Voci insistenti da Torino, lo stesso 16 marzo, che identificavano in Mario Moretti uno degli organizzatori dell’attentato di via Fani

Realizzai quest’intervista per ‘Il Mucchio’ ai tempi in cui Miguel Gotor aveva appena curato per Einaudi “Il Memoriale della Repubblica”, vale a dire gli scritti di Aldo Moro durante la prigionia: la ripropongo oggi, considerando l’oscurità che ancora avvolge diversi aspetti del sequestro toccati nella conversazione (LC).
[…]

Quali sono stati i cardini intorno a cui ha svolto il suo lavoro?

Come in ogni altro lavoro di ricerca, bisogna studiare la bibliografia e lavorare sui documenti. Ogni storia è un filo che prima si aggroviglia sempre più, come un gomitolo tanto grosso da risultare inestricabile; fino a quando si giunge a un punto di maturazione in cui ciò che prima si avviluppava comincia lentamente a distendersi. Ho provato a trattare questi materiali come fossero manoscritti del Seicento, in modo da impostare sui documenti delle interpretazioni, non il contrario. A me sembrava che il caso Moro, per come si è sviluppato, fosse uno strano gigante, con una testa interpretativa abnorme e delle gambe documentarie esili, persino fragili.

Il memoriale, dunque. Cos’è?

È un’opera aperta e composita formata, per un verso, dalle risposte che Moro diede ai suoi sequestratori durante l’interrogatorio, una sorta di “memoria difensiva”; una seconda parte, invece, ha un valore più testamentario, in cui Moro affida alla carta alcune riflessioni che riguardano la propria storia politica, la propria vicenda umana, nel tentativo, avendo compreso d’essere giunto alle sue ore ultime, di fornire un bilancio della sua vita. Queste due parti compongono un testo che a sua volta va collocato all’interno dei cosiddetti “scritti dalla prigionia di Moro”, visto che oltre al memoriale furono scritte più o meno un centinaio di lettere, di cui solo una piccola parte vennero distribuite dalle Brigate rosse, le altre censurate.

Perché questo documento è così importante?

Da un lato per l’eccezionalità del luogo in cui viene scritto, dall’altro per l’importanza del suo autore: Moro era un uomo politico che aveva attraversato da protagonista la storia dell’Italia repubblicana. Per queste due ragioni, esso si trasforma in un viaggio all’interno delle dinamiche del funzionamento del potere italiano. Naturalmente, accanto al testo ci sono una serie di storie che si dipanano: forse la più affascinante riguarda i modi con cui il memoriale venne ritrovato, in due momenti diversi – dal momento che un testo non è dato solo dal contenuto, ma anche dalle modalità della sua ricezione.

Ecco, qui inizia a ingarbugliarsi, il gomitolo. Ottobre 1978: il nucleo antiterrorismo guidato dal generale Dalla Chiesa scopre il covo di via Monte Nevoso a Milano e rinviene parte degli scritti di Moro. Nel 1990, invece, durante dei lavori nello stesso appartamento finalmente dissequestrato, un operaio rinviene casualmente altri scritti, inediti.

In realtà, le modalità di ricezione sono tre. Durante il sequestro, le Br consegnano lo scritto, originale, su Taviani (parlamentare democristiano, più volte ministro, ndr). In seguito, i due ritrovamenti. Ma prima bisogna sottolineare un punto importante: le Br, malgrado avessero scritto durante i 55 giorni – quando erano libere e forti – che i risultati dell’interrogatorio di Moro sarebbero stati resi all’opinione pubblica, in seguito preferirono non farlo. Perché questa scelta? Le spiegazioni dei brigatisti non sono soddisfacenti. Dicono: “non comprendevamo ciò che era scritto”; oppure “ciò che era scritto non era importante”. Ma uno o non comprende; oppure, per poter giudicare inutile la cosa, comprende. Il problema è che durante il sequestro mostrarono di capire benissimo ciò che Moro stava dicendo.

