Tentò di organizzare uno scambio per salvare la vita dei condannati

Mario Brusa Romagnoli – Fonte: Mauro Ravarino, art. cit. infra

Prima di quel sibilo feroce, di quella scarica di mitra che lo lasciò a terra, le sue ultime parole furono: “Viva l’Italia libera”. Mario, nome di battaglia Nando, meccanico aggiustatore, non aveva neanche 19 anni, li avrebbe compiuti un mese dopo. Era un partigiano delle formazioni autonome, precisamente la VII Monferrato guidata da Gabriele e Sergio Cotta, ex ufficiali dell’esercito regio. Il 30 marzo 1945 morì a Livorno Ferraris sotto le raffiche di un plotone di esecuzione fascista (Rau, reparto arditi ufficiali).
La sua lettera ai familiari, davvero commovente, è conservata nel libro Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi). Scrisse: “Papà e Mamma, è finita per il vostro figlio Mario, la vita è una piccolezza, il maledetto nemico mi fucila: raccogliete la mia salma e ponetela vicino a mio fratello Filippo. Un bacio a te, Mamma cara, Papà, Melania, Annamaria e zia, a Celso un bacio dal suo caro fratello Mario che dal cielo guiderà il loro destino in salvo da questa vita tremenda. Addio. W l’Italia”. Si firmò Mario-Nando e aggiunse: “Mi sono perduto alle ore 12, alle 12 e 5 non ci sarò più per salutare la vittoria”.
Apparve per la prima volta su “Libero Monferrato” (giornale clandestino della Resistenza), il 21 aprile ’45. Mario Oberdan Brusa Romagnoli è stato insignito medaglia d’argento al valor militare. Anche due dei suoi fratelli morirono in guerra. Uno, Teobaldo, torturato e ammazzato dai nazifascisti e un altro, Filippo, soldato del regio esercito, ferito, dopo una notte all’addiaccio e senza soccorsi spirò per una broncopolmonite. Riposano tutti e tre in una piccola tomba nel cimitero di Villamiroglio, Monferrato casalese.
“Un luogo della memoria da salvare”. Lo dice Marilena Vittone, storica, che insieme a Maria Teresa Pozzo ha raccontato le vicende di Mario e dei suoi fratelli nel libro Moncestino e dintorni, 1940-46 (Le Mani, 2007), edito dall’Istituto Storico della Resistenza di Alessandria (Isral). “Anche i luoghi parlano, spiega Vittone, anche quelli più isolati e dimenticati. Con il passare del tempo e la scomparsa dei testimoni solo lapidi e monumenti restano a ricordare la Resistenza. A Vallegiolitti (piccola frazione di Villamiroglio), tra le colline, la tomba dei fratelli Brusa resta a tramandare la memoria partigiana. Istituzioni e Anpi dovrebbero recuperarla e segnalarla in un Sentiero della Libertà che tra natura e storia va dalla Rocca di Verrua a Gabiano Monferrato. Qui visse Giuseppe Brusasca, riconosciuto Giusto tra le Nazioni nel 1969”.
A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia è interessante ricordare come la Resistenza sia stata considerata, a partire dall’interpretazione di Luigi Salvatorelli, un secondo Risorgimento. Mentre la patria dopo l’8 settembre’43 era divisa e occupata dai tedeschi, alcuni giovani decisero di unirsi e lottare per la sua indipendenza. E nel suo nome morirono. Molti si arruolarono nelle brigate partigiane che sorsero sulle montagne del Piemonte e più tardi sulle colline del Monferrato. Tra la pianura vercellese e le colline del Po operava la “Monferrato”, protagonista con le sue brigate di azioni importanti per la Resistenza piemontese.
“Abbiamo voluto intervistare, spiega Marilena Vittone, che ha raccolto con pazienza per due anni la storia della gente monferrina, chi subì rastrellamenti e incendi, deportazione e fame”. Nel libro è Melania Brusa a raccontare la storia di suo fratello Mario: “Fu scelto, insieme ad altri tre, dal comandante e mandato a Livorno Ferraris per bloccare un treno di soldati tedeschi che transitava lungo la ferrovia Torino-Milano. L’azione di sabotaggio riuscì; furono fatti scendere i militi nazisti. Ma uno, ubriaco, sparò e ferì Mario ad una gamba. I nazisti poterono così disperdersi per la campagna. Mario fu aiutato dai suoi compagni e caricato su un calesse. Si rifugiò in una cascina; qui sarebbe dovuto arrivare un camion partigiano per portarlo all’ospedale di Cocconato.
Una donna fece la spia. I fascisti della “Monterosa” lo catturarono e con lui Francesco Bena di Crescentino, Vittorio Suman di Caresanablot e Giuseppe Gardano di Trino. Facevano parte della Divisione Patria. I quattro partigiani furono condotti al municipio di Livorno Ferraris e presto fucilati. Mario, in realtà, per le leggi di guerra avrebbe potuto salvarsi perché ferito. Invece, nonostante il dolore, tentò di organizzare uno scambio per salvare la vita dei condannati. Ma non andò in porto, e lui volle morire con i suoi compagni. Sorretto da loro, si recò al plotone di esecuzione cantando l’inno d’Italia.
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Mauro Ravarino, Mario Brusa Romagnoli, eroe della Resistenza piemontese, Piemontese.it

