Unità di intenti internazionali alla svolta degli anni Settanta

Dopo un periodo di sostanziale stabilità, la fine degli anni Sessanta avrebbe consegnato al mondo occidentale una serie di condizioni critiche dal carattere sistematico. Le turbolenze di natura socio-culturale innervate dai rapporti tra capitale e lavoro e patite dalle democrazie trovavano corrispondenze nella stessa attivazione di forze sociali periferiche, in particolar modo tra le realtà arabe e i paesi non allineati, legata a ragioni di redistribuzione e in contrasto frontale all’Occidente. La crisi del sistema economico occidentale veniva acuita dai venti di guerra della seconda metà del decennio dei Sessanta. Alla decisione statunitense di radicalizzare il conflitto in Vietnam seguiva a stretto giro la guerra dei Sei giorni. Le successive tappe del triennio 1971-1973, periodo in cui Nixon rompeva definitivamente con l’ordine economico internazionale di Bretton Woods, sganciando il dollaro dall’ancoraggio aureo e dai
cambi fissi, e la crisi petrolifera seguita alla guerra dello Yom Kippur, generalizzavano l’emergenza. All’inizio degli anni Settanta, il quadro internazionale si disponeva in chiave di aperta smentita dei due decenni precedenti. Multilateralismo, interdipendenza, cooperazione sovranazionale, fin lì chiavi di ripresa e stabilità internazionale dopo il disastro bellico, entravano in una fase di forte appannamento. Da un decennio, a riprova delle difficoltà delle istituzioni della comunità internazionale, era entrato in panne il processo di integrazione europea, minata dall’ostracismo gollista all’apertura comunitaria verso il mondo anglo-sassone e successivamente indebolito dalle ricadute economiche delle crisi internazionali di inizio anni Settanta.
Quanto al nostro paese, la crisi aperta della classe di governo, sancita dalla fine dell’alleanza politica del centro-sinistra, si approfondiva sull’incapacità di apertura dei partiti alla società per rispondere alla stagione dei movimenti sociali. Gli stessi partiti, in una fase generale di ripensamento, erano lacerati da profonde divisioni, così come la stessa area di maggioranza. Per quel che riguardava la Democrazia Cristiana, ci basta ricordare il cuneo irrisolto sul piano internazionale, evidenziatosi nel caso della rottura tra Moro e la corrente doroteo-fanfaniana, oltre a quella tra Moro e i gruppi che sostenevano un rigido atlantismo. Su questi presupposti, le ingerenze dei poli internazionali di potere che influenzavano l’Italia erano sempre meno controllate e le preoccupazioni statunitensi sulla nostra realtà politico-sociale, nel caso paragonata al Cile, raggiungevano livelli significativi. La risposta, più o meno coerente, che l’Italia cercava di opporre alla crisi della democrazia, propria ed occidentale, si sarebbe manifestata sul piano della politica estera. <419 Con un vantaggio in termini comparati, nonostante tutto, rispetto al recente passato. Nel nostro paese, a seguito dalla caduta delle barriere ideologiche tra mondo cattolico e mondo comunista, figlia della precedente stagione di distensione, si era ampliato il consenso delle forze politiche sulle principali soluzioni da adottare in politica estera per rispondere alla crisi di sistema, con rinnovate solerzie verso la distensione, l’azione multilaterale, la salvaguardia dei diritti umani, la riduzione degli armamenti, la cooperazione e il processo di integrazione europea. <420 Negli anni Settanta, le attenzioni italiane in questo senso non erano stretto ed esclusivo esercizio della classe di governo. Un ruolo non secondario nella definizione della linea complessiva di politica estera italiana nella gestione del conflitto bipolare nel continente africano così come nel Mediterraneo “allargato” era infatti giocato dal PCI. Nella progressiva dilatazione della dimensione estera del nostro paese verso il mondo arabo ed africano, gli scenari internazionali del decennio avrebbero presentato alle democrazie occidentali non