La scelta di divulgare lo scritto su Taviani è molto oculata sul piano strategico: egli era stato tra i fondatori di Gladio, e spedire un testo a lui indirizzato significava attivare al massimo il potenziale destabilizzante del sequestro. L’opinione pubblica non capiva perché Moro se la prendesse con Taviani, ma il messaggio era indirizzato a un ristretto numero di persone che ben sapevano quale fosse stato il ruolo di Taviani nella storia italiana. Ancora: le Br sostengono di aver distrutto gli scritti originali. Ma non riescono a dire né dove, né quando. E poi: per quale ragione distruggere gli originali e custodire delle fotocopie?

E infatti, dopo il primo ritrovamento del ‘78, trattandosi di dattiloscritti non firmati, governo e commentatori ebbero buon gioco a sostenere – come durante il sequestro – che non si trattava del pensiero di Moro, o che scrivesse sotto dettatura.

Già: è soltanto nel 1990, quando vengono ritrovate le fotocopie dei manoscritti, che l’evidenza si fa chiara. Ma intanto sono passati dodici anni, e il mondo è cambiato. Ripeto: un testo non è solo il suo contenuto; le potenzialità minatorie di un documento sono anche relative alle sue forme di trasmissione. Un dattiloscritto, anche se ha dei contenuti tremendi, è inoffensivo. Un manoscritto in fotocopia ha una possibilità destabilizzante molto più ampia.

A questo proposito, due personaggi si sono battuti (praticamente fino alla morte) per ritrovare gli originali: il generale Dalla Chiesa e il giornalista Pecorelli. Quali sono gli obiettivi che animavano la loro ricerca?

Credo di aver provato che il nucleo di carabinieri dell’antiterrorismo guidati da Dalla Chiesa abbia ritrovato, nel ’78, una copia di dattiloscritti più ampia di quella poi ufficialmente consegnata al governo. Di questo fatto Pecorelli ne fu informato. Ritengo che Dalla Chiesa volesse tenere per sé questi materiali in modo da esercitare una pressione sul governo, in particolare sul presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Egli era convinto, e lo era perché era stato per tanti anni responsabile delle carceri in cui aveva sviluppato delle tecniche molto raffinate di intercettazione tra i detenuti, che la corrente di Andreotti in Sicilia fosse collusa con la mafia. Era una convinzione crescente, testimoniata da Dalla Chiesa in diversi colloqui, e credo sia la ragione fondamentale che muove la sua azione in questa fase. Una funzione di battaglia civile in cui le ragioni di servizio allo Stato, come militare, sono preminenti. E sia Dalla Chiesa, sia Varisco, ebbero incontri – testimoniati – con Pecorelli, di cui si servirono affinché tutto ciò trapelasse.

Eppure, Dalla Chiesa da un certo momento in poi sa di avere un’arma spuntata: soltanto i dattiloscritti non firmati.

Sì, ritengo che le carte “scoperte” nel 1990 fossero già state rinvenute. Non dal nucleo di Dalla Chiesa, come fu detto dopo la morte del generale quando non poteva difendersi dall’accusa, bensì da una “cordata” di carabinieri, legati alla Pastrengo di Milano, rivali del nucleo antiterrorismo, i cui vertici, avremmo scoperto nel 1981, comparivano nella lista dei presunti iscritti alla P2. I documenti furono verosimilmente rinvenuti nella seconda metà di ottobre del ’78, dopo che questo gruppo di carabinieri, a partire dal 5 ottobre, allontanò dal covo – con minaccia di carcerazione – il nucleo di Dalla Chiesa, rivendicando la propria competenza territoriale sull’operazione; quelle carte vennero esaminate, censurate e infine ricollocate al loro posto, dal momento che erano fotocopie e non originali. Abbiamo quindi due mani censorie, che agiscono autonomamente l’una dall’altra. Una è quella del nucleo dell’antiterrorismo, l’altra della Pastrengo e dei servizi segreti del Sismi allora guidati dal generale dei carabinieri Santovito, anche lui fra i presunti iscritti alla P2.

