo entrambi, per tre giorni, le sedute del CLN triestino, raggiungendo conclusioni di particolare importanza” [85]. […] Va qui inserito quanto riferisce il tenente colonnello Antonio Fonda Savio (futuro comandante di piazza del CVL triestino al momento dell’insurrezione), e cioè che il “9 dicembre i rappresentanti giuliani del Partito d’Azione, del Partito socialista, del partito democristiano e del Partito liberale si radunavano a Trieste, con l’intervento dei delegati del CLNAI”; in questo incontro “riaffermavano alcuni basilari principi programmatici”, cioè: “principio dell’unità d’Italia; principio del reciproco rispetto delle nazionalità italiana e slava (…); principio della necessità di un’autonomia regionale tale da non pregiudicare il principio dell’unità nazionale; principio dell’istituzione di un emporio a Trieste, aperto a tutte le bandiere” [86]. Notiamo che tra i “basilari principi programmatici” non è inserita la lotta al nazifascismo. Don Paolino Fulvo, responsabile della maglia di Parma della Nemo, era stato inviato già a novembre e dicembre 1943 a Trieste e Fiume “onde indagare e riferire sulle attività di quelle zone”. Riassumiamo qui una relazione firmata dalla rete Nemo, intitolata “situazione triestina” e datata Roma 27/2/45, che fu inviata a Roma al SIM tramite una missione che vide protagonisti don Paolino e De Haag [101]. La relazione inizia dicendo che nel dicembre del ’44 alcuni partiti (DC, PLI, Partito d’Azione) “si accordarono per svolgere a Trieste una comune politica di italianità rimandando a dopo la guerra il conseguimento delle loro finalità ideologiche”. A tale scopo redassero un rapporto scritto e ne inviarono copia ai loro rappresentanti presso il CLN triestino (da quanto leggeremo più avanti si può supporre che questo “accordo” si realizzò dopo le riunioni del CLN presiedute da don Paolino e De Haag). Claudia Cernigoi, Alla ricerca di Nemo. Una spy- story non solo italiana su La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo, supplemento al n. 303, Trieste, 2013

Fonte: Istoreco

Nei giorni dell’Armistizio il capitano Ghisetti è a Roma, sempre al servizio del prefetto Testa; assume subito dopo la carica di vice commissario ai trasporti dell’Urbe, dedicandosi in particolare all’assistenza degli operai rastrellati dai tedeschi ed inviati a lavorare nelle retrovie. La sua perfetta conoscenza del tedesco e la sua ritrovata amicizia con il colonnello Eugen Dollmann, che a Roma funge da tramite di Himmler con Mussolini, gli consentono di agire con grande libertà di azione.
In questo periodo entra in contatto con gli agenti dell’OSS. Secondo il suo stato di servizio militare, dal 25 settembre 1943 entra a far parte della formazione partigiana Nemo, assumendo la qualifica di “partigiano combattente», con il nome di battaglia di Tau […] Dalla sua sede di Milano Ghisetti (il partigiano Tau) continua a dare il suo contributo alla «Missione Nemo Op Sand II, del comandante Emilio Elia (Nemo) che dipende dal Servizio informazioni dello stato maggiore dell’esercito italiano (Gruppo speciale), comandato dal maggiore Marchesi. Ne fanno parte inoltre il maggiore degli alpini, Riccardo De Haag (Alpino), il capitano dei carabinieri, Giorgio Manes (Fiore) e il maggiore dei carabinieri, Anacleto Onnis (Zio). Essa comunica direttamente con il quartiere Alleato di Caserta mediante una radiotrasmittente nascosta in un magazzino di mobili usati a Saronno, alla quale è addetto l’aviere scelto marconista, Carlo Manzoni. Ad un certo punto, alla «Missione Nemo» si unisce un ufficiale inglese dell’Intelligence Service, il maggiore Page.
Su sollecitazione degli americani Ghisetti si rivolge sempre più spesso a Dollmann per liberare prigionieri alleati o semplici cittadini. Clamoroso è il caso del maggiore Stallo (un agente alleato), che viene liberato sempre grazie a Dollmann; per una serie di contrattempi la Brigata nera arresta un altro agente segreto (Palazzo, che viene sottoposto a tortura perché riveli lo scopo della missione. Viene arrestato anche il professor Guzzoni, che aveva fornito l’automobile a Palazzi e tutta una serie di complici. Ancora una volta, grazie all’intervento di Tau presso Dollmann, vengono tutti liberati.
