Un campo d’internamento voluto dal regime fascista in Calabria

Fonte: Maria Pia Tucci, art. cit. infra
Fonte: Mauro Francesco Minervino, art. cit. infra

La prima monografia su un campo fascista, “Ferramonti: la vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista (1940-1945)”, è stata pubblicata a Firenze solamente nell’aprile del 1987. A scrivere questo libro, fondamentale per colmare la “lacuna storiografica”, è stato Carlo Spartaco Capogreco, allora medico, oggi storico accademico. Infatti aveva scritto, nella premessa del libro, che l’aveva colpito una notizia letta su un articolo in cui ci si lamentava della «scarsa attenzione dedicata dalla storiografia alle vicende del periodo fascista in Calabria». <77 In questo articolo si «accennava all’esistenza, nella stessa regione, di un grande campo di concentramento per ebrei profughi che sarebbe stato attivo, durante la seconda guerra mondiale, a Ferramonti di Tarsia». <78 Da quel momento, spinto da passione e impegno civile, iniziò la sua ricerca con la volontà di “scavare” nel “vuoto di memoria” che aveva portato all’oblio la storia dei campi fascisti. <79 Fu proprio grazie alla presentazione di questo libro, che si ebbe in Italia, a Cosenza, il primo convegno storico sull’internamento civile fascista. Sempre nel 1987 videro la stampa due libri fondamentali per la storiografia sul fenomeno. Anzitutto, a maggio fu pubblicato il libro curato da Simonetta Carolini, “Pericolosi nelle contingenze belliche. Gli internati dal 1940 al 1943”. <80 Esso fu il primo testo a parlare degli internati italiani e a fornire alcuni primi dati statistici sull’internamento, oltre alla trascrizione di alcuni documenti d’archivio fondamentali. A novembre, invece, fu pubblicato il libro di Marco Minardi, “Tra chiuse mura. Deportazione e campi di concentramento nella provincia di Parma 1940-1945”, <81 il primo studio correlato su internamento fascista e deportazione nazista in una provincia italiana. <82
[NOTE]
77 F. Spezzano, I confinati politici in Calabria, in «Calabria 2000», a. II, n. 10 1973, pp. 18-20.
78 Cfr. C. S. Capogreco, Ferramonti, cit., p. 25.
79 Cfr. T. Grande, La riscoperta. 3. L’opera di Carlo Spartaco Capogreco, in Ferramonti. Dal Sud Europa per non dimenticare un campo del duce, Laruffa Editore, Reggio Calabria 2010, pp. 30-33.
80 S. Carolini (a cura di), “Pericolosi nelle contingenze belliche”. Gli internati dal 1940 al 1943, ANPPIA, Roma 1987.
81 M. Minardi, Tra chiuse mura. Deportazione e campi di concentramento nella provincia di Parma 1940-1945, Comune di Montechiarugolo, Montechiarugolo 1987.
82 Cfr. C. S. Capogreco, Tra storiografia e coscienza civile, cit., p. 144.
Giuseppe Lorentini, I campi di concentramento fascisti: tra storiografia e definizioni, Giornale di storia, 28 (2018)

[n.d.r.:  questo il collegamento al sito del Museo del Campo di Concentramento di Ferramonti di Tarsia (CS)]

Soldati all’esterno del campo di Ferramonti di Tarsia (CS). Fonte: Mauro Francesco Minervino, art. cit. infra
Fonte: Maria Pia Tucci, art. cit. infra