Come è giunto a queste conclusioni?

Ho individuato prove sia logiche che di contesto. Ad esempio: tra il ’78 e il ’90 molte persone – politici, giornalisti, brigatisti – invitarono la magistratura a compiere una nuova perquisizione nel covo milanese, sostenendo che lì ci fossero altre carte sfuggite alla prima perquisizione; appelli rimasti inascoltati. Anche ammettendo che le resistenze della magistratura fossero condivisibili, le pare credibile che forze di polizia o dei servizi non avrebbero trovato un modo “informale” per verificare quanto sostenuto pubblicamente da brigatisti come Bonisoli o parlamentari come Sergio Flamigni? Le perizie fatte sul pannello dimostrano con certezza che dopo il 1981 questo non fu fatto; è chiaro che una nuova perquisizione non si rese necessaria perché evidentemente… era già stata svolta, da chi di dovere, a suo tempo. Ma è soprattutto l’ordine con cui le carte furono rinvenute nel 1990 a mostrare quanto sostengo. Esso rispecchia una conoscenza dell’argomento impossibile al momento dell’arresto dei brigatisti, il 1° ottobre 1978. Doveva certamente essere successivo al 18 ottobre 1978, quando il governo italiano divulgò una parte dei dattiloscritti rivenuti dal nucleo di Dalla Chiesa. Le fotocopie dei manoscritti corrispondenti a quelli divulgati erano raggruppate insieme in sequenza progressiva, un’operazione che certo non avrebbero potuto fare i brigatisti arrestati, ma una mano esterna che dopo il 18 lavorò su quelle fotocopie e poi le rimise dentro l’intercapedine, per non esporsi al possibile ricatto di chi era in possesso di altre riproduzioni.

La sua tesi, inoltre, è che esistano brani del memoriale che sono inediti ancora oggi: su cosa basa questa idea?

Ho applicato un metodo utilizzato da Carlo Ginzburg nei suoi studi: quello del paradigma indiziario. Non ci sono prove, ci sono indizi, c’è una assenza. Si può fare la storia di un’assenza? Sì, ci si può e ci si deve almeno provare, ma è un tentativo rischioso in cui si stressano al massimo i limiti della propria disciplina, muovendosi su un crinale molto delicato. Dunque, sostengo che sia esistito un ur-memoriale, per usare un termine filologico, frutto di queste due mani censorie di cui si parlava prima. Mani autonome ma legate dalla stessa mentalità militare e che dunque hanno prevalentemente coinciso, ma – proprio perché diverse – non del tutto. Una serie di testimoni oculari hanno dato prova di aver letto queste parti sconosciute o di essere stati informati del loro contenuto. Inoltre, nel memoriale non trovano riscontro una serie di rimandi presenti nel testo, e molte pagine sono troncate. Ho individuato alcune di queste parti mancanti: la fuga di Kappler, il golpe Borghese, il conflitto tra Olp e Mossad in Italia…

[…]

Liborio Conca, Aldo Moro e il memoriale: un’intervista a Miguel Gotor, Minima & moralia 9 maggio 2020

Nello stesso periodo il Candido fu anche l’artefice della costruzione dell’immagine pubblica del “frate guerrigliero” Silvano Girotto, propedeutica all’operazione organizzata dal generale Dalla Chiesa di infiltrare il frate nelle Brigate Rosse e che portò all’arresto dei due dirigenti Renato Curcio e Alberto Franceschini, permettendo però a Mario Moretti di restare a piede libero. Alcuni mesi dopo Mara Cagol fu uccisa dai carabinieri nel corso del sequestro Gancia ed a quel punto l’organizzazione rimase in mano all’ala violenta di Mario Moretti e rappresentò il «passaggio dalle prime BR della propaganda armata alle seconde del terrorismo selettivo e sanguinario incarnato da Moretti» <17.
Emblematiche a questo proposito le parole dell’ex dirigente del SID, il piduista Vito Miceli, nel settembre 1974, al termine di un interrogatorio nell’ambito dell’inchiesta sulla Rosa dei Venti: «Ora non sentirete più parlare di terrorismo nero, ora sentirete parlare soltanto di quegli altri» <18.
[NOTE]
17 Sergio Flamigni, “La sfinge delle Brigate rosse”, Kaos 2004, p. 145.
18 http://www.fondazionecipriani.it/Kronologia/Krono.htm.
Claudia Cernigoi, Dai servizi segreti repubblichini ai servizi segreti repubblicani: l’evoluzione di Giorgio Pisanò, dieci febbraio…, 17 aprile 2021