Nei giorni concitati della Liberazione, Ghisetti si incontra più volte a Milano con Dollmann: «Il 23 aprile ho visto il capitano Ghisetti. Sempre riservatissimo, mi ha esortato in tono addirittura drammatico, a nome del cardinale Schuster, ad adoprarmi per la pace, giacché si teme che Wolff non possa far troppo, per non esporre a pericoli la famiglia in Germania. Lei invece non ha famiglia ha esclamato; ha aggiunto che la gratitudine mi sarebbe stata dimostrata come avessi voluto».
Ghisetti è presente nell’Arcivescovato anche il 25 aprile quando Mussolini in persona incontra i membri del Comitato di liberazione e dove scopre che da tempo i tedeschi stanno trattando la resa.
Secondo alcune fonti, sembra anche che Ghisetti sia coinvolto, per conto dell’OSS, nelle operazioni di quei giorni del capitano alleato Emilio Daddario che porteranno alla resa di Graziani e alla tentata liberazione di Mussolini.
In questo caso però siamo nel campo delle ipotesi; d’altro canto stiamo parlando sempre di servizi segreti.
Nel dopoguerra, come promesso, tutte le persone che hanno aiutato Ghisetti verranno ricompensate: uno per tutti Dollmann che, nel dicembre del ’45, si trova a Milano, dopo essere «fuggito» da un campo di concentramento di Rimini. Dollmann telefona a Ghisetti, che lo incontra sul sagrato del Duomo di Milano. Ghisetti segnala la presenza di Dollmann, fornito di documenti falsi intestati a Giulio Cassani, a monsignor Bicchierai; grazie all’intervento del cardinale Schuster, il dottor Cassani trova ospitalità alla villa Fiorita di Brugherio, quello stesso istituto per cura delle malattie mentali che, durante il periodo di oppressione nazi-fascista, aveva nascosto ricercati politici e perseguitati razziali.
Ricordiamo che Dollmann, colonnello delle SS, arrestato a Roma nel ’46 verrà ancora una volta liberato grazie agli americani e che non subirà mai alcun processo.
Anche la figlia del duce farà ricorso a Ghisetti, nel dopoguerra, e su suo suggerimento si allontanerà da Milano due giorni prima della visita a casa sua della polizia, che la cercava per il trafugamento della salma di Mussolini. Ghisetti rimane in servizio in forza al controspionaggio come ufficiale di collegamento con il CIC americano e l’ISLD inglese, fino al 28 febbraio 1947. Dal suo foglio matricolare, però, risulta che resta alle dipendenze del controspionaggio di Milano fino al settembre 1959, per poi essere messo in congedo. Nel dopoguerra, ha lavorato con una società svizzera di Turismo, la Hotelplan. Suo nipote Pietro precisa che lo zio era amministratore delegato ed azionista della società Hotelplan Italia, con il 49 percento delle azioni; l’altro 51 percento era detenuto dalla società Svizzera Migros. “Probabilmente tale incarico – afferma il nipote – gli serviva da copertura per il suo incarico militare».
Ugo Pellini, Giuseppe Cancarini Ghisetti. Il partigiano combattente dei servizi segreti, in RS, Ricerche Storiche, Rivista semestrale di Istoreco (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Reggio Emilia), Anno XL, n° 105, aprile 2008

 

Parma: Duomo
Fonte: Mapio.net

[…] Il caso di Parma è un esempio di resistenza ad ampia latitudine: nel senso che Parma, anche per la sua collocazione geografica, fu al centro di azioni clandestine e “sovversive” provenienti da lontano e dirette lontano. La città, com’è noto, divenne fulcro di azioni coraggiose, sia individuali sia costruite su una regia complessa. La città rappresenta quindi una storia di partigiani in sinergia coi servizi alleati, di analisti in incognito, di organizzazioni spionistiche clandestine, di militari e civili che dissero il loro “no” alla Repubblica di Salò pur restando al loro posto.