Ferramonti, luogo voluto dal regime di Mussolini, è il più grande dei campi destinati agli ebrei stranieri e apolidi ed è l’unico progettato e costruito con questo specifico fine in Italia <7. Infatti il campo si estendeva per sedici ettari, con una presenza giornaliera media di novecento reclusi. Rientra nella casistica dei “campi dell’internamento civile regolamentare”, gestiti dal Ministero dell’Interno. Era sottoposto alla sorveglianza interna di un Commissariato di Pubblica Sicurezza e a quella esterna della Milizia volontaria fascista per la sicurezza nazionale <8.
Questo campo, ubicato in località Macchia della Tavola <9, a Ferramonti di Tarsia (Cosenza), in Calabria, è uno dei pochi realizzati a baraccamenti <10. Entrò in funzione alla metà del giugno del 1940 in un’area malarica a circa trentacinque chilometri da Cosenza, che le testimonianze dell’epoca definiscono malsana, priva d’acqua e battuta dal sole e dal vento.
Sul luogo prescelto, nella valle del fiume Crati, di fronte alla linea ferroviaria Cosenza-Sibari, espresse parere negativo la Direzione Generale di sanità. Sui veti e le preoccupazioni, però ebbero la meglio gli stretti legami con gli ambienti del Ministero dell’Interno vantati dall’Impresario Eugenio Parrini, al quale furono affidati i lavori di realizzazione della baraccopoli.
Al momento della sua entrata in funzione, le strutture del campo consistevano unicamente in due padiglioni in via di completamento e di alcuni piccoli edifici in muratura, risalenti agli anni Venti ed appartenenti al cantiere della Ditta Parrini, nei quali furono alloggiati la direzione e alcuni uffici.
I primi internati giunsero il 20 giugno del 1940. Nel settembre Ferramonti raggiungeva la cifra di settecento internati e, ormai delimitato dal filo spinato, cominciava a configurarsi come una comunità chiusa.
Il campo di Ferramonti <11 era organizzato su un rettangolo di circa 500 x 320 metri, impostato su un asse longitudinale est-ovest che si sviluppava a partire dal ponte sul collettore delle acque alte. Le baracche di diverso tipo erano costituite in materiale legnoso (carpilite), impiantato su fondamenta di calcestruzzo; quelle familiari accoglievano piccoli gruppi di tre o più internati, mentre quelle comuni, uomini e donne singoli.
Va sottolineato un aspetto che evidenzia la particolarità di questo campo di internamento. Fin dal giugno del 1941, infatti, fu fortemente voluta una chiesa dalle gerarchie ecclesiastiche. Risultò, infatti, l’unico elemento progettato in cemento armato, pensando al futuro, come primo edificio di impostazione duratura per la successiva costruzione di un villaggio, dopo la chiusura del campo <12. Tali strutture erano riconosciute ufficiosamente dalle autorità e consentirono agli internati di rendere più sopportabile l’isolamento. Lo stato di prigionia era reso evidente dal filo spinato, dagli appelli e dalle garitte di sorveglianza. Tuttavia il comportamento delle autorità fu generalmente tollerante. Le condizioni di vita nel campo inizialmente erano sopportabili ma influiva negativamente il clima, molto umido d’inverno, caldissimo d’estate, e la particolare incidenza della malaria.
[NOTE]
7 Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004, pp. 242-244.
8 Carlo Spartaco Capogreco, Teresa Grande, La memoria di Ferramonti, Rubettino Industrie Grafiche ed Editoriali, Soveria Mannelli (CZ) 2000, supplemento a “Fondazione Ferramonti”, p. 6.
9 Il Piano Macchia della Tavola, pochi chilometri a sud del paese di Tarsia, si estendeva su un’area demaniale grossolanamente bonificata dal Consorzio della Valle del Crati a partire dall’anno 1928. ACS, Ministero dell’Interno, Cat. Massime M4, Mobilitazione Civile, busta n. 121, fasc. 16 Campi di concentramento, sottofasc. 2 Affari per province, ins. 13/6 Cosenza: campo di Ferramonti.
10 Il 30 maggio 1940 avvenne l’affidamento dei lavori per la costruzione del campo alla Impresa Parrini & C. di Roma. I primi giorni di giugno 1940 iniziarono i lavori di costruzione.
11 In base alla planimetria originale di progetto.
12 L’edificio sarebbe stato utilizzato come “centro della trasformazione fondiaria del Demanio di Ferramonti”. ACS, Ministero dell’Interno, Cat. Massime M4, Mobilitazione Civile, Busta 120, fasc. 16 Campi di concentramento.
Maria Vittoria Giacomini, Memorie fragili da conservare: testimonianze dell’Olocausto e della Resistenza in Italia, Tesi di dottorato, Politecnico di Torino, 2012

