Togliatti avrebbe cambiato ripetute volte, negli ultimi mesi di guerra, posizione sulla questione di Trieste

La missione di Pellegrini inizia nella Trieste occupata dai partigiani sloveni, in una posizione di rappresentanza del Pci presso un partito, quello giuliano, che nel 1944 – dopo aver perso i principali dirigenti: Luigi Frausin, Natale Kolarich, Vincenzo Gigante – è passato sotto il controllo dei comunisti sloveni, con l’assenso del precedente rappresentante del Pci, Vincenzo Bianco. Egli opera da un lato per riconquistare il terreno perduto da parte del Pci, dall’altra per imporre ai comunisti di nazionalità italiana, – soprattutto istriani – di evitare rotture irrimediabili (ed umanamente rischiose) con i compagni sloveni. Nel corso della riunione di Capodistria dei comunisti dell’Istria nordoccidentale, Pellegrini interviene ben diciannove volte – ma invano – per convincere i riottosi compagni locali ad accettare l’unificazione con gli sloveni ed a rinunciare tatticamente alla loro volontà di rimanere aderenti al Pci <59.
Sull’altro fronte, quello degli sloveni che rivendicavano tutto il loro territorio etnico alla Jugoslavia, la situazione non era meno difficile, manifestandosi innanzitutto nei tempestosi “confronti-scontri” verbali fra Giacomo Pellegrini – temporaneamente ospite del KPS – e Boris Kraigher, durante i quasi tre mesi dell’estate 1945 passati sotto il medesimo tetto, nella ex Villa Alessi, in via Ginnastica 72, a Trieste.
Ero l’unico traduttore sempre a portata di mano: poiché spesso capitava di dover tradurre a notte fonda, al ritorno di Kraigher da Lubiana, dopo aver partecipato a qualche riunione dell’Ufficio politico del FPS. Egli era per temperamento molto impaziente e se “qualcosa lo tormentava” non riusciva quasi mai a trattenersi ed attendere il mattino per “aggredire” Pellegrini, rappresentante della Direzione del PCI a Trieste.
Le tenzoni verbali – che nessuno verbalizzava – vertevano su tutto ciò che divideva i due partiti.
Da parte di Kraigher l’attenzione era, allora, rivolta essenzialmente al problema dei confini: egli accusava continuamente il PCI di essere troppo tiepido e di non dare tutto l’aiuto che sarebbe stato in grado di poter dare all’azione politico-diplomatica della dirigenza jugoslava per ottenere dei “giusti” confini <60.
Nelle sue sfuriate con Pellegrini, Kraigher rinfacciava a dirigenti del Pci triestino (Frausin, Zocchi, Pratolongo, Massola e Maria Bernetič) di aver cercato di impedire a Vincenzo Bianco di far giungere alla Direzione Pci del’Alta Italia le direttive contenute nella lettera di Togliatti del 5 maggio 1944 (che dava indicazioni resistenziali coerenti con la linea jugoslava), in quanto queste contraddicevano la linea del Pci locale e quella del Clnai. Bianco poté raggiungere Milano, accompagnato da Frausin, solo dopo che Longo e Secchia avvertirono i triestini di essere d’accordo con loro.
Dal canto suo, Pellegrini rendeva pan per focaccia muovendo delle accuse precise e circostanziate al KPS, partendo dalla constatazione che la riservatissima compilata da Bianco era il massimo che il KPS poteva, in quel momento, attendersi dal PCI sul problema giuliano, tenendo presenti le posizioni del CLNAI nonché quelle di alcuni esponenti del PCI, specie nella zona.
Pertanto – secondo Pellegrini – si può benissimo comprendere come sia venuto a mancare ogni reale interesse, da parte del FPS, di aver un plenipotenziario del PCI, presente sul posto. Anzi, oggi ci risulta chiaro – sottolineava Pellegrini – che dopo la riservatissima, la cosa migliore per il KPS sarebbe stata l’ibernazione dei rapporti PCI-KPS come configurati nella stessa. Aggiungendo, inoltre, che sicuramente proprio per questa ragione non si era giunti alla sostituzione di Bianco con un altro plenipotenziario, malgrado che a questo incarico fosse stato designato, fin dalla fine di febbraio del 1945, Umberto Massola. Se poi – sottolineava Pellegrini – teniamo presente che l’organo competente del KPS aveva perfino trascurato di informare – come sarebbe stato suo dovere – la Direzione del PCI della “faccenda Bianco”, in connessione con la Mariuccia, siamo costretti a ritenere che il KPS considerava più utile ed opportuno di qualsiasi altra iniziativa non rispondere – o rispondere con estrema lentezza – ai solleciti del PCI e con la scusa di assicurare a Bianco l’incolumità personale, tenere questi, di fatto, a “domicilio coatto” presso il 9° Korpus, impedendogli, col pretesto di proteggerlo, qualsiasi movimento indipendente e, nello stesso tempo, rendendo impossibile la venuta di chi doveva sostituirlo. Cosicché – continuava Pellegrini – il KPS aveva di proposito tenuto il PCI lontano, in particolare da Trieste, nei momenti più cruciali della Liberazione. Non ci meraviglierebbe – concludeva Pellegrini – se un giorno venissimo a sapere che il KPS ha avuto una parte non secondaria nel “fabbricare” il “caso Bianco”. Comunque, è certo che anche se il KPS non ha avuto alcuna parte in questa “faccenda”, certamente ne ha largamente approfittato essendo maturata nel momento più propizio per il KPS.
