Zoli affidò la vicepresidenza a Pella e l’importante ministero della Giustizia a Gonella

Rispetto al contesto internazionale, la rivoluzione ungherese e il XX Congresso del Pcus avevano avuto, comprensibilmente, una grande eco in Italia. Le principali questioni all’ordine del giorno per gli osservatori americani erano le ricorrenti voci di riunificazione socialista – con le nefaste conseguenze che avrebbe comportato – e la perenne instabilità governativa che, in seguito, avrebbe condotto alla fine del governo Segni. Dei movimenti sulla destra dello schieramento politico, ossia dei progetti di “grande destra”, si dirà più avanti.
La possibilità della riunificazione socialista sembrava imminente al congresso di Venezia del febbraio 1957. Nenni, data l’indisponibilità della Dc e l’embrionale sganciamento dai comunisti, vedeva di buon occhio la fusione col Psdi di Saragat. Secondo il leader socialista poteva essere l’occasione per aumentare il potere contrattuale del Psi e porsi, in questo modo, come forza alternativa ai tre partiti laici <4. A Venezia, dunque, il partito di Nenni intendeva porre le basi per muoversi in tale direzione. Naturalmente, questo preoccupava i funzionari dell’ambasciata e del Dipartimento di Stato poiché poteva significare – alla luce del costante declino di liberali e repubblicani – l’anticamera della fine del centrismo. I risultati dell’assise, comunque, offrirono ben poche certezze per il futuro dei socialisti.
[…] Insomma, il governo Segni non era ritenuto «sotto immediata pressione». La riuscita del congresso non preoccupava più di tanto l’amministrazione Eisenhower, e Nenni era considerato ancora poco affidabile, nonostante l’allontanamento dal Pci <6.
Oltre agli sviluppi in campo socialista, anche la difficile coabitazione tra i partiti laici avrebbe potuto minare gli equilibri interni all’esecutivo. Che i rapporti tra socialdemocratici, repubblicani e liberali non fossero idilliaci non era un mistero. In particolare, la possibilità – tutta da verificare – di aprire a Nenni iniziava a comparire nell’orizzonte politico di Psdi e Pri. I liberali, invece, si contraddistinguevano per la chiusura irrevocabile di fronte a una prospettiva simile. Tant’è che dalla storiografia è stato messo in rilievo come un comportamento del genere abbia pregiudicato una possibile via d’uscita dal centrismo alternativa all’incontro tra democristiani e socialisti <7.
Con la questione dei patti agrari la rottura tra i partiti della coalizione divenne insanabile. Il disegno di legge prevedeva il principio di giusta causa come elemento-chiave per la disdetta del contratto. Tale soluzione, però, veniva osteggiata dai repubblicani, che uscirono dal governo passando all’opposizione. A conferma del momento difficile e caotico che stava attraversando la maggioranza, c’è da dire che Segni pose la fiducia sul provvedimento alla Camera, dove incassò un voto favorevole ma estremamente risicato. Con la nomina di Togni – uomo della destra democristiana – alla guida del dicastero delle Partecipazioni statali la situazione peggiorò ulteriormente. Il partito di Saragat aspirava all’incarico e certo non aveva gradito la decisione del governo, che andava a incidere negativamente sull’ambizione riformista del governo. Si legge su «La Giustizia», organo del Psdi: «la crisi della politica di solidarietà democratica, di cui la secessione del Pri e gli atteggiamenti di alcuni gruppi di minoranza degli altri partiti democratici hanno sottolineato l’esistenza […] pone in grave difficoltà l’attuale governo che non ha più il necessario appoggio per condurre un’efficace azione riformatrice».
Alle tensioni e alle speranze relative all’unità socialista si sommava l’insoddisfazione per un quadripartito ritenuto ormai in via d’esaurimento. Dopo i repubblicani, anche i socialdemocratici ritirarono il loro appoggio, rendendo così inevitabili le dimissioni di Segni.