Fonte: Mauro Ravarino, art. cit.

Mario ha 18 anni. Viene dal Molise, s’è trasferito a Torino con la sua famiglia. Fa il meccanico. E’ nel fiore della vita.
Dopo l’armistizio entra nel movimento di liberazione, aggregandosi, con il nome di battaglia “Nando”, alle Bande Pugnetto. Opera nell’entroterra ligure e sulle montagne piemontesi. Ferito in combattimento, viene arrestato, ma riesce a fuggire.
Viene di nuovo ferito (ad una gamba) nel corso di un’azione che lui stesso comanda. Nonostante l’infermità, partecipa ai successivi combattimenti.
Durante l’assalto ad un convoglio ferroviario tedesco sulla linea Milano-Torino, tra Brianzé e Livorno Ferraris (29 marzo 1945), è ferito per la terza volta, gravemente. Tre compagni lo portano in un covo. Ma nel corso della notte, i quattro vengono scovati da alcuni elementi del Rau, Reparto arditi ufficiali.
Imprigionati a Livorno Ferraris (Vercelli), vengono processati e condannati a morte. Melania Brusa, sorella di Mario, in un libro racconta la storia di suo fratello: “Fu scelto, insieme ad altri tre, dal comandante e mandato a Livorno Ferraris per bloccare un treno di soldati tedeschi che transitava lungo la ferrovia Torino-Milano. L’azione di sabotaggio riuscì; furono fatti scendere i militi nazisti. Ma uno, ubriaco, sparò e ferì Mario ad una gamba. I nazisti poterono così disperdersi per la campagna. Mario fu aiutato dai suoi compagni e caricato su un calesse. Si rifugiò in una cascina; qui sarebbe dovuto arrivare un camion partigiano per portarlo all’ospedale di Cocconato. Una donna fece la spia. I fascisti della “Monterosa” lo catturarono e con lui Francesco Bena di Crescentino, Vittorio Suman di Caresanablot e Giuseppe Gardano di Trino. Facevano parte della Divisione Patria. I quattro partigiani furono condotti al municipio di Livorno Ferraris e presto fucilati. Mario, in realtà, per le leggi di guerra avrebbe potuto salvarsi perché ferito. Invece, nonostante il dolore, tentò di organizzare uno scambio per salvare la vita dei condannati. Ma non andò in porto, e lui volle morire con i suoi compagni. Sorretto da loro, si recò al plotone di esecuzione cantando l’inno d’Italia”.
La mattina del 30 marzo Mario Brusa Romagnoli è condotto con i tre compagni in piazza Vittorio Emanuele II (oggi piazza Galileo Ferraris) a Livorno Ferraris (VC) e fucilato da un plotone d’esecuzione composto da militi del Rau.
Nelle poche righe che scrive su un pezzo di carta e lascia nelle mani del prete locale, che gli si avvicina prima della fucilazione, c’è la dignità forte di un ragazzo molisano di Guardiaregia, il quale, insieme agli altri compagni partigiani, grida “Viva L’Italia” davanti al plotone d’esecuzione.
“Papà e Mamma, è finita per il vostro figlio Mario, la vita è una piccolezza, il maledetto nemico mi fucila; raccogliete la mia salma e ponetela vicino a mio fratello Filippo. Un bacio a te Mamma cara, Papà, Melania, Annamaria e zia, a Celso un bacio dal suo caro fratello
Mario che dal cielo guiderà il loro destino in salvo da questa vita tremenda. Addio. W l’Italia – scrive Mario.
Mancano appena 26 giorni al 25 aprile.
Americani e partigiani libereranno l’Italia dopo pochi giorni. Sarà come una nuova primavera per il nostro Paese che avrebbe scelto la Repubblica, adottato una Costituzione e garantito il pluralismo democratico che si fonda sulla divisione dei poteri.
Della famiglia Brusa Romagnoli, Mario non è stato il solo caduto per la libertà. Altri due suoi fratelli, Filippo di 24 anni e Teobaldo di 18, si sacrificano seguendo gli insegnamenti del padre Giuseppe Brusa che, negli anni della dittatura, per sfuggire ai fascisti, lascia il Piemonte e si trasferisce in Molise, dove incontra la molisana Nicolina Romagnoli, che sarà sua moglie.
A Mario Brusa Romagnoli (un cui scritto è riprodotto nel volume della Einaudi “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”) è intitolata una scuola a Guardiaregia. Nel sessantesimo della Liberazione, nel 2005, un suo fratello, nato nel dopoguerra e al quale è stato imposto lo stesso nome del partigiano ucciso (celebre doppiatore), è tornato in Molise per presenziare alle celebrazioni.
Mario Oberdan Brusa Romagnoli è stato insignito medaglia d’argento al valor militare. Le sue spoglie, come quelle dei due fratelli, riposano in una piccola tomba nel cimitero di Villamiroglio, Monferrato casalese.
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Redazione, Anniversario del 25 aprile: nel segno di Mario Brusa, Forche Caudine, 24 settembre 2019