Le tutt’altro che velate “accuse” di Pellegrini, avevano fatto infuriare Kraigher, il quale si era lasciato andare ad una congerie di rinfacciamenti all’indirizzo di Togliatti, imputandolo, in particolare, di aver cambiato ripetute volte, negli ultimi mesi di guerra, posizione sulla questione di Trieste, oltreché su quella della Slavia italiana e di Gorizia con il suo retroterra, abbandonando completamente le iniziali prese di posizione coerenti con lo sviluppo della guerra di liberazione del popolo sloveno e con gli obiettivi da questa perseguiti. Comunque – a parere di Kraigher – quanto specificato nella riservatissima era il minimo che dal punto di vista rivoluzionario e progressista, avrebbe dovuto fare il PCI <61.
[NOTE]
59 Paolo Sema, Siamo rimasti soli. I comunisti del PCI nell’Istria Occidentale dal 1943 al 1946, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2004, p. 78.
60 Ursini-Uršič, cit., p. 2.
61 Ursini-Uršič, cit., pp. 281-282 e 308-312.
Gian Luigi Bettoli, Roma, Trieste, Venezia: Giacomo Pellegrini dirigente del Pci e parlamentare, tra guerra e dopoguerra, Convegno “Giacomo Pellegrini, una vita al servizio del popolo”, Associazione Culturale “La Rinascita”, Udine, Sabato 15 febbraio 2014

Dall’altro lato, in ambito militare, veniva decretata la costituzione dei battaglioni italofoni presenti in una brigata Garibaldi (classificazione politico-militare delle brigate partigiane sotto autorità politica del CLNAI che indicava quelle che facevano politicamente riferimento al PCI) chiamata “Trieste”, la cui attività sarebbe stata controllata congiuntamente dal Comando generale delle Brigate Garibaldi con sede a Milano e dal IX Korpus dell’Osvobodilna Fronta (“Fronte di Liberazione”, equivalente sloveno del già citato ZAVNOH), il quale avrebbe provveduto a fornire alla “Trieste” supporto militare, logistico e preparatorio <60. La “Trieste” avrebbe operato dunque in territori in cui era già presente e attivo il IX Korpus, il quale, oltre a fornire preparazione e materiali ai suoi effettivi, ne avrebbe coordinato l’azione in parallelo con un vertice organizzativo militare del PCI che, al contrario di esso, non aveva un effettivo controllo immediato del territorio e aveva uno spettro di competenze territoriali molto più ampio, ragion per cui la periferica Garibaldi “Trieste” sarebbe rimasta sotto il controllo totale del Fronte di Liberazione sloveno.
Nel suo rapporto di commento inviato al Comitato Centrale del PCI insieme al testo dell’accordo, il delegato Francesco Leone lamentò tale risultato come negativo, in quanto avrebbe significato una perdita di controllo pressoché totale da parte del partito sui suoi affiliati di tali territori, consegnandone di fatto il controllo politico agli organismi militarizzati del KPS.
[…] Di conseguenza la già citata colpevolizzazione del PCI non era un semplice processo autogeno, ma trovava condivisione anche all’interno di quadri direttivi del ramo sloveno del KPJ, e poteva essere utilizzata per delegittimare qualunque pretesa di assertività del PCI in fase di trattativa <62. Un risultato della difficoltà per il PCI di rivendicare la propria partecipazione sul territorio, non avendo elaborato modalità rivendicative territoriali astratte dalla categoria interpretativa di nazionalità, fu proprio il passaggio de facto delle truppe partigiane italofone nel territorio di frontiera italo-sloveno sotto il controllo del IX Korpus, benché – come Leone ricordò – la delegazione italiana avesse premuto per specificare nel testo dell’accordo che le formazioni partigiane italiane dovessero combattere accanto a quelle slovene, non dentro di esse.
Dall’analisi del volontarismo internazionalista emerge dunque come, anche per quanto riguardava la coordinazione di propaganda e arruolamenti per la guerra di Spagna, l’azione dei due partiti si svolgesse in parallelo, separatamente e senza particolari occasioni di azione comune. La cooperazione tra comunisti identificantisi come di nazionalità italiana e omologhi facenti riferimento a livello ideologico, linguistico e culturale alle sezioni slovena e croata del Partito Comunista Jugoslavo aveva luogo soprattutto nella quotidianità di opposizione clandestina all’interno di un contesto definito e spazialmente delimitato.
Abbiamo già visto dalla casistica delle sentenze del Tribunale Speciale quanto spesso si verificassero, a lato dei raggruppamenti di militanza sulla base dell’identificazione linguistico-culturale, situazioni in cui comunisti di nazionalità italiana si unissero a loro compagni di identificazione politica che si percepivano come di nazionalità slovena o croata: molto raramente le organizzazioni colpite dal TSDS, facessero esse riferimento politico al PCI o al KPJ, erano omogenee nell’identificazione nazionale dei loro appartenenti.
