Tre anime azioniste

Il partito che rispecchiava le idee di Antonio Giuriolo e i suoi discepoli era il Partito d’Azione, del quale lo stesso fu uno dei fondatori e ispiratori; prendeva il nome dall’omonima formazione politica fondata da Giuseppe Mazzini nel 1853 e scioltasi nel 1867.
Il PdA nacque nel giugno del 1942 a Roma. Clandestinamente, s’intende, in casa di Federico Comandini. A tale riunione partecipò, tra gli altri, Antonio Giuriolo in rappresentanza degli azionisti vicentini <197.
Era un partito dalle molte anime, sorto dall’incontro di tre movimenti politici: Giustizia e Libertà, fondato a Parigi da Carlo Rosselli nel 1929; il movimento liberal-socialista di Guido Calogero e Aldo Capitini; e il gruppo democratico-liberale di Ugo La Malfa, Adolfo Tino e Ferruccio Parri. Tre “ali” azioniste, legate dall’obiettivo primario di sconfiggere il fascismo e liberare l’Italia da una dittatura che durava ormai da vent’anni.
Il programma iniziale del PdA, discusso nella casa di Comandini nei mesi antecedenti alla fondazione, era improntato su sette punti in particolare: la Repubblica; il decentramento amministrativo e un efficiente sistema di autonomie locali; la stabilità del potere esecutivo; la nazionalizzazione dei monopoli e la libertà d’iniziativa economica per le piccole imprese; il diritto di rappresentanza unitaria delle varie categorie in campo sindacale; una maggiore separazione tra Stato e Chiesa; una federazione europea come comunità giuridica fra Stati.
Un programma essenzialmente democratico, di ispirazione laica e socialista (con la presenza di Emilio Lussu), ma a forte caratterizzazione liberale (Ugo La Malfa). L’ultimo punto, a carattere europeista, si collega alla precedente esperienza mazziniana.
Gli azionisti avevano delineato quest’insieme di provvedimenti che avrebbero dovuto rilanciare e restituire credibilità ad un’Italia lacerata da vent’anni di fascismo. Il partito, con i suoi ideali e fondamenti, pareva perfetto in questo compito: è Ugo La Malfa, in un suo discorso del novembre 1944 nella sede del PdA della Capitale appena liberata dagli alleati, ad indicare nel Partito d’Azione l’unica possibile formazione politica in grado di cambiare la storia d’Italia: “In effetti se guardate lo schieramento dei grandi partiti italiani, come il partito democratico cristiano o il socialista o il comunista, voi trovate che essi si ispirano ad un motivo troppo astrattamente universalistico di vita politica e un fattore propriamente nazionale […] rimane un po’ estraneo a questi partiti” <198.
Il partito, che si richiama ai valori nazionali del Risorgimento e al suo ispiratore Giuseppe Mazzini, è comunque attento a non tralasciare una vocazione universalistica: “Voglio soltanto dire che nel Partito d’Azione mi pare di notare una concretezza per cui i valori nazionali si fanno valori universali e viceversa, una concretezza che compie il processo spirituale politico del paese” <199.
Convinzione comune era anche quella che esistesse un problema italiano, con le sue crisi istituzionali, l’immaturità morale della classe dirigente, la cronica debolezza economica e una burocrazia penalizzante. Andava creata una nuova élite politica, una classe dirigente in grado di risolvere tali problemi e di ricostruire il Paese italiano, non solo in via teorica, ma in senso strettamente pratico.
In questo senso, l’8 settembre 1943 si presentò agli occhi dei dirigenti del PdA come un’occasione irripetibile. Solo un fatto rivoluzionario avrebbe potuto stabilire una “netta linea di demarcazione fra il passato e l’avvenire”, il passaggio necessario da un paese corrotto e ottuso ad una vera e propria democrazia. Serviva quindi un Secondo Risorgimento, una Resistenza spontanea in grado di scrollarsi di dosso troppi anni di Dittatura dannosa, ingiusta e corrotta. Attraverso la lotta partigiana s’intendeva riconquistare quell’identità nazionale esaltata a modo suo dal fascismo, in realtà persa in un contesto di restrizioni e violenze.