Di anni 18. Nato il 12 maggio 1926 a Guardiaregia (Campobasso). Di professione Meccanico aggiustatore. Giovanissimo, si trasferisce con i familiari a Torino. Dopo l’armistizio entra nel movimento di liberazione, aggregandosi, con il nome di battaglia “Nando”, alle Bande Pugnetto, operanti nelle montagne del Genovese. Ferito in combattimento, viene arrestato, ma riesce a fuggire. Unitosi alla Formazione Mauri, uno dei primi gruppi della Divisione autonoma Monferrato, è nuovamente colpito (ad una gamba) nel corso di un’azione che è lui stesso a comandare. Nonostante l’infermità, partecipa ai successivi combattimenti nella zona di Brusasco-Cavagnolo (25 marzo 1945) e all’assalto di un convoglio ferroviario tedesco sulla linea Milano-Torino, tra Brianzé e Livorno Ferraris (29 marzo 1945). Ferito per la terza volta, ed in modo molto più grave delle precedenti, al termine della missione tre compagni si incaricano di portarlo in un posto sicuro. Quella stessa notte tuttavia, i quattro sono scovati da alcuni elementi del RAU (Reparto Arditi ufficiali) in ricognizione. Imprigionati a Livorno Ferraris (Vercelli), sono immediatamente processati e condannati a morte. A nulla servono i tentativi del comando partigiano di effettuare uno scambio di prigionieri. La mattina del 30 marzo Mario Brusa Romagnoli, Francesco Bena, Giuseppe Gardano e Vittorio Suman sono condotti in Piazza Vittorio Emanuele II (oggi Piazza Galileo Ferraris) e fucilati da un plotone d’esecuzione composto da militi del RAU.
Igor Pizzirusso, Mario Brusa Romagnoli (Nando), Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana