Tutte le case abitate da comunisti debbono essere distrutte

Uno scorcio della zona del Durmitor – Fonte: Parks.it
Un altro scorcio della zona del Durmitor – Fonte: Parks.it

Vani furono, invece, i tentativi di identificare e soccorrere i feriti abbandonati nelle caverne e nelle gole lungo il corso del fiume e sulle pendici del Durmitor. Non si conoscono le cifre esatte dei caduti, dei feriti e dei malati di tifo. I tedeschi calcolarono, con mirabile precisione, che i partigiani morti nell’intero campo di battaglia, dal Durmitor ai sentieri che conducono alla strada per Foca, dalla Tara alla Piva e – oltre la valle della Sutjeska – fino al limite nordoccidentale dell’operazione « Schwarz », erano stati 5697.Pochi i prigionieri. In maggioranza, essi furono fucilati: la prima divisione alpina tedesca ne uccise 411 su 498. Nel distretto del Durmitor, 1437 civili furono trucidati (1100 nei villaggi dell’altipiano della Piva); la popolazione della zona ammontava a circa 11 000 abitanti. Cinquanta villaggi furono bruciati dopo la fine della battaglia.La montagna era avvolta dalle fiamme, case e villaggi erano ridotti in cenere. In quel paesaggio lunare, i morti giacevano a mucchi, come se fossero stati gettati qua e là dalla mano di un gigante.(…) Una mattina le ragazze (che portavano il cibo ai feriti) non tornarono. Due giorni dopo, crescendo la fame e la sete, un soldato senza gambe si allontanò strisciando dal gruppo e trovò i cadaveri delle infermiere. La roccia era troppo dura, e nessuna tomba potè esservi scavata.Con un colpo dell’unico fucile rimasto fu ucciso un cavallo che girovagava in riva al fiume; la carcassa fu trascinata su per la collina e fatta a pezzi. Nelle ore che seguirono, quella carne putrefatta fu attaccata dagli avvoltoi di giorno e dai lupi di notte, che i feriti cercavano di allontanare, tirando loro addosso delle pietre.Dopo l’uccisione delle infermiere, non vi era piu nessuno che portasse acqua ai feriti. Ogni giorno il cieco si metteva sulle spalle uno dei suoi compagni senza gambe, e insieme andavano ad attingere acqua dalla Piva con un otre di pelle di capra.I giorni passavano uno dopo l’altro, in un lento stillicidio. Verso la fine di giugno erano trascorse due settimane. Un giorno comparve una marmaglia nemica, che portò via tende e vestiti, lasciando i feriti scalzi e, in parte, nudi. Arrivarono poi, silenziose, le pattuglie in missione di sterminio, che perlustrarono la zona. Una di esse si fermò a poca distanza dal gruppo dei feriti: un lancio di bombe a mano, alcune raffiche di fucile mitragliatore, e un’altra operazione di rastrellamento fu portata felicemente a termine secondo i piani prestabiliti. I feriti che ancora si muovevano furono finiti a bastonate e a colpi di calcio di fucile.II cieco, che giaceva a breve distanza inosservato, si alzò deliberata-mente in piedi. Non si udì altro rumore che lo scricchiolio dei pesanti stivali che si muovevano verso di lui: poi il colpo di una revolverata in testa.La pattuglia si allontanò, convinta che nessuno fosse sopravvissuto alla strage.Per due giorni il cieco giacque immobile, senza aver perso conoscenza. Cadeva una pioggia torrenziale, e poiché gli uccelli tacevano, egli pensò che fosse passata una lunga notte. Era il 30 giugno 1943. Altri tre feriti gravi erano sopravvissuti al massacro. A metà luglio, furono ritrovati da alcuni contadini. Solo il cieco era vivo, e i suoi soccorritori lo portarono in un rifugio sotto i dirupi del Durmitor.L’uccisione dei feriti era solo un aspetto di un complesso piano di distruzione che il nemico aveva adottato per rimediare alle gravi deficienze delle sue precedenti offensive antipartigiane. I tedeschi si erano accorti, infatti, che i reparti jugoslavi opponevano una fiera resistenza.Il 16 giugno si era conclusa l’operazione « Schwarz ». Gli effetti della precedente offensiva dell’Asse erano stati vanificati dal comando jugoslavo della Croazia, il quale aveva organizzato l’infiltrazione di alcuni reparti armati e di un certo numero di capi politici e militari, facendoli rientrare nel «territorio libero», non occupato stabilmente, ma attraversato da superiori forze nemiche. Le truppe partigiane erano state accolte da una popolazione festante, i cui legami con le forze di liberazione non si erano mai interrotti, e avevano potuto beneficiare di una struttura amministrativa clandestina, sopravvissuta al passaggio distruttivo del nemico.Tutto ciò non doveva più ripetersi.Il «territorio libero» del Durmitor e la regione dominata dal grande massiccio montuoso dovevano essere messi a ferro e fuoco. Non era sufficiente infliggere perdite ai reparti militari partigiani e colpirne il morale col massacro dei feriti.Era necessario dar la caccia anche ai civili, uccidendoli se opponevano resistenza, terrorizzandoli se restavano passivi. Bisognava bruciare tutti i villaggi, portar via il bestiame. Sulla montagna e nel «territorio libero» ogni traccia di vita doveva scomparire, ad eccezione di qualche famiglia dispersa e atterrita, disposta a sottomettersi. I partigiani, come forza organizzata, non dovevano più ritornare in quei luoghi.I documenti della prima divisione alpina tedesca testimoniano che queste erano le intenzioni del comando germanico. Un ordine speciale, impartito il 3 giugno, diceva: «Nell’area di operazioni della nostra divisione, tutti coloro che sono in grado di portare le armi debbono essere considerati come comunisti, e trattati come tali. Chiunque sia trovato in possesso di armi, dev’essere fucilato sul posto… Tutte le case abitate da comunisti debbono essere distrutte».Nel diario di guerra del comando di divisione si legge, in data 13 giugno: «Fucilati stasera tredici civili. Duecento case distrutte. Null’al-tro da segnalare». E il 16 giugno: «La divisione farà in modo che qualsiasi banda abbia intenzione di ritornare in questa zona, sia privata di ogni possibilità di sopravvivenza».Il legame fra il combattente e il suo compagno d’armi ferito era sempre stato uno dei valori che avevano cementato l’unità morale e politica di tutti i movimenti di ribellione. L’insurrezione partigiana dell’autunno 1941 contro le truppe di occupazione italo-tedesche significò una totale rottura con questa legge non scritta della guerriglia balcanica. Fin dall’inizio, il nemico attuò una politica di deliberato sterminio dei feriti e dei malati, come mezzo per fiaccare il morale delle bande partigiane, colpendone le radici. Nei bollettini giornalieri delle unità tedesche e italiane l’uccisione dei feriti veniva riportata come un successo militare.Il tradizionale culto per la «cura dei feriti» fu reso più intenso dal comportamento delle truppe germaniche. Poiché il nemico calpestava quei principi di umanità che erano profondamente radicati nell’animo dei montenegrini, il problema della sorte dei feriti e dei malati diventò un elemento spesso decisivo nei piani elaborati dal comando dei partigiani jugoslavi; la necessità di proteggerli imprimeva, in ogni fase della lotta e in ogni regione, una particolare direzione al movimento di resistenza.La guerra partigiana era legata, per sua natura, alla mobilità dei reparti e alla necessità di occultarsi, e dava, quindi, una particolare impronta ai servizi medici del movimento. Non c’era un fronte statico, né retrovie nelle quali potessero essere allestiti degli ospedali. Esistevano dei «territori liberi», tenuti dalle forze partigiane per limitati periodi di tempo; ma la necessità di improvvisi spostamenti e, spesso, di lunghe marce imponeva la ricerca di nuove e particolari strutture mediche, adatte al soccorso e alla protezione dei feriti. Il primo comando medico fu istituito in Serbia ai primi di settembre del 1941, nel territorio dove – per breve tempo – si costituì la «repubblica di Uzice». Tito pose a capo di questo nuovo servizio un giovane medico trentenne, che lavorava in un distaccamento partigiano locale, Gojko Nikolis (…) con l’appoggio di un’équipe entusiasta di medici fuggiti dalle città occupate dal nemico – riuscì a mettere in piedi e a mobilitare un’organizzazione completamente nuova: i servizi medici dell’Esercito popolare di liberazione.La «cura dei feriti» diventò un ramo importante della guerra partigiana, un fattore di cui doveva tener conto ogni piano operativo. Dovunque si formavano delle unità regionali, sorgevano piccoli ospedali dispersi in luoghi remoti. Nel Montenegro il primo centro fu organizzato nell’albergo turistico di Zabljak, una cittadina sulle rive del Lago Nero, ai piedi del Durmitor. Frederick William Deakin, “La Montagna più alta”, Einaudi, 1972