Iniziò così la Guerra Civile, che “da un lato si inseriva in pieno all’interno dell’epocale guerra per la civiltà che stava solcando l’Europa, e dall’altro veniva sempre più configurandosi come guerra popolare attraverso cui sarebbe avvenuta la rigenerazione morale della nazione” <200.
Non era infatti un semplice conflitto tra due fazioni della stessa nazione per la presa del potere, quanto una guerra civile “europea”, quasi mondiale, dove si combatteva per sconfiggere il Male e i suoi seguaci. Una guerra che, secondo le parole di Norberto Bobbio, avrebbe potuto svegliare l’Italia da l’eterno torpore, non avendo mai conosciuto nessuna delle precedenti Rivoluzioni europee.
Il 5 settembre 1943, ancor prima dell’Armistizio, Ferruccio Parri, in una riunione di partito a Firenze, sosteneva la necessità di organizzare la lotta popolare armata contro il nemico nazi-fascista; in quei giorni infatti i soldati tedeschi stavano scendendo attraverso il Brennero, pronti ad approfittare del vuoto di potere che si stava creando in Italia.
Entrato a far parte pochi giorni dopo (9 settembre 1943) del Comitato di Liberazione Nazionale, il PdA organizzò le Brigate Partigiane, che successivamente prenderanno il nome di Brigate Giustizia e Libertà. Le formazioni GL erano da considerarsi “politiche” in quanto rappresentavano un particolare modo di intendere la guerra partigiana (possiamo chiamarlo politico rivoluzionario) contrapposto a quello dei reparti puramente “militari”. La guerra civile infatti doveva essere un’occasione di rilancio per l’Italia, un rinnovamento morale, sociale del paese, una rivoluzione democratica necessaria per “risvegliare” la coscienza del popolo italiano.
[NOTE]
197 Cfr. G. DE LUNA “Storia del Partito d’Azione. 1942-1947”,Roma, Editori Riuniti di Sisifo, 1997, p.27. Tale testo è molto utile per una visione generale della Storia del PdA.
198 Cfr. C. NOVELLI, “Il Partito d’Azione e gli italiani. Moralità, politica e cittadinanza nella storia repubblicana”, Milano, La Nuova Italia, 2000, p. 11; discorso di U. LA MALFA, da “La battaglia per l’unità democratica”.
199 Ibidem
200 C. NOVELLI, “Il Partito d’Azione e gli italiani. Moralità, politica e cittadinanza nella storia repubblicana”, Milano, La Nuova Italia, 2000, p. 78.
Andrea Menegante, Luigi Meneghello: un apprendista italiano. Un’esperienza politica dal regime fascista alla Repubblica, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012/2013

Dall’infaticabile e continua opera di attività antifascista sul territorio e dall’intesa con Guido Calogero prende vita, nel 1937, l’esperienza politica del liberalsocialismo come punto di aggregazione delle forze laiche, la cui funzione risulta tanto più importante per le traversie di Giustizia e Libertà. <25 Al movimento Capitini partecipa attivamente, pur non coincidendo la sua prospettiva con quella di Calogero e della maggioranza degli altri, e ne condivide le sorti: quattro mesi di carcere alle “Murate” di Firenze nel 1942, poi nuovamente recluso a Perugia fino alla caduta del fascismo. Per la sua persuasione movimentista rifiuta però la confluenza del liberalsocialismo nel Partito d’Azione e preferisce farsi da parte, autodefinendosi indipendente di sinistra: “«Uomo della sinistra» Capitini non sarà mai parte organica del movimento operaio e dei suoi referenti politici, apparendo sempre troppo avanti, o troppo indietro, o troppo laterale, in una parola, sempre in qualche modo inattuale per essere davvero accettato dalla sinistra ufficiale”. <26
In particolare negli anni 1943-1945, l’isolamento anche fisico di Capitini e la sua mancata partecipazione alla lotta armata contribuiscono a creare molte diffidenze nei suoi confronti. Significativo però è il riconoscimento pubblico che un valoroso combattente antifascista umbro, di orientamento anarco-comunista, Riccardo Tenerini, che con il martire della Resistenza Primo Ciabatti è stato allievo di Capitini, darà del suo amico-maestro: “Comprendemmo a fondo (Ciabatti ed io) che, nonostante la diversità degli orientamenti, la sua funzione politica ed il suo atteggiamento non violento erano tanto importanti per la libertà quanto il nostro impegno di militari armati”. <27
Il rifiuto del partito per Capitini non è certamente rifiuto della politica e ritiro a vita privata, ma esigenza di far politica in modo concretamente diverso come espressione di una società nuova e non semplicemente del ritorno a quella prefascista: la forma partito, in quanto istituzione, rappresenta una pericolosa cristallizzazione tendenzialmente dogmatica di un verbo da custodire e di una linea da difendere ad ogni costo, anche a scapito di quella libertà che, indissolubilmente legata alla giustizia, rimane invece per lui principio permanente e universale.
[NOTE]
25 Il gruppo di Giustizia e Libertà, già provato dagli arresti di Torino del maggio 1935, perdeva i suoi leader più importanti, Carlo e Nello Rosselli, assassinati per mano dei fascisti.
26 D’Orsi A., Il persuaso. Ritratto di Aldo Capitini, cit., p. 127
27 Bovini S. (a cura di), L’Umbria nella resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1972, vol II, p. 130
Elisa Maiorca, Dalla pratica militante allo slancio profetico. Aldo Capitini e la pedagogia della tramutazione in un contesto di ricerca teorica e di prassi operativa, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Catania, Anno Accademico 2009-2010

Il 25 luglio 1943, quando crollò il fascismo insieme alle sue istituzioni, caratteristiche dei regimi totalitari, a Parri sembrò che finalmente si potesse avviare la costruzione di un nuovo stato nazionale, una vera comunità nazionale il cui nerbo sarebbe stato costituito dai ceti medi.
Per coloro che erano stati interventisti democratici nella Grande Guerra, la guerra dichiarata dal fascismo contro la Francia veniva vista come una guerra alla civiltà europea. Per costoro quindi, la vera guerra nazionale cominciò solo nel 1943, quando fu rotto il nesso fra fascismo e nazione e la guerra patriottica fu rappresentata nuovamente come guerra per la libertà.
Il progetto politico immaginato da Parri fu condizionato sul nascere sia dalla frammentazione partitica della guerra di Liberazione, sia da determinati vincoli internazionali che non permisero alla Resistenza di diventare un vero e proprio esercito.
Fu un convinto fautore dell’interpretazione patriottica della guerra di liberazione.
Quando fu fondato il Partito d’Azione, nel giugno del 1942, Parri si oppose alla pregiudiziale antimonarchica contenuta nel programma dei Sette punti e criticò l’intransigente repubblicanesimo della corrente liberaldemocratica di Tino e La Malfa, che poteva esercitare una forte egemonia sul partito a causa del fatto che gli esponenti della corrente liberalsocialista erano stati in gran parte arrestati all’inizio del 1942. Critiche fondate sulla convinzione che queste posizioni avrebbero finito per sfavorire il partito e l’organizzazione del fronte comune di lotta contro il fascismo. La polemica fu presto abbandonata, ma egli rimase sempre piuttosto diffidente riguardo le posizioni intransigentemente repubblicane.
Dopo l’8 settembre, l’invasione nazista e la fuga del re e di Badoglio, gli antifascisti dovevano decidere sul da farsi. Il Partito d’azione si riunì a Firenze nelle case di Carlo Furno e Enzo Enriques. Fu rifiutata dalla maggior parte dei presenti la mozione Parri-Albasini-Paggi, con la quale i tre milanesi si erano dichiarati favorevoli alla collaborazione con il governo di Roma a condizione che Badoglio si degradasse a titolare di un dicastero militare e che Vittorio Emanuele abdicasse. La proposta di Parri fu probabilmente dovuta alla preoccupazione verso l’invasione tedesca, contro cui bisognava passare all’attacco. La sua idea era di fare dell’esercito lo strumento politico-militare di una ritrovata unità del popolo. Infatti si convinse della necessità di democratizzare le strutture dell’esercito, innestando su di esse corpi di volontari sul modello garibaldino.
I suoi piani furono per forza di cose ridimensionati quando si rese conto che dopo l’8 settembre l’esercito italiano si era praticamente dissolto. A questo punto, quando fu chiaro che non esisteva più alcuna possibilità di ricostruire su basi nuove l’esercito tradizionale, Parri aderì alla prospettiva della guerra di popolo.
A fine ottobre 1943 nacquero le Brigate Giustizia e Libertà che, come abbiamo già visto, erano distinte sul piano organizzativo, politico e ideologico da quelle comuniste, ma decise a mantenere una caratterizzazione di sinistra democratico – rivoluzionaria. Questo, probabilmente, per scongiurare il rischio di finire su posizioni pregiudizialmente anticomuniste.
Per evitare, però, che i comunisti si impossessassero dell’intero movimento di Resistenza, fu costretto a diventare uomo di parte, lasciando la nazione per il partito, salvo poi rivendicare, nel periodo postbellico, la precedenza della prima sul secondo.
Giuseppe Paolino, Parri e Togliatti, due anime della Resistenza, Tesi di laurea, Università LUISS Guido Carli, Anno Accademico 2013-2014

Gli avvenimenti più importanti di questo primo autunno della Resistenza furono estranei alla lotta armata, ma ebbero con essa una stretta connessione. Venne anzitutto realizzato un legame, ancora embrionale, tra i comandi dei «ribelli» e gli alleati anglo-americani. Il contatto fu stabilito da Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti del Partito d’azione, che passò il confine con la Svizzera, e là s’incontrò con una missione alleata della quale faceva parte Allen Dulles, capo dei servizi segreti americani e fratello del futuro segretario di Stato.
Parri – il Parri di allora – era particolarmente qualificato per questo approccio. Valoroso ufficiale di Stato Maggiore e più volte decorato nella prima guerra mondiale, antifascista da sempre, era stato nell’ufficio studi della Edison, e gli si attribuiva dunque una conoscenza di certo ambiente borghese e industriale lombardo. Del suo coraggio non si poteva dubitare, e della sua buona fede nemmeno. I suoi ideali politici, nel Partito d’azione, erano rigorosi – e nettamente repubblicani – ma non di estrema sinistra. Già all’indomani della formazione del CLN romano, Nenni aveva offerto per telefono a Parri il comando delle forze «ribelli» nel nord, ma la risposta era stata negativa. Si era al 10 settembre, e il quadro era troppo confuso, aveva pensato, ragionevolmente, Parri. Egli aveva tuttavia maturato l’idea di un esercito popolare – che ricalcava quella affacciata dai comunisti con il sottinteso che in quell’esercito popolare essi sarebbero stati la forza egemone – e per alimentarlo chiese agli angloamericani lanci consistenti di rifornimenti, armi, mezzi. Erano progetti che, per il momento, andavano al di là delle intenzioni degli Alleati, e forse Allen Dulles, accanito anticomunista, vi scorse proprio l’insidia di quella predominanza di sinistra che poi si verificò. L’incontro «molto cordiale» si chiuse senza risultati concreti, ma era avvenuto, e questo aveva portato alla ribalta appunto Parri.
Indro MontanelliMario Cervi, Storia d’Italia. L’Italia della guerra civile. Dall’8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983