Un partigiano calabrese in Val di Susa

Partigiani della 113a Brigata Garibaldi – Fonte: Patria Indipendente

Il contributo dei giovani meridionali alla lotta di liberazione in Piemonte fu notevole. I nomi di 917 calabresi compaiono nelle liste dell’esercito partigiano che operò nella regione <9. Uno di questi giovani era Carmine Fusca, di San Nicola de Legistis, piccolissima frazione di Limbadi, nell’attuale provincia di Vibo Valentia. In diverse «chiacchierate» lo zio Carmine, come viene chiamato, ha avuto modo di raccontare dettagliatamente (sia a me sia ad altri interessati al suo passato <10) la sua storia, che lo tenne lontano dai suoi cari e dalla sua terra natia per alcuni anni. Nato il 24 novembre 1923 e cresciuto negli anni del fascismo in una realtà dominata dal vecchio notabilato giolittiano che indossò subito la camicia nera <11, fu avviato alle armi nel gennaio 1943, destinazione fanteria del 228° reggimento <12, e spedito a Milano per prendere parte ai combattimenti. In seguito, fu trasferito a Varese e successivamente ad Albenga.
Dopo l’armistizio firmato con gli Alleati, anche Carmine Fusca come tanti altri si ritrovò all’interno di quel vortice che gettò l’intero esercito nel caos totale. Lui raccontò di «essere stato mandato a Torino prima di essere rispedito a casa, per sedare una serie di scontri che si stavano verificando nelle fabbriche della Fiat e dell’aeronautica. Rimanemmo quattro giorni allo stabilimento dell’aeronautica e un mese allo stabilimento di Mirafiori. Ci venne successivamente dato l’ordine di recarci a La Spezia. Passammo quella notte nella stazione a riposare, mentre veniva sospeso l’ordine perché da Alessandria stavano giungendo i tedeschi. Cambiammo direzione, e nascosti nei camion ci dirigemmo verso la Val di Susa» <13. Fu proprio su quelle montagne nei pressi della frontiera francese che decise di entrare in una banda partigiana, ripudiando il Bando Graziani e schierandosi contro il nuovo esercito dei repubblichini di Salò. «Carmine» fu il suo nome di battaglia, e come prima formazione entrò nella diciassettesima Brigata Garibaldi (chiamata anche «Felice Cima» <14) fino al dicembre del 1944, sotto la guida prima del comandante Coppini e poi del comandante Alessio Maffiodo <15, con il quale diventarono molto amici, per poi fare parte della centotredicesima Brigata Garibaldi fino alla conclusione della guerra <16.
Iniziò per Carmine un nuovo capitolo della sua vita, fatto di appostamenti, battaglie, assalti e sabotaggi. Sopravvivere tra le montagne della Val di Susa durante la guerra non era particolarmente semplice. Rimase nella memoria dello zio Carmine la battaglia del 26 giugno del 1944, quando la 17a Brigata Garibaldi decise di pianificare un attacco coordinato con le formazioni della Val di Lanzo, della Val Chisone e con le formazioni Autonome della Val Sangone (quest’ultime dopo un terribile rastrellamento subito nel maggio del 1944 si erano unificate, il 12 giugno, nella brigata Autonoma Val Sangone comandata dal calabrese Giulio Nicoletta <17) per accerchiare i tedeschi, concentrando i loro attacchi soprattutto tra i comuni di Rivoli, Alpignano e Grugliasco.
Ma il fallimento della missione provocò la reazione dei nazifascisti, che condussero una serie di rastrellamenti, catturando e trucidando 26 partigiani, in quella che ancora oggi viene ricordato come l’eccidio del Colle del Lys.
«In quella battaglia rischiai di essere colpito da un’arma da fuoco», racconta sorridendo il partigiano «Carmine»; ma la brigata doveva riorganizzarsi e pianificare la nuova strategia, condotta nella notte del 18 agosto del 1944: l’assalto all’Aeronautica, una delle arterie principali dei nazifascisti.