Fonte: Maria Pia Tucci, art. cit. infra

Tra il 1940 e il 1943, per una serie di circostanze fatali alcune migliaia di ebrei deportati e di prigionieri provenienti dall’Italia e da altre nazioni europee, ebbero la ventura di concludere la loro odissea non nei vagoni sigillati davanti ai cancelli senza ritorno dei campi di sterminio polacchi o tedeschi, ma in un angolo remoto e dimenticato della Calabria interna. Approdando, dopo dolorose vicissitudini e peregrinazioni, nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, «in provincia di Cosenza, una landa deserta e malarica». Lì ebrei «provenienti da tutte le terre d’Europa, il fior fiore della scienza e dell’intelligenza ebraica», ricorda lo scrittore e fotografo ebreo dalmata Luciano Morpurgo in Caccia all’uomo, un introvabile libro-memoriale pubblicato nel 1946, erano stati concentrati in una dozzina di «grandi baracche di legno costruite per la bonifica» dal fascismo nel 1940.
Il campo, un recinto di 16 ettari di superficie, fu costruito dallo speculatore Eugenio Parrini. L’impresa di Parrini, sodale di importanti gerarchi fascisti, era già presente a Ferramonti per eseguire i lavori di bonifica delle paludi del Crati. Alcuni dei capannoni predisposti con camerate da 30 letti erano in origine dormitori e alloggi per gli operai della bonifica agricola del Crati. Ferramonti con i suoi 4.000 internati divenne così il più grande dei 15 campi di concentramento per ebrei costruito in Italia da Mussolini dopo le leggi razziali del 1938. Fu il primo in Italia ad essere liberato dopo l’armistizio. Era sorto in una plaga del malarico vallo cosentino nei pressi di Tarsia, su di una grande spianata infestata dagli insetti e frequentemente inondata dal Crati.
A qualche chilometro lontano dai reticolati del campo, protagonista di alcune fughe senza fortuna, correva il binario della ferrovia Sibari-Cosenza, mentre a circa sette chilometri da Ferramonti restava lo scalo di Mongrassano-Cervicati, sulla diramazione del tronco ferroviario che da Paola, via Castiglione Cosentino, e proseguiva per Cosenza. Percorso attraverso il quale giunsero al campo, con tradotte in littorina e vaporiera in partenza dai binari della stazione di Paola molti degli internati. Mentre dai binari della linea ionica Sibari-Taranto furono raccolti a Tarsia anche gruppi di internati ebrei provenienti dal nord Europa, insieme a quelli rastrellati lungo il versante adriatico della penisola.
Insieme agli ebrei furono detenuti nel campo anche prigionieri civili, partigiani jugoslavi, carcerati politici greci, militari francesi e persino un gruppo di prigionieri cinesi a cui venne affidata la lavanderia interna al campo.
In questo luogo isolato del vallo cosentino appena sfiorato dal treno, remoto e inospitale come pochi altri, ma per questi stessi motivi rimasto a lungo intoccato e lontano dai fuochi divampanti della guerra e dal fanatismo antisemita dei regimi nazifascisti, gli internati ebrei, pur privati della libertà poterono sfuggire al genocidio. Furono trattati con umanità anche dal personale militare italiano addetto alla sorveglianza del campo.
Ferramonti, che ricadeva sotto la responsabilità del ministero degli interni fascista, fu sempre diretto da commissari di pubblica sicurezza. Solo la sorveglianza esterna al campo era affidata alle camicie nere della gendarmeria territoriale. I deportati poterono durante gli anni di prigionia, godere anche di una certa libertà di movimenti, e solidarizzarono con le popolazioni locali con le quali praticamente convissero a lungo, dando vita durante gli anni di guerra ad un insolito rapporto di simbiosi civile e umana, improntato alla solidarietà e costellato da frequenti episodi di fraternità umana, tanto più significativi in quanto scaturiti in tempi e circostanze storiche che vedevano consumarsi altrove nel resto dell’Europa i crimini dello sterminio antisemita.
Ferramonti, il più grande kibbutz prima di Israele
Condizioni di vita insolite, al punto che lo storico ebreo Jonathan Steinberg ha definito il campo di Ferramonti «il più grande kibbutz sorto sul continente europeo, prima di Israele». Per molti degli internati ebrei, affluiti in Calabria dopo le leggi razziali del 1938 e poi più numerosi nel corso della nuova diaspora durante gli anni del genocidio, l’ultimo dei treni che portava a destino l’«ebreo errante arrivato in catene» fu quello della salvezza.
[…] I pochi internati ebrei che per sfortunate circostanze ebbero la ventura fatale di compiere un giorno su quello stesso rassicurante trenino il viaggio contrario che li allontanava dalla Calabria – quelli che tra loro fecero richiesta di trasferimento verso altri campi e quelli destinati dopo un periodo di mite internamento dal campo di Ferramonti ai campi del centro e del nord Italia (Trieste – S. Saba, Fossoli, Urbisaglia e altri), quasi tutti conclusero tragicamente le loro peregrinazioni, incontrando il destino nei carri piombati dei lugubri convogli avviati ai campi di Dachau, Auschwitz e altri luoghi di morte.