Nell’ottica della sovrapposizione delle forme d’identificazione della comunità italiana dell’Istria che in seguito sarebbe rimasta a vivere nella nuova Jugoslavia, il dato assume un significato importante ai fini della lettura degli avvenimenti posteriori. Le concettualizzazioni delle tre forme d’identificazione locale, nazionale e politica per la comunità di nazionalità italiana che prese parte alla guerra partigiana, come avremo modo di concettualizzare, cambiarono con la partecipazione al movimento resistenziale, esprimendosi in nuove forme attraverso nuove letture della nozione d’identificazione, centrate sulla cooperazione, pur senza mancanza di conflittualità in un contesto di cambiamento politico e socioeconomico totale. Già nel periodo della comune opposizione clandestina al fascismo, in ultima analisi, i comunisti di nazionalità italiana si trovarono a praticare di fatto un’identificazione territoriale istriana attraverso un’azione su un territorio che era l’ambiente spaziale della loro quotidianità, mentre subordinavano alla base ideologica dell’identificazione come comunisti e internazionalisti l’identificazione nazionale italiana, promossa dal regime come fondamento normativo del suprematismo nazionalista su cui fondare la sua concettualizzazione d’italianità, attraverso la creazione di attività di lotta insieme a chi di questa concettualizzazione era la prima vittima: le popolazioni jugoslave dell’Istria, che il regime voleva estranee e rese subalterne per legge.
[…] Nella lettera del 15 settembre 1944 all’attenzione dell’allora segretario del KPS Edvard Kardelj, Bianco sottolineò come «il successo e la realizzazione di un sacrosanto diritto del popolo sloveno e della lotta che da tre anni conducono i popoli della Jugoslavia» non avrebbe comunque dovuto portare il KPS a non tenere in conto gli accordi di collaborazione stretti nel precedente mese di aprile con il PCI. Il delegato lamentò infatti di non aver potuto informare per tempo il segretario Palmiro Togliatti e il Comitato Centrale del PCI della recente riorganizzazione territoriale dell’OF, che aveva coinvolto anche le truppe di stanza nella regione a nordovest della penisola istriana, già nota come Litorale sloveno (Slovensko Primorje) all’interno del discorso pubblico sloveno e della stessa terminologia politica del KPS: erano infatti state organizzate suddivisioni regionali per l’amministrazione militare dei corpi d’armata partigiani sloveni, e i battaglioni italofoni erano stati inclusi insieme al IX Korpus nel Comitato Regionale di liberazione popolare del Litorale sloveno <63.
Temendo la possibilità di un imminente sbarco alleato a Trieste, benché le evoluzioni della situazione bellica stessero gradualmente portando le forze dell’AVNOJ a guadagnare terreno sull’invasione nazista, il KPS stava spingendo per garantirsi che la città e i suoi dintorni ricadessero sotto la sua autorità militare in vista della fine della guerra. In tal modo Bianco, in una lettera classificata come riservatissima inviata a Togliatti due giorni dopo quella per Kardelj, mentre da un lato sosteneva che i progetti di annessione sloveni non avrebbero contribuito a far apprezzare tra la popolazione italiana le istanze dello stesso KPS che esercitava un controllo totale anche sui battaglioni partigiani italiani dei dintorni di Trieste, dall’altro lato mostrava come il KPS avesse già preparato piani dettagliatissimi per l’annessione del capoluogo giuliano, tanto che i suoi esponenti dell’OF erano ormai arrivati a dichiarargli apertamente che rinviare a dopo la fine della guerra la discussione sulla pertinenza dei territori a nazionalità mista avrebbe fatto il gioco dell’imperialismo <64.
Il 17 ottobre 1944, sulla base di quanto riportato da Bianco, fu lo stesso Comitato Centrale del PCI a scrivere al suo omologo sloveno e alla di questi segreteria, rimproverando la mancanza di considerazione degli accordi di aprile e rivendicando l’opportunità di rimandare a dopo la guerra le discussioni confinarie, richiamando addirittura ai principi ortodossi dell’internazionalismo il partito sloveno.
[NOTE]
60 Ivi, ff. 2-4. Pallante, Il P.C.I. e la questione nazionale, cit., pp. 115-121.
62 Pallante, Il P.C.I. e la questione nazionale, cit., pp. 85–91.
63 AIG, fondo Archivio Mosca, “Jugoslavia e Venezia Giulia”, 133/215, 34/46, f. 1.
64 AIG, fondo Archivio Mosca, “Jugoslavia e Venezia Giulia”, 133/215, 34/32, ff. 1-2.
Francesco Maria Mengo, La minoranza italiana in Istria: localismo, nazionalità e costruzione di un’identificazione jugoslava, Tesi di dottorato, Universitat Pompeu Fabra, Barcelona, 2017

Nell’’ottobre del 1943, poco dopo l’’arrivo dei nazisti, si costituì a Trieste il primo Comitato di Liberazione Nazionale del quale facevano parte esponenti del Partito d’’Azione (Gabriele Foschiatti), del Partito Comunista (Zeffirino Pisoni), del Partito Socialista (Edmondo Puecher), della Democrazia Cristiana (Giovanni Tanasco) e del Partito Liberale (Silvano Gandusio); molti dirigenti di questo CLN vennero arrestati nel dicembre del 1943 e deportati a Dachau, dove morirono Foschiatti e Pisoni.
Successivamente si costituì un altro CLN, che comprendeva gli stessi gruppi politici; secondo le direttive del CLNAI <1, questo secondo CLN avrebbe dovuto cercare contatti e collaborazioni con l’’Osvobodilna Fronta-Fronte di Liberazione, nel quale militavano sia sloveni sia italiani collegati al IX Korpus dell’Esercito di Liberazione jugoslavo. Ma nel luglio del 1944 il CLN triestino si spacca: i comunisti ne escono perché gli altri rifiutano la collaborazione con le componenti slovene. Nel settembre successivo vengono arrestati diversi esponenti del CLN, ma anche molti esponenti comunisti, come Luigi Frausin.
In conseguenza di ciò in settembre a Milano i rappresentanti dell’’OF disdicono i loro accordi con il CLNAI: questo fatto porterà poi allo scioglimento del secondo CLN.
Nell’’ottobre del 1944 si forma quindi il terzo CLN, composto dal Partito d’’Azione, dal Partito Socialista, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Liberale: questo CLN non aveva rapporti con il CLNAI, che, anzi, invitava i triestini che volevano lottare contro il nazifascismo a collaborare e ad aderire al IX Korpus <2.
[NOTE]
1 Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.
2 Tale invito era contenuto nel manifesto “Alle popolazioni italiane della Venezia Giulia”, diramato dopo la riunione di Milano dell’’8-9 giugno 1944.
Claudia Cernigoi, Luci e ombre del CLN di Trieste, dossier de “La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo”, 16 marzo 2012

Fiume

Per tutto il ventennio fascista – seppur nella difficile condizione della clandestinità -, il Partito Comunista d’Italia denunciò i soprusi e le persecuzioni contro gli slavi, mantenendo rapporti non solo con i comunisti sloveni e croati ma anche con gli ambienti nazionalisti socialmente più avanzati. La tradizione internazionalista era talmente radicata, che neppure la sanguinaria pulizia etnica fascista era riuscita a distruggerla; aveva comunque posto premesse, che furono poi sfruttate a fondo dai nazional-comunisti jugoslavi. Ma prima, questi ultimi dovettero eliminare ogni voce di dissenso.
Nel 1942, a Fiume alcuni militanti comunisti, tra cui Giacomo Rebez <4, avevano costituito un organismo che si definì Partito Comunista Internazionale, sostenendo la lotta di liberazione degli jugoslavi, in particolare dei croati. Dopo il 25 luglio 1943, si fecero strada le rivendicazioni territoriali – di cui si fecero portavoce i partiti comunisti sloveno e croato -, riguardanti, oltre al litorale istriano-dalmata, con Fiume e Zara, anche il territorio giuliano, con Trieste e Gorizia.
Nell’estate del 1943, la Federazione comunista di Trieste, pur sostenendo l’unità di lotta contro il nazifascismo, avanzò una posizione internazionalista, contrapponendo il concetto di autodeterminazione dei popoli (enunciato fin dal 1915 da Lenin) alle annessioni per mezzo delle armi, come avrebbero fatto i titini.
Fautore dell’auto-determinazione era il segretario regionale Luigi Frausin <5, che ebbe il sostegno di Natale Kolarich <6; entrambi, nel giro di qualche mese, furono assassinati dai nazifascisti, probabilmente in seguito a delazioni interessate <7. Con loro scomparvero anche Lelio Zustovich <8 – fucilato nell’ottobre 1943 dai nazional-comunisti croati -, Zeffirino Pisoni <9 , Giacomo Silvestri <10 e altri militanti internazionalisti, anarchici, libertari nonché disertori dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia.
Da parte sua, il PCI, per evitare l’accusa di nazionalismo, uscì dal Comitato di Liberazione Nazionale della Venezia Giulia e prospettò – obtorto collo – l’adesione delle province giuliane (oltre Istria e Dalmazia) alla futura Jugoslavia socialista. Compiuta l’epurazione politica dei comunisti dissidenti, con il tacito assenso del PCI, i nazional-comunisti jugoslavi poterono avviare la pulizia etnica contro gli italiani. Furono colpite soprattutto le persone più o meno compromesse con il regime fascista, ma ci furono vittime anche tra i proletari. L’esito fu un clima di accesi odi nazionalisti, che trovarono consenso solo tra gli strati rurali più arretrati; il proletariato invece fu frantumato, perdendo ogni ombra di autonomia politica.
Alla campagna xenofoba dei nazionalcomunisti jugoslavi, quelli italiani risposero con una campagna altrettanto xenofoba quando, nel luglio 1948, con una rapida giravolta, il PCI si adeguò al diktat sovietico contro Tito, divenuto «lacché dell’imperialismo USA», nonché «trotzko-fascista».
[NOTE]
4. Di Rebez è disponibile una breve testimonianza sulla sua attività nel PCd’I, in GIACOMO REBEZ, Votazione quasi segreta, Centro di Ricerche Storiche Rovigno, «Quaderni», vol. III, 1973, p. 422.