Franceschini si trova a Torino per il processo <213 alle Br quando viene a sapere del rapimento di Aldo Moro. È incredulo. Ora capisce perché, dinanzi alle sue accuse di indifferenza sulle condizione dei detenuti i compagni avevano risposto di essere occupati nella preparazione di una azione clamorosa. Lui, come gli altri brigatisti detenuti, non sa se essere felice o preoccupato. Ricorda “immagino Moro al posto di Sossi e provo disagio. Comunque vada a finire, penso […] noi del nucleo storico, ci siamo dentro, nel bene e nel male […] Sentiamo di amarli questi compagni che, dall’isolamento dell’Asinara, abbiamo duramente criticato […] sfottuto e ingiuriato. Li amiamo perché hanno avuto il coraggio di osare, di lanciare la sfida sempre più in alto, come all’inizio, quando bruciavamo le macchine e pensavamo già al passo successivo, al primo sequestro. Il gusto della sfida, il vero legame che ci unisce. Non possiamo chiamarci fuori, fare i semplici spettatori. Dobbiamo partecipare a questo viaggio, comunque si concluda”. <214
Dopo aver letto il primo comunicato sono delusi. Pensano che le rivendicazioni dei compagni si basino troppo sull’attribuzione di responsabilità personale a carico di Moro e abbiano perso di vista il senso generale delle cose: Moro non è il cuore dello Stato, è solo uno degli artefici di un progetto politico. Autore del comunicato questa volta non è Curcio, il quale è stato nuovamente arrestato dopo la sua evasione da Casale. Ma, dal carcere, decidono di rivendicare lo stesso il sequestro con un comunicato, letto in aula, in cui si pone al centro della questione il “compromesso storico”. Il loro contributo all’azione è di supplire alla carenza di analisi teorico-ideologica che i brigatisti, all’esterno, stanno dimostrando. In tale occasione, prendono anche una decisione costata ore e ore di discussione: confermando quell’immagine che di loro hanno costruito i mass media, dichiarano ufficialmente il proprio ruolo di capi storici delle Br, in ottemperanza dell’importanza riconosciuta ai protagonisti della storia, simboli delle generazione future. “Avremmo recitato la parte che la storia ci aveva assegnato” <215. Inizialmente non sanno come comportarsi. Inizia allora lo studio della situazione per evitare di fare passi falsi. Sono rinchiusi nell’aula bunker del tribunale di Torino. I mass media li presentano come i veri burattinai dell’azione Moro, mentre loro invece ne sanno ben poco. In una intervista rilasciata ad Alberto De Bernardi, Franceschini avrà modo di raccontare come “la definizione di capi storici non ce la siamo dati noi, l’hanno inventata i magistrati e i giornalisti, però noi l’abbiamo accolta e abbiamo iniziato a recitare la parte dei capi storici. Ci siamo sentiti dei piccoli Lenin, dei piccoli Stalin o dei piccoli Marx” <216. Ruolo fondamentale hanno in questo senso i mezzi di comunicazione i quali, secondo il giudizio dell’autore, sarebbero i principali artefici della celebrità assunta non solo dai brigatisti direttamente implicati nel sequestro Moro, ma anche di