Paradossalmente a Ferramonti le uniche quattro vittime belliche le fece per errore il mitragliamento di un aereo inglese durante un combattimento contro un caccia tedesco che ne sorvolava la superficie nell’agosto del 1943.
Troppo permissivo per i fascisti
All’interno del campo agli ebrei deportati e agli altri internati fu permesso di organizzarsi e di eleggere propri rappresentanti. I medici ebrei presenti usufruirono di un’infermeria con annessa farmacia, e spesso anche gli abitanti dei dintorni del campo che si rivolgevano loro vi furono curati. Vi fu attiva una scuola, un asilo, una mensa per bambini, una biblioteca, un teatro e luoghi di culto (due sinagoghe, una cappella cattolica e un’altra greco-ortodossa). Non furono rare le unioni e i matrimoni tra gli internati e durante il periodo di detenzione nel campo nacquero 21 bambini.
Paolo Salvatore, uno dei funzionari di polizia che condussero il campo di internamento, venne sollevato dalla direzione agli inizi del 1943 per un atteggiamento che fu giudicato poco fascista e troppo permissivo nei confronti degli internati, ai quali aveva persino permesso di lavorare fuori dal recinto del campo per integrare le scarse razioni alimentari di guerra. Quando gli inglesi liberarono il campo di Ferramonti nell’estate del 1943, la gran parte degli internati ebrei si erano già dispersi nelle campagne intorno a Tarsia. Molti rifugiati e nascosti nelle case dei contadini calabresi con cui avevano solidarizzato durante il periodo di detenzione.
Gli internati più famosi
Tra gli internati a Ferramonti trovarono riparo personalità eccezionali. Numerose le figure singolari e i caratteri geniali che ebbero salva la vita entro quel remoto recinto sorto su una sponda malarica del Crati, lontano dagli orrori dell’Olocausto. Quando poterono ritornare al mondo, il segno che parecchi di loro lasciarono nella vita successiva scampata proprio nel periodo trascorso a Ferramonti, non di rado fu memorabile. Traiettorie di rinascita e di affermazione personale che raccontano imprese e fioriture tra le più varie. Come quelle segnate da
Ernst Bernhard, medico e psichiatra berlinese, che fu un importante allievo di Carl Gustav Jung a Zurigo, analista di grandi personalità della cultura italiana di cui divenne amico e confidente, come Federico Fellini, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli e Cristina Campo;
Imi Lichtenfeld, ebreo ungherese, poi cittadino israeliano, passato alla storia come esperto di arti marziali e inventore del famoso metodo di combattimento e autodifesa chiamato Krav Maga, praticato oggi dagli agenti del Mossad e dalle truppe scelte israeliane;
Moris Ergas, ebreo greco che dopo la liberazione divenne uno dei più importanti produttori cinematografici del cinema italiano degli anni ‘60, legando il suo nome a quello dei capolavori di Rossellini, Pasolini e De Sica;
l’internato jugoslavo David Mel, che nel periodo di detenzione a Ferramonti fece il cuoco ma che divenne poi uno scienziato più volte candidato al premio Nobel per la medicina, scopritore del vaccino per la dissenteria;
Richard Dattner, un giovane ebreo polacco internato con la famiglia a Ferramonti, e che emigrato negli USA diventò nel dopoguerra uno dei più importanti e famosi architetti americani;
Alfred Wiesner, ingegnere jugoslavo che dopo la liberazione fu partigiano e che alla fine della guerra si mise a produrre gelati, iniziando così l’attività che lo portò nel 1953 a fondare il marchio Algida, nato dal suo innovative sistema di produzione industriale dei gelati di cui inventò sia il nome che il logo, oggi conosciuti e affermati in tutto il mondo;
Oscar Klein, giovane ebreo austriaco imprigionato con la famiglia a Ferramonti, dove pare imparò i primi rudimenti del jazz, e che divenne poi un famoso compositore ed esecutore di musica swing e dixieland;
Menachem Shelah, ebreo dalmata, poi emigrato in Israele dove divenne un importante storico e studioso della Shoa;
Evangelos Averoff-Tossizza, internato politico greco, che nel dopoguerra fu un importante uomo politico, ministro e fondatore del Nuovo Partito Democratico ellenico, e che raccontò in un libro pubblicato in Italia da Longanesi nel 1977 la sua storia di internato a Ferramonti;
Michel Fingesten, ebreo italo-austriaco che studiò a Vienna insieme all’amico Oskar Kokoschka, divenendo a sua volta uno dei più importanti artisti ed incisori del ‘900, famoso per i suoi ex-libris per le sue opere grafiche esposte nei musei di tutto il mondo – deportato a Ferramonti istituì per i detenuti del campo una scuola d’arte. Fingesten morì purtroppo pochi giorni dopo la liberazione a causa di una infezione contratta in prigionia. È ancora oggi sepolto nel piccolo cimitero di Cerisano, vicino Cosenza.
A Cosenza l’eredità culturale dei deportati ebrei di Ferramonti si mantenne viva nella figura di Gustav Brenner, un ebreo austriaco che trasformò la sua detenzione a Ferramonti nella scelta di vita che lo portò a stabilirsi a Cosenza, dove nel dopoguerra fondò una casa editrice di cultura specializzata in opere antiche e rare ripubblicate in edizioni anastatiche, ancora oggi attiva […]
Mauro Francesco Minervino, Ferramonti, dove l’umanità prevalse sull’Olocausto, I Calabresi, 26 gennaio 2022

Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti. Fonte: Mauro Francesco Minervino, art. cit.

«Quando è Hănukkāh, la festa delle Luci, accendiamo il grande candelabro e le Luci risplendono libere nel campo. Adesso è una sensazione di felicità che ci accompagna ma Ferramonti fu un campo di reclusione e di applicazione delle leggi razziste: si veniva reclusi per la sola colpa di essere nati ebrei».
[…] Non c’è più il filo spinato a delimitare l’ ingresso del più grande campo d’ internamento fascista italiano e non ci sono più le 92 misere camerate, abbattute dall’ incuria e dall’ ignoranza della stratificazione, che negli anni della Seconda Guerra Mondiale qui hanno visto internate e private della libertà, in nome delle leggi razziali, quattromila persone di varia nazionalità, di cui duemila settecento in modo permanente.
Il campo rimase attivo anche dopo la Liberazione dell’ 8 settembre del 1943; gli storici dicono che fu sgomberato definitivamente il 5 dicembre del 1945.
Resistono al tempo, testimoni di quella pagina indegna della storia, sei edifici, che furono il Comando del campo voluto dal Duce e aperto nel giugno del 1940: 160mila metri quadrati bonificati e destinati all’ internamento di ebrei italiani, antifascisti italiani e stranieri (dal 1941), gruppi di cinesi e profughi politici.
I cinque edifici all’ interno e uno all’ esterno, leggibile ancora nella sua struttura originaria: tetto in tegole di terracotta e mura di grigio cemento, sono oggi il luogo del Museo Internazionale della Memoria di Ferramonti di Tarsia e il Parco letterario Ernst Bernhard […]
Maria Pia Tucci, La rotta calabrese dell’inferno nazifascista, Vita, 26 gennaio 2021