Situato al confine tra le città di Torino e Collegno, lo stabilimento durante l’occupazione tedesca produceva aerei militari e materiale bellico. «Un colpo da quasi 260 mitraglie», ricorda, affermando che, una volta catturati i nazifascisti di guardia, ritornavano spesso all’Aeronautica per fare rifornimenti di armi potendo contare sull’aiuto degli operai dello stabilimento, «partigiani nel cuore» <18. Anche il ricordo del nemico, così come quello degli
Alleati, rimane indelebile. «Non ho un bel ricordo. Contro i tedeschi abbiamo condotto diverse battaglie, abbiamo teso loro tante imboscate. Ma il nemico più pericoloso era in casa nostra: erano i fascisti, capaci di fare cose che neanche i soldati tedeschi erano in grado. Alcuni ci presero con l’inganno e si infiltrarono nelle nostre bande e, una volta calata la notte, iniziarono a far fuori diversi nostri compagni. Sugli Alleati posso invece dire che oltre agli americani abbiamo potuto contare sull’aiuto dei francesi, anche se recavano un po’ d’odio nei nostri confronti, specialmente nei confronti dei piemontesi».
Di quell’esperienza, il partigiano «Carmine» non ricorda solo le battaglie, ma anche la solidarietà e l’amicizia dei contadini del posto. «Loro – dice – ci aiutavano dandoci ciò che potevano, e noi li aiutavamo nei loro lavori quotidiani» <19.
[…] I ricordi affollano la mente dell’anziano partigiano. «Da Torino, dopo un po’ di tempo – racconta – ci venne ordinato di scendere verso la provincia di Asti. Fummo due giorni nell’astigiano, ma successivamente in seguito ad un allarme (due colpi di fucile e una bomba a mano) ci riunimmo e ci venne dato ordine di ritornare a Torino per combattere contro i tedeschi. Una volta a Torino, ci rifugiammo nello stabilimento dell’aeronautica, che divenne da quel momento la nostra caserma. Dopo la battaglia di Grugliasco, il fronte tedesco si ritirò dalla Val di Susa, ma prima di fuggire fecero più brutalità possibili: bruciavano tutto e tutti! Bruciarono vivo anche un prete che dormiva accanto a me nello stabilimento dell’aeronautica. A Grugliasco rischiai di essere colpito da un’arma da fuoco. Cercammo aiuto, sia in termini di armi che di unità, ai partigiani della Val di Lanzo; ricordo che questi minarono un ponte e fummo così in grado di accerchiare i tedeschi e di impedire la loro fuga. Li imprigionammo tutti e fregammo le loro armi. Ricordo che c’era il rispetto dei gradi: infatti gli ufficiali potevano essere fatti prigionieri ma non li si poteva mettere ai lavori forzati. Comunque, dopo la battaglia a Grugliasco, arrivarono gli americani che ci rifornirono di armi e munizioni; tra l’altro, ci diedero pure il materiale necessario (carta e penne) affinché noi meridionali potessimo inviare una lettera ai nostri familiari così che potessimo fornire loro nostre notizie dal fronte. Non pensavo che la mia lettera potesse essere arrivata a destinazione, invece mio padre la ricevette». […]
[NOTE]
9 Claudio Dellavalle (a cura di), Meridionali e Resistenza. Il Contributo del Sud alla lotta di Liberazione in Piemonte. 1943-1945, Consiglio Regionale del Piemonte, Torino 2013).
10 Si veda Giovanni Curcio, Quando Agnelli fece il caffè per un gruppo di partigiani, in «Patria Indipendente», 4, 2012, aprile 2012; Pantaleone Andria, Storia del partigiano Carmine, in «Giornale di Limbadi», II, 2, febbraio 2004.
11 Su Limbadi e gli anni del fascismo si può consultare Pantaleone Sergi, Confinati politici in un paese del Sud. I “villeggianti” di Limbadi, in Ferdinando Cordova e Pantaleone Sergi, Regione di confino. La Calabria (1927-1943), Bulzoni, Roma 2005, pp. 201-257. Sempre su Limbadi è interessante lo studio fatto dallo stesso Sergi («Per me non penzati a niente». Limbadi: lettere di militari, prigionieri e civili mai arrivate alle famiglie, «Rivista calabrese
di storia del ‘90», 2, 2012, pp. 133-142) sulle missive dei militari mai giunte ai propri familiari. Che fossero lettere di soldati impegnati sul fronte russo, rinchiusi in campi di prigionia o di militari impegnati nelle colonie dell’Africa orientale, queste furono tutte intercettate e bloccate dalla censura fascista locale. Lettere, insomma, mai consegnate ai destinatari senza una ragione plausibile.