solo i conti del conflitto bipolare, ma anche l’evidenza di problemi di lungo corso, quali il divario tra paesi industrializzati e paesi sottosviluppati, la povertà, la fame nel Sud del mondo, il rischio del riarmo. Oltre a fare tesoro della sensibilità e dell’esperienza democristiana l’Italia avrebbe affrontato il complesso rapporto tra Nord e Sud globali anche beneficiando delle intuizioni di Enrico Berlinguer, la cui prospettiva di “governo mondiale” era espressione del libero concorso di tutti i paesi e di strategie di concerto in grado di appianare sperequazioni socio-economiche, salvaguardando il patrimonio ambientale e riaffermando il primato della politica sul profitto e sul consumo. La traduzione sul piano interno dell’unità di intenti internazionali avrebbe dato concretezza alla stagione del “compromesso storico”, che in termini di ambizioni di politica estera intendeva porre le basi concrete di un ordine mondiale retto dalla cooperazione. <421 Successivamente si può affermare come fosse il PSI, altrettanto animato da equità internazionale e spirito terzomondista, a suffragare la linea della politica estera italiana nella direzione della distensione, della stabilità internazionale, dello sviluppo. <422
All’inizio degli anni Settanta comunque, non va dimenticato come la dilatazione a Sud delle attenzioni italiane fosse motivata anche da sviluppi legati a territori di stretto interesse per il nostro paese. Alle grandi crisi internazionali si accompagnavano crisi “regionali”, che avrebbero imposto una certa solerzia diplomatica all’Italia in alcuni contesti periferici. In Libia nel 1969 il colpo di Stato di Gheddafi fondava la Repubblica araba libica, dalle forti connotazioni islamiche. Nello stesso anno, in Somalia l’esercito consegnava il potere a Siad Barre, alla testa di una Repubblica socialista. Più tardi, nel 1974, simili tensioni sociali avrebbero travolto anche l’Etiopia, con la caduta di Haile Selassie e la presa del potere del Derg. Non solo nelle ex colonie, l’impegno diplomatico italiano nel corso degli anni Settanta si sarebbe confermato nella più vasta realtà del Terzo Mondo, <423 in cui la crisi dei processi di decolonizzazione riattualizzava il conflitto bipolare per interposti ritorni di regimi reazionari. Nell’intento complessivo di realizzare un reticolato di relazioni internazionali che impedisse l’incedere delle trame di guerra fredda nel continente africano, il nostro paese si sarebbe avvantaggiato delle acquisizioni diplomatiche maturate negli anni precedenti, dando luogo ad un importante impegno di diplomazia bilaterale con diversi contesti arabi come africani, al quale si sarebbe affiancato un attivismo di diplomazia più propriamente culturale. Passando per interessi economici e per lo sviluppo di relazioni diplomatiche bilaterali con le diverse realtà africane nella prima metà degli anni Settanta, l’azione italiana si collocava in una cornice ben più ampia e generale, che rifletteva la ricerca continua di stabilità internazionale. E la dimensione culturale in politica estera avrebbe ancora sostenuto l’obiettivo del dialogo e della cooperazione.
[NOTE]
419 G. Formigoni, L’Italia nel sistema internazionale degli anni Settanta: spunti per riconsiderare la crisi, in a cura di A. Giovagnoli, S. Pons, Tra guerra fredda e distensione, op. cit., pp. 276-277.
420 L. Tosi, L’evoluzione di una politica: l’Italia e la sicurezza collettiva dalla Società delle nazioni alle Nazioni Unite, in a cura di F. Romero, A. Varsori, Nazione, interdipendenza, integrazione, op. cit., p. 246.
421 P. Borusso, L’Italia e la crisi della decolonizzazione, in a cura di A. Giovagnoli, S. Pons, Tra guerra fredda e distensione, op. cit., pp. 425-430.
422 Ivi, p. 408.
423 Ivi, pp. 397-417.
Michele Amicucci, La diplomazia culturale come via di politica estera italiana tra guerra fredda e periodo post bipolare, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2023

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