quelli detenuti. Continua Franceschini “è indubbio che le nostre azioni erano progettate per fare casino, per trovare spazio sui mass media […] Da un certo momento in poi, i mass media diventano sempre più un interlocutore, quasi l’interlocutore principale del nostro pensare e agire. E quindi poi i mass media a loro volta, vincolano un’immagine di un certo tipo delle Br dentro la quale, io credo, noi stessi ci lasciamo intrappolare. Per cui, verso la fine degli anni Settanta, diventa difficile capire quanto c’è di nostro, prodotto da noi e quanto invece c’è di immagine costruita dai mass media” <217.
[…] Cominciano a sorgere problemi in carcere anche tra i compagni, i quali non vogliono più condividere la cella con i “capi” per paura di essere uccisi. Quando il comunicato numero 8 annuncia che la condizione per la scarcerazione di Moro è la liberazione di 13 detenuti, tra cui anche Franceschini stesso, si rendono conto che l’operazione fallirà. Sensazione che viene maggiormente avvalorata da quel falso comunicato che annuncia la morte di Moro. Scrive Franceschini “quel falso comunicato deve avergli fatto capire nel modo più chiaro e definitivo che, sulla sorte del presidente della Dc, si stanno intrecciando interessi e giochi che travalicano ciò che dal sequestro vogliono ottenere. Pensano di non poter resistere a lungo, di essere costretti a eliminare l’ostaggio senza aver raggiunto l’obiettivo principale che si erano prefissi: il riconoscimento politico delle Br. A noi questa sembra una posizione sbagliata e priva di ogni possibilità di successo […] Che ce ne saremmo fatti poi di questo riconoscimento? non abbiamo posti da occupare in un qualche parlamento e una forza rivoluzionaria deve farsi riconoscere soprattutto dagli strati sociali a cui fa riferimento […] non dalle istituzioni nemiche […] ci sembra la conferma più chiara di quella mentalità burocratica e formalista che dopo gli arresti mio e di Renato e la morte di Mara aveva lentamente ma decisamente preso il sopravvento nell’organizzazione. Anche il voler dare all’azione un senso di un processo alla Dc e alle sue strutture di potere è riduttivo. Noi vi vediamo una continuità con quel che avevamo cominciato a dire e fare quando il termine compromesso storico era entrato nella vita politica italiana: il sequestro Moro si presenta, oggettivamente, come un attacco a questo progetto […] che le Br lo vogliano a meno […] C’è da fare solo una cosa quindi, trattare a qualunque costo per rompere quel fronte della fermezza […] incrinare […] la saldatura tra democristiani e comunisti che costituisce il vero cuore dello Stato”. <221
[…] Unica risposta che arriva dall’esterno è quella di Valerio Morucci <232 e Adriana Faranda, brigatisti partecipanti all’operazione Moro, provenienti da Potere Operaio ed entrati nelle Br nel 1972. Nel documento scrivono della loro decisione di dissociazione a causa del disinteresse mostrato dalle Br nei confronti del movimento di massa nascente. È la prima volta che i brigatisti detenuti apprendono dei dissidi interni che l’organizzazione sta vivendo. Si pone la questione del come reagire a tale situazione. Inizia un intenso periodo di studio. I capi storici detenuti decidono che non è più possibile lasciare l’organizzazione in mano a personaggi come Moretti, non in grado gestire politicamente la lotta armata. Si dividono in gruppi di lavoro, aventi come punti di riferimento la sinistra francese di Althusser e l’opposizione a Toni Negri e ad Autonomia Operaia. Discutono a lungo su quella che, ai loro occhi, sarà la nuova direzione teorica delle Br. Scrive Franceschini “oggi potrà sembrare una discussione tra pazzi fuori dal mondo. Ma allora era per noi un dibattito di grande importanza, riguardava direttamente e concretamente la prospettiva del
nostro progetto […] la tesi mia e degli altri compagni presupponeva una grande apertura dell’organizzazione ai nuovi movimenti del Paese […] quella di Renato invece […] a un’apertura più oculata e selettiva” <233.
[NOTE]
213 “Processo al nucleo storico delle Br”, iniziato il 9 marzo 1978
214 A. Franceschini, P.V. Buffa, F. Giustolisi, op. cit, p. 150
215 ivi,p.153
216 Intervista ad Alberto Franceschini in tesi di laurea relatore Alberto de Bernardi, op. cit., p. 263.
217 Ibidem.
221 A. Franceschini, P.V. Buffa, F. Giustolisi, op. cit, p. 155
232 “Lo avevo conosciuto nel 1972. Stavamo riorganizzando le Br dopo la prima ondata di arresti e Valerio ci aveva fatto sapere più volte che voleva parlarci. Era il capo del servizio militare di Potere Operaio […] considerato un esperto di armi […] Lo avevamo incontrato io e Mario […] a Milano […] davanti alla Breda […] perché volevamo dare a lui , studente romano, l’immagine delle Br operaie […] dirgli che al Nord non era come a Roma, non giocavamo a fare la guerra, la facevamo sul serio. Arrivò in Mini-minor, una giacca blu con bottoni d’oro, camicia di seta, cravatta, occhiali Ray-ban: sembrava un fascistello sanbabilino […] Nessuno era d’accordo nell’accogliere Valerio. La nostra diffidenza per quelli di Potere Operaio era congenita, li consideravamo dei mezzi aristocratici che volevano giocare alla rivoluzione. Mi fu sufficiente raccontare ai compagni come si era presentato vestito […] Si decise soltanto di continuare a tenere con lui il rapporto che già avevamo, esclusivamente logistico, e di cui venne incaricato Mario, l’unico che aveva cercato di difendere seppur timidamente la sua causa. Fu tramite Mario che Valerio mi propose di cedergli le due pistole tedesche. Sono vecchi catenacci, gli aveva detto […] in cambio di quattro Beretta 7,65 nuove […] Con loro avevo un rapporto affettivo ma […] i bisogni dell’organizzazione dovevano prevalere […] Dopo molti anni, nel carcere di Trani, Valerio mi disse che aveva utilizzato le pistole più volte: ce le aveva chieste perché conosceva la loro efficienza e anche la nostra inesperienza”, ivi, p. 169.
233 Ivi, p. 172
Roberta Nicosia, Brigate Rosse. Rote Armee Fraktion. Una proposta di lettura dell’estetica della politica, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Catania, 2014

Dalle implicazioni politiche nazionali ai coinvolgimenti internazionali, dall’analisi documentale delle carte delle Commissioni parlamentari a quella delle carte di Moro, lettere e memoriale, dai resoconti dei testimoni oculari alle dichiarazioni degli stessi brigatisti, passando per le inchieste ufficiali e le responsabilità accertate ma anche per le ipotesi di complotto, i segreti di stato, le verità nascoste e le mezze verità, e ancora le indagini maldestre, le manovre sbagliate, i reperti scomparsi, i depistaggi mirati, i tentativi falliti, le mediazioni ambigue, le manovre occulte.
Tra la copiosa bibliografia relativa al caso Moro e i numerosi lavori storiografici sulla vicenda, destano davvero molto interesse gli studi che si sono concentrati proprio sull’analisi del rapporto tra la ricostruzione storica e cronologica degli eventi e la sua rappresentazione mediatica.
[…] Sull’altro versante, invece, si trovano coloro che hanno dato inizio a tutto, le Brigate rosse, il cui ruolo, all’interno della logica del dramma, non viene mai messo in discussione o in dubbio, sebbene le istituzioni si dichiarino assolutamente ferme nel negare loro un riconoscimento legittimo. Ciò tuttavia non impedisce di tenere sempre nella dovuta considerazione la loro posizione e i loro pronunciamenti. I brigatisi, più di chiunque altro, hanno da subito la piena consapevolezza dell’enorme carica mediatica dell’evento che hanno scatenato. Fin dall’inizio pensano la loro azione in funzione dei media e agiscono attraverso di essi. Oltre dieci anni più tardi, in un’intervista concessa a Sergio Zavoli, rispondendo alla domanda su che cosa avrebbe accettato di farsi dire da Eleonora Moro in un ipotetico incontro, Mario Moretti dichiarerà:
“Tutto, tutto ciò che lei avesse eventualmente da dire… Per me può essere anche importante, mi va bene che venga ucciso il personaggio Moretti. È un personaggio dei media, al quale io non tengo minimamente perché la persona Moretti, chi mi conosce, sa che è diversa”. <9
Scena e retroscena, dunque. Personaggi e interpreti. Sceneggiatura e regia. Il tutto a conferma, ancora una volta, dell’assoluta imprescindibilità del fatto reale dall’evento mediatico.
[…] L’altro ordine di notizie riguarda invece tutte quelle piccole incursioni che di tanto in tanto alcuni singoli giornalisti attuano nel flusso dell’informazione ufficiale, offrendo quel dato particolare, quell’elemento nuovo, quel dettaglio in più scovato grazie alla loro intraprendenza e alla loro professionalità. Mi riferisco a quelle notizie passate spesso e velocemente in secondo piano, poco valorizzate, immediatamente smentite o addirittura cancellate, informazioni di cui si tende a sminuire l’importanza non dando ad esse un seguito, evitandone la ripetizione tra un’edizione e l’altra del Tg, fino a farle rapidamente scivolare nel dimenticatoio. Un esempio su tutti: la notizia riportata dal corrispondente da Torino Giancarlo Carcano, lo stesso 16 marzo, delle voci insistenti che circolavano a Torino appunto (dove ricordiamo si stava svolgendo il processo ai capi storici delle Br) e a Milano (altra città-base dei brigatisti) che identificavano in Mario Moretti uno degli organizzatori dell’attentato di via Fani e soprattutto lo indicavano come strettamente collegato ai servizi segreti. Questo è stato uno dei punti su cui più di tutti si è dibattuto nel corso degli anni: già da quel 16 marzo si sarebbe potuta individuare una pista utile alle indagini, un elemento in più su cui lavorare, ma inspiegabilmente non si diede affatto seguito alla segnalazione che cadde così nel vuoto e non venne mai più ripetuta.
[…] Cronaca televisiva dell’epoca come fonte, si è detto, una fonte ausiliaria e importante per ciò che rivela ma anche per ciò che non rivela: quegli stessi vuoti di notizie o silenzi dell’informazione che, svelati a distanza di anni, nel corso delle varie inchieste e delle stesse ricerche storiografiche, assumono nuova luce e nuovi significati o inducono per lo meno ad una più attenta e responsabile riflessione storica sulla politica e sulla società del nostro paese in un periodo così difficile e complesso come quello degli anni Settanta.
Ma proprio su questo punto, all’interno della trattazione del caso Moro, emergono le criticità e si rivela una storiografia divisa, tra i sostenitori della tesi dell’esclusiva responsabilità “interna” alle Brigate rosse e al quadro socio-politico nazionale e coloro che invece evidenziano le numerose incongruenze, gli strani vuoti, le sospette mancanze o gli apparenti fallimenti, elementi che sembrano essere, se non palesemente “opportuni” e tempestivi, quanto meno troppo evidenti o decisamente troppo frequenti per poter essere liquidati semplicemente come fatali coincidenze o tragici errori.
Non si tratta di voler perseguire a forza la teoria del complotto o di ispirarsi ciecamente a prevenute dietrologie: si suggerisce soltanto di analizzare i fatti rigorosamente nel modo e nei tempi in cui sono avvenuti e in cui sono stati presentati, o meglio, rappresentati dalla cronaca dell’epoca, cercando di prenderli esattamente per quello che sono, per poi calarli nel contesto storico di riferimento e valutarli in merito.
[NOTA]
9 Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, cit. pag. 318.
Ilenia Imperi, I 55 giorni del caso Moro: l’evento mediatico nella ricostruzione storica, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia – Viterbo, 17 giugno 2013