12 Fonte: intranet.istoreto.it/partigianato/dettaglio.asp?id=38744
13 G. Curcio, Quando Agnelli fece il caffè per un gruppo di partigiani cit, p. 40.
14 Dopo essere stato nominato comandante, Alessio Maffiodo decise di rinominare la 17a Brigata Garibaldi «Felice Cima». Cfr. Chiara Sasso, Dalla vigna al cuore del mondo, Mondadori, Milano 1998, p. 19.
15 Il comandante Maffiodo, uomo tutto d’un pezzo come definito dai suoi ex-colleghi, prima della sua morte si è reso protagonista di un gesto di immensa umanità e amore: in punto di morte ha sposato un’extracomunitaria, che suo figlio aveva abbandonato dopo averla resa madre. L’ha fatto per consentire alla donna, originaria delle Seychelles, di ottenere la cittadinanza italiana e per garantire alla bambina di 8 anni, un avvenire sereno con una quota dell’eredità. Come ha commentato un compagno della Resistenza si è trattato di «un gesto coerente con i principi che hanno sempre ispirato la vita del comandante Maffiodo». In http://archiviostorico.corriere.it/1997/febbraio/23/punto_morte_sposa_giovane_lasciata_co_0_97022311520.shtml.
16 In: intranet.istoreto.it/partigianato/dettaglio.asp?id=38744. Alla fine del conflitto gli americani conferirono al comandante Maffiodo il grado di colonnello.
17 G. Oliva, La Resistenza alle porte di Torino cit., pp. 187-203.
18 G. Curcio, Quando Agnelli fece il caffè per un gruppo di partigiani cit, p. 42.
19 P. Andria, Storia del partigiano Carmine cit., p. 14.
Giovanni Curcio, Nome di battaglia Carmine. Un partigiano calabrese in Val di Susa, Rivista calabrese di storia del ’900, Periodico dell’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea, n. 2, 2013

Era un fante dell’esercito italiano che si arruolò volontario e si trovava in Val di Susa quando dopo l’8 settembre del ’43 decise di entrare nella Brigata Garibaldi. Fece parte di una unità che ebbe il compito proteggere la famiglia di industriali della Fiat.
È morto il partigiano calabrese a cui Gianni Agnelli preparò il caffè. Carmine Fusca, uno degli ultimi combattenti per la libertà, si è spento il giorno di Natale all’età di 94 anni, era nato il 24 novembre 1923. A darne notizia è Pantaleone Sergi, presidente dell’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea, che esprime cordoglio e vicinanza ai familiari.
“Zio Carminè, come lo chiamavano a San Nicola de Legistis, minuscola frazione di Limbadi, nel vibonese, dove è vissuto coltivando la sua campagna – prosegue Sergi – era orgoglioso del suo ‘diploma’ di partigiano e soprattutto di quanto, assieme a tanti giovani come lui, aveva fatto nella lotta contro il nazifascismo durante la guerra di Liberazione. Arruolato volontario nel 1943 e inquadrato nel 228/mo reggimento fanteria, dopo l’8 settembre Carmine Fusca si trovava in Val di Susa e decise di entrare, col nome di battaglia di ‘Carmine’, nella 17/ma Brigata Garibaldi per poi passare alla 113/ma, partecipando a numerosi scontri con i nemici”.
Tra i suoi ricordi anche l’episodio in cui il poco più che ventenne Gianni Agnelli – che la sua unità protesse per diverso tempo – preparò un caffè a lui e al suo comandante Alessio Maffiodo. “Era un galantuomo, una persona squisita – ricordava Carmine Fusca – ci fece il caffè con le sue mani. Mi sembrò una cosa strana vedere un uomo come lui alle prese con una macchinetta del caffè, nonostante fosse circondato da personale di servizio”.
Alla figura di Carmine Fusca, la “Rivista calabrese di storia del ‘900” pubblicata dall’Icsaic, che ha sede all’università della Calabria, ha dedicato un articolo sul numero due del 2013 (www.storiadel900.it).