Ma Parma è anche una storia di preti e di religiosi impegnati con passione civile a tenere le fila di reti informative e di salvezza per la liberazione della città e dell’Italia. La storia della rete “Nemo”, di cui Parma fu una delle più importanti sezioni di Intelligence, non è nuova, anzi è stata diffusamente trattata. Essa nacque dall’Office of Strategic Services (OSS, l’agenzia americana antesignana della CIA) e si radicò proprio nel cuore della Repubblica Sociale Italiana fin dal marzo del 1944. A tesserne le fila era il Capitano di Corvetta della Regia Marina, Emilio Elia, sbarcato da un “Mas” a Punta Corona, nelle Cinque Terre vicino Monterosso, la notte del 18 marzo 1944. Elia mostrò di sapersi ben muovere soprattutto nel parmense e nel milanese, e di saper ben scegliersi i suoi uomini. Iniziò così l’avventura della rete “Nemo”, che fu organizzata in sei ramificazioni, di cui Parma e Milano furono le più importanti per la raccolta delle informazioni, la sorveglianza dei movimenti dei nazifascisti, per le comunicazioni in cifra di notizie vitali e urgenti, e per dare aiuto a chi era in fuga, preparando documenti falsi per chiunque ne avesse bisogno.
“Nemo” significa anche pagine di storie personali di Parma, tra cui una vecchia conoscenza del Comandante della Nemo Elia: ovvero don Paolino Beltrame Quattrocchi, monaco benedettino dell’Abbazia di San Giovanni, già Cappellano militare in Croazia, con un fratello, don Tarcisio, anche lui benedettino impegnato come cappellano in Marina. Figli di Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi (primo e sinora unico esempio di coniugi beatificati insieme), i due religiosi si sarebbero dimostrati assai determinanti nel mantenere in piedi la rete (la c.d. “maglia”) della “Nemo” a Parma. Da cappellano militare don Paolino aveva fatto base a Fiume, presso il Comando del 23° Settore del Regio Esercito, dov’era arrivato nell’aprile del 1941. Si era nel pieno dell’emergenza per il massiccio afflusso dal confine orientale italiano di ebrei provenienti dalla vicina Jugoslavia, fuggiti dopo l’attacco delle truppe dell’Asse, e soprattutto dopo l’avvento degli “ustascia” in Croazia. Nelle carte di don Paolino leggiamo che, proprio a partire da allora «si impegnò a più riprese, d’intesa e in concorso con ufficiali del R. Esercito e con funzionari della Questura di Fiume, a occultare e trasferire clandestinamente in Italia (dove ancora non vigevano le leggi razziali) intere famiglie di ebrei, dalle zone di Carlovac, Gospic, Ogulin, Otocac, Plaski, Pago, per sottrarli alla feroce persecuzione anti-semita del Governo di Pavelic e degli Ustasha».
La menzione dei contatti fra don Paolino Beltrame Quattrocchi e i «funzionari della Questura di Fiume» nelle operazioni di assistenza agli ebrei ex jugoslavi evoca il nome del commissario di Pubblica Sicurezza che dirigeva l’ufficio stranieri di quella Questura: Giovanni Palatucci. Don Paolino non ne fa il nome, ma gli elementi emersi dalle carte fanno supporre contatti sistematici con il commissario di Montella, dichiarato “Giusto tra le Nazioni”, così svuotando di senso le sterili polemiche sul suo presunto “collaborazionismo”.
Ma proseguiamo con la narrazione. La sera del 24 maggio 1943, venne a cena nella casa romana dei Beltrame Quattrocchi un personaggio ben noto a don Paolino e a don Tarcisio. Era don Emanuele Caronti, Abate generale della congregazione cassinense di prima osservanza (poi detta “sublacense”) e già Abate al Monastero di San Giovanni a Parma. La visita di Caronti rientrava nella normale consuetudine della cerchia di amici e conoscenti di casa Beltrame Quattrocchi; ma la mattina don Caronti si era recato all’Ordinariato Militare, incontrando don Tarcisio. Solo un incontro di circostanza, questo? Solo una visita di cortesia, quella dai Beltrame? Del resto, i tempi bui e gli eventi successivi (soprattutto dopo lo sbarco in Sicilia e la caduta di Mussolini) avrebbero conferito ai contatti con l’abate di Subiaco ben altri importanti significati.
Sei giorni dopo la caduta di Mussolini, il 31 luglio 1943, don Tarcisio Beltrame aveva fatto fece ritorno a Roma da Parma. Era andato a trovare il fratello, e recava con sé certi plichi e lettere. Che la guerra continuasse anche con Badoglio era incerto, e il futuro lo era ancor di più. Comprensibile quindi la preoccupazione di Maria Beltrame, espressa nelle lettere al figlio Paolino. Si tratta di una corrispondenza a tratti sorprendente, anche con raccomandazioni all’apparenza incomprensibili: «Ti raccomando – scrive Maria a don Paolino il 5 gennaio 1944 – di non tenere a portata di mano di tutti i ragazzi che potranno venire a giocare in camera tutti quei libri e giochetti che portasti da Subiaco». Che senso poteva avere una tale raccomandazione nella ferrea clausura benedettina? Quali libri e quali giochetti procuratisi a Subiaco don Paolino doveva sottrarre a mani e sguardi indiscreti? Maria Beltrame usava delle perifrasi o dei “codici”?