5. Luigi Frausin (Franz), nato a Muggia (Trieste) il 21 giugno 1898, carpentiere. Dirigente di primo piano del movimento operaio triestino, nel 1921 sostenne la fondazione del PCd’I. Perseguitato dal governo fascista, nel 1927 fu costretto a emigrare; nel 1933, rientrato in Italia, fu arrestato, incarcerato e poi confinato. Tornato in libertà nell’agosto 1943, partecipò alla lotta contro i nazifascisti nella Venezia Giulia. Arrestato per una delazione, fu trucidato dai tedeschi nel settembre del 1944. GALLIANO FOGAR, Trieste in guerra. Società e Resistenza 1940-1945, Irsml-Fvg, Trieste 1999, passim.
6. Natale Kolarich (Bužo), nato a Muggia (Trieste) il 24 dicembre 1908, calzolaio. Esponente del PCd’I; come Frausin, fu internato dal 1932 al 1943. Arrestato dai nazi-fascisti, fu fucilato nella Risiera di San Sabba (Trieste) il 18 giugno 1944. GALLIANO FOGAR, Trieste in guerra. Società e Resistenza 1940-1945, op. cit., passim.
7. I retroscena dell’uccisione dei comunisti triestini e istriani, emersero nel 1948, nel corso di un processo a carico alcuni esponenti titini del movimento sindacale triestino, che non avevano saputo adeguarsi al nuovo corso, Disertori alla sbarra, «Battaglia Comunista», a. IV, n. 43, 7-14 dicembre 1948. La vicenda fu successivamente approfondita: La questione Frausin e il partigianesimo nella Venezia Giulia, Ibidem, a. V, n. 43, 16-23 novembre 1949. Cfr. la documentazione fornita da ROBERTO GREMMO, La fondazione del “Partito Comunista Internazionale” a Fiume nel 1942 ed i contrasti fra Togliattiani e Titini, «Storia Ribelle», n. 2, Primavera 1996, p. 97. Cfr. anche PATRICK KARLSEN, Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955, Università degli Studi di Trieste. Scuola dottorale in Scienze Umanistiche, Università degli Studi di Trieste, Anno accademico 2007-2008, Realatore Chiar.ma Prof. Anna Maria Vinci, pp. 18 e ss.
8. Lelio Zustovich, fin dal 1921 era uno degli esponenti comunisti più in vista nel circondario di Albona d’Istria; organizzatore della prima resistenza ai tedeschi, fu arrestato dal servizio di sicurezza del movimento partigiano croato e poi fucilato (e «infoibato»), come «nemico del popolo». GALLIANO FOGAR, Trieste in guerra. Società e Resistenza 1940-1945, op. cit., p. 121.
9. Zeffirino Pisoni nacque a Calavino (Trento), il 26 agosto 1873; si trasferì poi a Trieste, era insegnante elementare. Da giovane, fece parte della corrente austromarxista del Partito Socialdemocratico Austriaco. Nel 1921 aderì al PCd’I; durante il Ventennio fu arrestato ed escluso dall’insegnamento. Scrisse un opuscolo in cui denunciava lo sciovinismo fascista. Nel luglio 1943 concordò con Giacomo Silvestri la formazione del Comitato dei partiti antifascisti italiani a Trieste. Nel gennaio 1944 fu arrestato e internato a Dachau, dove morì, il 18 gennaio 1945. GALLIANO FOGAR, Trieste in guerra. Società e Resistenza 1940-1945, op. cit., pp. 152-153. ACS, CPC, busta 4011.
10. Giacomo Silvestri nato a Trieste nel 1902, era impiegato comunale. Membro del CLN triestino, combatté nella brigata Garibaldi-Trieste. Nel novembre 1944 fu arrestato, senza alcuna motivazione, da partigiani sloveni del IX Corpus e consegnato all’OZNA (Odeljenje za Zaštitu NAroda – Dipartimento per la protezione del popolo), che lo fucilò. GALLIANO FOGAR, Trieste in guerra. Società e Resistenza 1940-1945, op. cit., pp. 23 e 142. ACS, CPC, busta 4810, fascicolo 037879.
Dino Erba, Nella linea di faglia tra Est e Ovest. Venezia Giulia, Istria e Dalmazia: alle radici della violenza nazionalista, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2012

Il 28 settembre Giuseppe Bettiol, deputato democristiano e docente universitario originario di Cervignano del Friuli, teneva un intervento paradigmatico e introduttivo di molti dei contenuti di quello che sarebbe stato il discorso pubblico italiano, e in particolare democratico cristiano, su Trieste. Un «giuliano che vive le sue ormai lunghe ore di passione», così si presentava all’uditorio della Camera, che ha il «glorioso e doloroso privilegio proprio delle genti di confine di trovarsi ogni 25 anni di fronte alla dura necessità di ricostruirsi un’esistenza per fatti e avvenimenti che incidono sulla sua terra. Ed è questo destino che deve essere finalmente spezzato» <138.