In una lunga intervista per l’Anpi, l’associazione nazionale partigiani, Fusca raccontò qualche anno fa anche del celebre caffè, spiegando che tra i loro ruoli c’era anche quello di proteggere gli industriali della Fiat: “Coprimmo gli Agnelli per diverso tempo; una volta ci trovammo col comandante della Brigata e mio amico Maffiodo a casa sua, dinanzi a Gianni Agnelli e fu qui che ci ha offerto il caffè”. […]
Redazione, Morto Carmine Fusca, il partigiano calabrese a cui Gianni Agnelli preparò il caffé. Aveva 94 anni, la Repubblica, 26 dicembre 2017

[…] Vi ricordate i nomi dei vostri comandanti?
Il comandante di Brigata fu dapprima Coppini e successivamente il mio amico Alessio Maffiodo. Inizialmente ci fu una diatriba tra i due per chi dovesse assumere il ruolo di comandante; ci accordammo in un primo momento su Coppini. Votammo, ricordo, su un cartellone enorme appeso al muro e, come detto già prima, fu eletto Coppini. Però poco tempo dopo, subimmo un attacco dall’esercito tedesco, al quale si allearono i fascisti, e Coppini non fu in grado di tenere in pugno la situazione. Alla conclusione dello scontro contammo troppe perdite, soprattutto in termini di morti. Fu così che Coppini fu sostituito dal mio amico Alessio (Maffiodo) che mantenne il comando sino alla fine della guerra. Gli americani alla fine del conflitto gli conferirono poi il grado di colonnello.
Avete mai più incontrato il comandante Maffiodo?
Tornai diverse volte con mia moglie in Val di Susa, da turista però, almeno otto volte. In due di queste occasioni fummo suoi ospiti per alcuni giorni; mangiammo e dormimmo lì. Rammentavamo ogni volta quando ci trovammo davanti ad Agnelli.
Gianni Agnelli?
Sì, Gianni Agnelli. Lo coprimmo per diverso tempo; una volta ci trovammo col comandante Maffiodo a casa sua, dinanzi a lui. Era un galantuomo, una persona squisita; pensa che ci fece il caffè con le sue mani!
Avete concluso la vostra esperienza in Piemonte?
Sì. Passammo il tempo a fare assalti e ci trovammo spesso all’aeronautica per fare rifornimenti di armi. Gli operai erano tutti “partigiani” nel cuore: ci caricarono più di 260 mitraglie. Dopo un po’ di tempo ci venne ordinato di scendere verso la provincia di Asti. Fummo due giorni nell’astigiano, ma successivamente al suono dell’allarme (l’allarme era composto da due colpi di fucile e una bomba a mano) ci riunimmo e ci venne dato ordine di ritornare a Torino per combattere contro i tedeschi. Una volta a Torino, ci rifugiammo nello stabilimento dell’aeronautica, che divenne da quel momento la nostra caserma […]
Giovanni Curcio, Quando Agnelli fece il caffè per un gruppo di partigiani, Patria Indipendente, N. 4, 22 aprile 2012

L’istituzione dei processi per fatti inerenti la guerra di liberazione nazionale non cessò neppure con il nuovo provvedimento di clemenza, approvato dal governo Pella nel dicembre del ‘53 <90.
Nel marzo di quell’anno era infatti stato arrestato il partigiano Alessio Maffiodo, ex comandante della 113 brigata Garibaldi del Piemonte, per l’uccisione di tre spie avvenuta nell’estate del 1944. Azione di cui si erano assunti la responsabilità politica i comandi militari della Val Susa e il commissario politico della IV brigata Garibaldi.
La condizione d’illegalità degli ex partigiani fu quindi parzialmente superata soltanto con il varo di una nuova norma per il condono delle pene dei delinquenti abituali <91, che avrebbe dovuto porre fine alla prassi di far figurare come criminali comuni gli attivisti antifascisti schedati dalla polizia politica di regime.
90 Si trattava del Decreto Presidenziale 19 dicembre 1953 n. 922. Cfr. La Camera approva l’amnistia per i reati politici fino al 1946, in «La Stampa», 10 dicembre 1953.
91 Cfr. il DP 11 luglio 1959, n. 460, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Disegni di legge e relazioni, documenti, legislatura III, p. 1.
Michela Ponzani, Il dibattito sulla Resistenza. Lo status del combattente partigiano e i procedimenti giudiziari (1944-1958), Italia Contemporanea, n. 254 , marzo 2009