Una lettera di don Paolino da Firenze, datata 16 febbraio 1944, forse chiarisce il mistero. «Tarcisio dovrebbe procurarmi un’altra ventina di quei fogli stampati a Subiaco – scriveva don Paolino alla madre – che potrei avere per ½ [sic] di don Igino, con tutti gli allegati; presumo non avrò tempo di andare a Subiaco, dovrebbe andare subito [sottolineato nel manoscritto, ndR] procurandomeli, sicché io li trovi a Roma. Possibilmente, se ce ne sono, anche cartoline illustrate di Subiaco».
Da una successiva lettera di Maria Beltrame del 1° marzo 1944 apprendiamo che probabilmente don Paolino non passò più da Roma; si capisce comunque che altre lettere gli sarebbero state inviate dalla Capitale. Contenevano, queste lettere (inviate non per posta ma tramite corrieri fidati), ciò che don Paolino aveva chiesto da Subiaco?
E cos’erano i fogli stampati, gli allegati e le cartoline che don Paolino aveva chiesto da Subiaco, per mezzo di un certo don Igino? Questi altri non era che don Igino Roscetti, parroco della Cattedrale di Sant’Andrea di Subiaco. Si tratta di un personaggio assai interessante, al centro di un traffico di falsi documenti stampati presso il locale Monastero di Santa Scolastica, un luogo con una plurisecolare tradizione nel campo della stampa di altissima qualità. Ebbene, fra le carte di don Igino Roscetti abbiamo trovato la conferma che, oltre ad aver questi aiutato (con una rete locale che, in Subiaco occupata dai nazisti, faceva capo addirittura agli uffici comunali e a vari personaggi di spicco, fra i quali l’Abate di Santa Scolastica don Simone Lorenzo Salvi) molti ebrei e ricercati locali a sfuggire dalle grinfie dell’occupante nazista, egli era anche in contatto diretto con don Tarcisio Beltrame Quattrocchi, non a caso incaricato dal fratello, nel febbraio 1944, di procurarsi da Roscetti dei «fogli stampati». Si trattava quasi sicuramente di modelli di carte d’identità, di lasciapassare e altri documenti che la stamperia benedettina di Subiaco riusciva a falsificare alla perfezione.
Quest’attività di falsari, peraltro molto utile alla Rete “Nemo”, mirava a salvare vite umane anche a Parma. Nelle carte dell’OSS riguardanti l’organizzazione “Nemo” vi è la conferma che quei documenti erano talmente ben contraffatti da essere addirittura migliori degli originali; una raffinatezza che all’epoca solo certi monasteri benedettini potevano vantare.
Va tuttavia sottolineata una circostanza. Don Paolino Beltrame Quattrocchi non era un “falsario” di primo pelo. Egli aveva procurato documenti falsi già in precedenza, e in particolare dopo l’otto settembre. La notizia dell’armistizio di Cassibile lo aveva sorpreso a Roma mentre si trovava in licenza. E a ridosso di quei tragici eventi (presumibilmente fra l’8 e l’11 settembre 1943) don Paolino aveva chiesto a Subiaco la fornitura di un certo quantitativo di «breviari Caronti» (altra espressione in codice) e di altro materiale utile alla falsificazione di documenti e di vari lasciapassare, carte annonarie ecc.
Qui la cronologia è importante. Forse fu proprio dopo aver ottenuto quel materiale che, fra il settembre e l’ottobre del 1943, don Paolino svolse almeno tre importanti missioni da Parma a Fiume, sua vecchia sede di servizio, facendosi aiutare anche da funzionari della questura parmense (è nota la figura di Emilio Cellurale), da ufficiali del Regio Esercito (come il Maggiore Max Casaburi) e dal Presidente del Tribunale Speciale di Parma (il Gen. Griffini), al fine di trasferire intere famiglie ebraiche verso l’interno dell’Italia o verso la Svizzera, «sotto falso nome, con documenti d’identità falsi e riuscendo anche a rifornirli di carta annonaria e spesso di denaro» (questo narrano le carte di don Paolino). L’operazione coinvolse anche Milano, dove il benedettino poteva contare su sicuri amici, come Riccardo De Haag, su importanti referenti laici e religiosi e soprattutto sul cardinale Ildefonso Schuster. Don Paolino rischiò anche l’arresto da parte dei tedeschi, riuscendo a riparare a Trieste grazie all’amico colonnello Ponzo. Tornò a Parma non prima di aver adempiuto la sua missione di salvataggio per cui stava rischiando la vita.
A Parma (come a Milano) tuttavia non c’era solo la “Nemo”. Gli stessi personaggi spesso erano in altre reti, ognuna con una sigla, con una storia e con precisi referenti. La rete “Nemo”, diretta da Elia, fu un validissimo ausilio per l’avanzata degli Alleati dal sud della penisola. «A Parma contattai don Paolino Beltrame Quattrocchi (alias “Fulvo”), una mia vecchia conoscenza, il cui coraggio ho altamente apprezzato. – racconta Emilio Elia nel suo rapporto di “fine missione” – E attraverso “Fulvo” ho incontrato il Capitano Riccardo De Haag (alias “Alpino”), il quale fin dal principio ha dato un magnifico contributo al nostro lavoro. Fulvo mi ha quindi introdotto a una persona in contatto con il CLN, così permettendomi di incontrare alcuni membri del partito liberale, incluso il Barone Rinaldo Casana il quale, a sua volta, mi ha introdotto al Colonnello Artesani, al Colonnello Elmo, al prof. Borroni e ad alcuni altri. In tal modo fui in grado di ottenere le prime informazioni che, per il tramite di Alpino e del Sottotenente Guido Tassan (alias “Corriere Primo”), furono recate a Pisa e trasmesse da Urbano». Ma Parma ricorda anche i nomi di don Giuseppe Cavalli, di don Ennio Bonati (“Gabbiano”), di Giovanni Vignali (“Bellini”) e di Giampaolo Mora (“Daino”). Alla memoria del già citato Casaburi (nome in codice “Montrone”), la città ha dedicato un gruppo scout e una via. Fra l’altro, Casaburi fu anche impegnato in un’altra missione segreta della “X Mas” in difesa della Venezia Giulia; per riconoscerlo, il suo “contatto” (il Capitano di Marina Antonio Marceglia) ricevette la frase in codice «Fulvo è arrivato e sta bene». E “Fulvo” altri non era che don Paolino.
Una storia di reti e di intrecci, dunque. Nella rete clandestina, a Parma come a Milano, ci furono anche altri preti, fra cui degli scout (come don Tarcisio, fratello di don Paolino Beltrame Quattrocchi). La storia delle “Aquile randagie”, l’organizzazione scout antifascista segnalatasi per molte operazioni di soccorso agli ebrei grazie alla rete Oscar (Opera Scoutistica Cattolica Aiuto Ricercati), meriterebbe molte pagine. Non ci stupirebbe ritrovare in qualche archivio delle “Aquile” timbri e carte intestate per documenti falsi di espatrio. E’ una storia, questa, che da Parma si dipana verso Milano (tramite don Paolino e il Cardinale Schuster) e poi verso la Svizzera, e che, oltre alle “Aquile”, chiama in causa altri personaggi: a Parma sorella Luisa Minardi della Croce Rossa (oblata benedettina proclamata “Giusto tra le Nazioni”), don Ennio Bonati e il senatore Giampaolo Mora; a Milano don Andrea Ghetti, don Enrico Bigatti e don Giovanni Barbareschi, coordinati da Giulio Uccellini, capo delle “Aquile Randagie”.
Per i «fogli stampati» a Subiaco, per i cosiddetti «breviari Caronti», per le azioni “corsare” e clandestine, i protagonisti di questa storia rischiarono la vita (e in alcuni casi la persero, come avvenne per Max Casaburi e altri). Ma la rete informativa che si dipanò fra Parma e Milano, e sparsa altrove, funzionò e salvò vite umane. Don Paolino e don Tarcisio Beltrame Quattrocchi furono i protagonisti di questa storia di salvezza: una storia cui potrebbe dare ulteriore slancio il progetto (che abbiamo ancora allo studio, ma che già si avvale della liberalità di Francesco Beltrame Quattrocchi, nipote dei due monaci benedettini) di digitalizzare e rendere pubblicamente consultabili, in ossequio alle leggi archivistiche, le carte di famiglia.
Redazione, Intelligence ecclesiastica tra Parma e Milano, The Vatican Files.Net