Bettiol riconosceva la necessità di ammettere le «terribili colpe» del fascismo per la politica snazionalizzatrice condotta nei confronti degli slavi e indicava altresì la completa controtendenza della linea direttiva della politica estera democristiana, volta all’accordo democratico con la Jugoslavia, alla concordia e al recupero della tradizionale amicizia tra popoli italiani e slavi delle zone di confine. Sul fronte opposto però, segnalava facendo malcelato riferimento alle posizioni comuniste, vi erano «certi gruppi dell’interno» responsabili di aver indotto i giuliani di origine italiana verso una frattura con lo Stato, incoraggiandoli «ad accogliere come liberatrici le truppe del Maresciallo d’oltre Adriatico. E i triestini le accolsero realmente come liberatrici, salvo cambiare opinione». Bettiol faceva riferimento all’appello ai lavoratori di Trieste inviato da Togliatti il 1° maggio 1945, al tempo dell’ingresso dell’esercito titino a Trieste cui sarebbero seguiti i noti quaranta giorni di occupazione jugoslava della città.
Dalle pagine de «L’Unità» il segretario del Partito Comunista aveva di fatto esortato i «fratelli dell’Italia settentrionale» ad accogliere i soldati di Tito come liberatori, a collaborare con essi nel riscatto della città da tedeschi e fascisti e a evitare ogni atto provocatorio che potesse «seminare discordia tra il popolo italiano e la Jugoslavia democratica» <139. L’appello ebbe larga eco nella stampa di quel maggio ‘45, e rimase a lungo nella memoria dei detrattori della linea politica comunista su Trieste, esempio fra i tanti del conflitto ideologico che andava condizionando la politica italiana del pluripartitismo e in modo particolare la politica estera, interessata dalle interferenze delle diplomazie internazionali.
«Non si deve dimenticare quanto i socialisti, i liberali, gli azionisti e i democratici cristiani hanno operato per far sì che quella regione, la quale sotto le sue bianche pietraie custodisce le ossa dei morti della prima guerra mondiale, sia italiana e rimanga italiana», ricordava Bettiol richiamando, a sostegno del suo ragionamento, quella memoria nazionale che legava a doppio filo Trieste con lo spartiacque rappresentato dalla Grande guerra, “quarta guerra d’indipendenza” del Risorgimento italiano e compimento dell’istanza irredentista per la Venezia Giulia. La città adriatica, “redenta” e ricondotta nel grembo della madre patria, era infatti assurta a emblema di quella partecipazione collettiva alla guerra europea che fu la prima esperienza nazionale e patriottica di massa per milioni di italiani e «l’ultimo atto compiuto della classe dirigente liberale per completare l’edificio dello Stato unitario» <140.
[NOTE]
138 CN, intervento di Giuseppe Bettiol (DC), seduta del 28 settembre 1945, p. 49.
139 P. Togliatti, Il Partito Comunista Italiano ai lavoratori di Trieste, «L’Unità», 1 maggio 1945. Cfr. anche M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 286-287 e A. Agosti, Togliatti, Utet, Torino, 1996, p. 306.
140 E. Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 84-85.
Vanessa Maggi, La città italianissima. Usi e immagini di Trieste nel dibattito politico del dopoguerra (1945-1954), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Anno Accademico 2018-2019

Una aperta condanna del nazionalismo dunque, che, nelle manifestazioni per Trieste italiana, avrebbe potuto trovare nuovo vigore e tradursi in qualcosa di pericolosamente vicino al fascismo. Con questo intervento di Togliatti si apriva la serie degli articoli che “L’Unità” avrebbe dedicato alla questione triestina, con posizioni nettamente differenti da quelle sostenute sulle colonne de “Il Popolo”, con cui spesso si sarebbe arrivati allo scontro aperto.
Dalle colonne de “L’Unità” non si risparmieranno le critiche ai giornali italiani accusati di fornire notizie distorte di ciò che accadeva in questi giorni in Jugoslavia: nel numero di mercoledì 11 aprile 1945 le accuse erano rivolte a un articolo comparso su “Ricostruzione”, in cui si dava notizia dell’ondata di violenze riservata da Belgrado contro quelli che “L’Unità” definiva i “fascisti italiani: “Dunque “Ricostruzione” mente. Perché? Considera forse poco importante, se non addirittura increscioso, che i nazisti vengano cacciati dall’Istria e da Trieste? O vuole portare la sua pietra alla sinistra baracca di provocazione che si sta montando con dimostrazioni e lanci di bombe (che sono sempre provocazioni fasciste da qualunque parte vengano) per creare un’atmosfera torbida in Europa attraverso una visione acuta tra l’Jugoslavia e l’Italia. Nessuna meraviglia che a Belgrado si reagisca contro il risorgente nazionalismo il quale si manifesta, a Roma, nelle colonne dei giornali e nelle strade con bugie, strilli e schianti di bombe. E quelli che aiutano più o meno inconsciamente fascismo sostenendo, anche con le menzogne, questo disuso pericoloso nazionalismo, farebbero assai meglio a imparare dal popolo jugoslavo come si conduce una guerra di liberazione nazionale e come si agisce per distruggere il fascismo e liquidare i fascisti. Tutti fascisti, aperti o mascherati che siano”. <414 Nello stesso articolo erano inoltre presenti delle velate accuse contro le tesi con cui Guido Gonella apriva solitamente i suoi editoriali sulla questione di Trieste: “Osservazione che stona maledettamente dopo certe recentissime stupefacenti difese della amministrazione coloniale fascista. O come quella in cui – di fronte al fascismo – vengono poste sullo stesso piano l’Italia e la Jugoslavia la quale pure avrebbe avuto i suoi fascisti in Stoiodinovic e Pavelic; quasi che la Jugoslavia rimproverasse a lui di essere stati oppressi dal fascismo e non, invece, di non agire per distruggere i fascisti e renderne impossibili i crimini, come appunto la nuova Jugoslavia ha esemplarmente fatto e noi non siamo stati capaci di fare. O ancora come quella in cui si pretende che la Jugoslavia si scagli contro i suoi compagni di lotta, il che è una bugia pura e semplice. <415
Si aggiungeva, sempre nello stesso numero, un secondo intervento contenente le dichiarazioni del capo della missione jugoslava a Roma, secondo il quale, i fascisti intendevano ostacolare l’avvicinamento tra il popolo italiano e i popoli jugoslavi. Il maggiore Koljensic affermava infatti con sicurezza che l’attentato commesso la sera del 7 aprile contro la sede della missione in via Garigliano fosse opera dei fascisti italiani, e che fosse solo l’ultimo di tutta una serie di azioni avverse alla Jugoslavia democratica federale, commesse dai fascisti nell’intento di ostacolare l’avvicinamento tra il popolo italiano e i popoli jugoslavi. Convinto che l’attività criminale dei fascisti recasse il massimo danno agli interessi del popolo italiano, e considerato che i problemi esistenti fra l’Italia e la Jugoslavia stavano trovando la loro soluzione nella giustizia, nell’equità e nello spirito delle grandi idee democratiche, il maggiore Koljensic auspicava che il popolo italiano trovasse la forza sufficiente per sbarazzarsi di tutto ciò che impediva lo stabilimento di rapporti amichevoli tra i popoli confinanti d’Italia e Jugoslavia, ovvero si liberasse di quei fascisti e imperialisti italiani che fino all’8 settembre del 1943 si erano resi colpevoli in Jugoslavia di molti delitti, e che ora liberi e indisturbati continuavano ad operare a Roma la loro criminosa attività”. <416
Sulla questione dei rapporti con la Jugoslavia “L’Unità” sarebbe tornata dopo una pausa di due settimane con un’intervista concessa dal compagno Negarville a Radio Roma. Dall’intervista emergeva nuovamente la velata critica verso gli articoli che nello stesso lasso di tempo venivano pubblicati sulle colonne de “Il Popolo”, accusati di non dare abbastanza peso al fatto che l’Italia avesse partecipato all’azione contro la Jugoslavia, che da questa guerra usciva vittoriosa e rafforzata nella sua posizione internazionale nonché nella sua struttura interna di nazione democratica. L’offesa recata al popolo jugoslavo dall’aggressione fascista era stata infatti così profonda da non poter essere facilmente dimenticata: la discriminazione dell’Italia antifascista dall’Italia fascista non era facile per un popolo che aveva conosciuto una così grande tragedia e sarebbe potuta avvenire solamente quando la democrazia italiana fosse riuscita a creare un clima di fiducia abbandonando definitivamente i metodi che ricordavano troppo da vicino quelli del nazionalismo e dell’imperialismo fascista.
[…] Anche in questi ultimi interventi era facile notare la vena polemica che animava gli articoli che “L’Unità” dedicava alla questione del confine orientale italiano. Si sarebbe tornati sull’argomento nel numero del 1 maggio 1945 in concomitanza con la liberazione della città di Trieste da parte dei partigiani del C.L.N e delle truppe guidate del maresciallo Tito. In questo numero veniva riportato un messaggio ai lavoratori di Trieste da parte della direzione del Partito Comunista d’Italia, in vista degli ultimi sforzi da compiere per la liberazione della città dal nemico nazifascista
[…] Gli articoli dei giorni successivi avrebbero taciuto sull’ ondata di violenza che aveva travolto Trieste con l’ingresso dei partigiani di Tito in città. L’unico accenno alla situazione triestina comparve in un articolo datato 4 maggio 1945 e intitolato “Contro i responsabili della catastrofe nazionale.” Nell’articolo si faceva riferimento alle manifestazioni del giorno prima per l’italianità di Trieste, alla cui conclusione si erano verificati atti di ostilità contro la sede del partito comunista di Roma. <419 Nel comunicato stampa la Direzione del Partito Comunista invitava tutti i compagni ad evitare ogni conflitto con quei cittadini che erano animati da un sincero sentimento nazionale, ma li invitava altresì, a respingere con energia ogni atto di violenza nazionalista e fascista diretta contro il Partito. <420 Qualora questi gruppi reazionari avessero continuato queste criminali manifestazioni contro il Partito Comunista, quest’ultimo si sarebbe riservato di chiamare il popolo a manifestare con energia il suo giusto risentimento per la catastrofe a cui stata portata l’Italia contro gli uomini e le istituzioni che di quella catastrofe avevano responsabilità diretta, e di cui l’Italia democratica non era ancora riuscita a liberarsi.
[NOTE]
414 Ineffabile stupore, “L’Unità”, anno XXII, n. 85, 11 aprile 1945.
415 Ineffabile stupore, “L’Unità”, anno XXII, n. 85, 11 aprile 1945.
416 Dichiarazioni del capo della missione jugoslava a Roma. I fascisti intendono ostacolare l’avvicinamento tra “Il Popolo” italiano ed i popoli jugoslavi, “L’Unità”, anno XXII, n. 85, 11 aprile 1945, p. 1
419 Inutili chiassate per le vie di Roma, “L’Unità”, Anno XXII, n.104, 4 Maggio 1945, p. 2
420 Contro i responsabili della catastrofe nazionale, “L’Unità”, Anno XXII, n.104, 4 Maggio 1945, p. 1
Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di Dottorato, Università di Cagliari, 2013

L’adesione nel settembre del 1945 del Partito Comunista della Regione Giulia alle posizioni jugoslave, aveva avuto per esempio come conseguenza l’irrigidimento delle rivendicazioni del cosiddetto “Fronte Italiano” che si rispecchiava nei partiti del CLN giuliano, il quale al suo interno stava vedendo la crescita progressiva del peso politico della DC, con la conseguente marginalizzazione della compagine socialista e di quella azionista.
Tale irrigidimento portò il CLN ad assumere linguaggi e programmi politici sempre più improntati sugli stilemi tipici dell’irredentismo, incentrati su concetti oppositivi, come quelli di «Civiltà-barbarie, Italia-antiItalia,  città-campagna, libertà occidentale-oppressione comunista», <26 fenomeno che i reparti informativi alleati vedevano in diretto collegamento con la creazione nel territorio di gruppi operativi paramilitari pronti ad entrare in azione per rendere fattiva la difesa dell’italianità della Venezia Giulia. <27
Tale atteggiamento ovviamente non è da leggersi come un dato provocato esclusivamente dai mutati equilibri internazionali, dal momento che anche la pressione esercitata dal governo italiano sugli attori locali giocò, come si vedrà più avanti, un ruolo fondamentale.
Quello che occorre rilevare in questa sede è però l’importanza che tale stato di cose ebbe nella configurazione delle strutture di potere anglo-americane nella Zona A, che furono costrette a imporsi una linea di netta imparzialità tra le forze in campo, che si tradusse in una progressiva riduzione degli spazi di partecipazione degli attori locali alla vita politica in città e nella compagine di governo del territorio. La situazione si fece ancora più critica in corrispondenza delle trattative diplomatiche in corso alla Conferenza di Pace di Parigi. Nel marzo del 1946 si verificò il momento di maggior tensione con l’arrivo nella Venezia Giulia della Commissione Alleata che aveva come compito quello di realizzare una relazione sulla situazione etnica, sociale e politica dei territori contesi, al fine di utilizzarla come documento neutrale in grado di guidare le decisioni circa la questione confinaria in sede di trattative di pace. L’intero viaggio della Commissione venne accolto da manifestazioni contrapposte e disordini in tutte le località toccate, che avevano visto protagonisti gli ambienti legati ai CLN locali e gli attivisti delle associazioni culturali jugoslave, che si erano impegnati ad organizzare partecipati cortei e adunate che dimostrassero ai delegati delle grandi potenze in visita l’adesione delle popolazioni locali alle rispettive tesi annessioniste. <28 Tali episodi si fecero termometro non solo dell’innalzamento dello scontro tra le parti contrapposte, ma anche dell’importanza assunta dalle piazze e dalla mobilitazione delle masse nella gestione politica attivata sul territorio dagli attori locali, facendo rilevare la sempre maggiore capacità organizzativa dei gruppi appartenenti al “Fronte italiano”. Se alla fine il viaggio della Commissione si risolse in un nulla di fatto, con le varie delegazioni che presentarono relazioni dalle conclusioni non sintetizzabili in una visione condivisa e unitaria, vista da un’altra prospettiva quell’esperienza segnò un momento decisivo per gli attori locali giuliani fedeli alla causa nazionale italiana, che si impegnarono, seguendo le direttive del governo, nell’affermare il proprio controllo e la propria azione propagandistica sul territorio, irrigidendo notevolmente i termini dello scontro con i propri competitor politici e lacerando ulteriormente il contesto locale.
[NOTE]
26 G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 131-132.
27 Franco Belci, Aspetti del dopoguerra in Friuli. Il «Terzo Corpo Volontari della Libertà», in «Nazionalismo e neofascismo nella lotta politica al confine orientale 1945-1975», a cura di Sergio Ranchi, IRSML, Trieste, 1977.
28 Sergej A. Tokarev, Trieste 1946-1947 nel diario di un componente sovietico della Commissione per i confini italo-jugoslavi, Del Bianco, Udine, 1995, N. Troha, Chi avrà Trieste?, cit., pp. 126-127. Alcune interessanti testimonianze sono poi raccolte nel volume di Gloria Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960, LEG-IRCI, Gorizia 1998, pp. 214-215.
Irene Bolzon, Fedeli alla Linea. Il CLN dell’Istria, il governo italiano e la Zona B del TLT tra assistenza, informative e propaganda. 1946-1966, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Udine, Anno Accademico 2013-2014