In circa ventidue mesi, peraltro, il governo era stato piuttosto attivo sia in politica interna che internazionale. Si pensi all’istituzione della Corte costituzionale e del ministero delle Partecipazioni statali, oppure – a livello europeo – alla firma dei trattati di Roma, che furono alla base della Comunità economica europea: senza dubbio un avvenimento di portata storica <8.
Scarsa è stata l’attenzione dedicata dagli americani all’ennesima crisi politica italiana. Nonostante la causa «immediata» fosse considerata l’uscita dei socialdemocratici dal governo, esistevano una serie di cause più profonde. Ovvero «l’incapacità dei partiti di centro di accordarsi in periodo pre-elettorale, il factionalism all’interno degli stessi partiti e l’obiettivo, sempre più evidente, della Dc di assicurarsi una maggioranza assoluta alle prossime elezioni a spese dei partiti laici di centro» <9. Se i primi due aspetti sono, in larga misura, condivisibili, lo stesso non può dirsi per il desiderio della Dc di fare a meno di Psdi, Pli e Pri. Erano, al contrario, proprio i democristiani a rendersi conto di non poter prescindere dagli alleati, dato che era presto per aprire ai socialisti e la destra continuava ad essere, nello stesso tempo, divisa e impresentabile.
La soluzione obbligata, dunque, rimaneva ancora il quadripartito. È vero, se mai, che nella seconda metà degli anni Cinquanta veniva inaugurata la pratica del «governo ai margini» più che dell’aspirazione – esauritasi nel ’53 – a un utopico governo democristiano indipendente dai partiti minori.
Ha scritto Scoppola che «al mancato rafforzamento dell’esecutivo supplisce […] l’estendersi di una deteriore prassi di utilizzazione del potere ai fini del consenso. Le accresciute competenze dello Stato nel campo dell’economia, con lo sviluppo delle “partecipazioni statali”, favoriscono questa tendenza. Anche l’opposizione comunista entra progressivamente in questa logica e fa concorrenza alla maggioranza sul terreno della politica delle categorie» <10.
Ai responsabili del NSC [National Security Council] sfuggiva questo carattere tipico del nostro sistema nella fase del “centrismo instabile”. La Democrazia cristiana, si potrebbe dire, quasi non aveva bisogno della maggioranza assoluta. Grazie alla rendita di posizione derivante dall’occupazione – non in toto, naturalmente, ma in buona parte – dello Stato <11, il governo veniva, appunto, relegato ai margini.
Alla luce dell’intricata situazione, Gronchi pensò che l’unica soluzione possibile fosse un governo monocolore che tentasse di ottenere la fiducia. Per il delicato compito venne incaricato [maggio 1957] Adone Zoli, antifascista di rilievo, ex consigliere del partito popolare di Sturzo e, poi, tra i fondatori della Democrazia cristiana. Nel cercare di intercettare i consensi, o perlomeno l’astensione, di socialisti e monarchici, Zoli affidò la vicepresidenza a Pella e l’importante ministero della Giustizia a Gonella. Il nuovo governo, però, continuava ad essere osteggiato da repubblicani e socialdemocratici, mentre monarchici e missini intravedevano possibilità di inserimento sfruttando le tensioni tra i partiti laici <12. In occasione del voto di fiducia, proprio la partecipazione dei neofascisti si rivelò determinante. Da un lato, innescò una sorta di crisi istituzionale tra Zoli e Gronchi. Dall’altro, fu il momento in cui i missini, dopo il congresso di Milano in cui era prevalsa di misura la linea dell’inserimento, passarono dalle parole ai fatti.
Presentando il programma – non molto diverso da quello dei suoi predecessori – Zoli dovette subito constatare la contrarietà non solo dei comunisti, ma anche di repubblicani, socialdemocratici, socialisti e liberali. Insomma, solo la destra era pronta a sostenere il nuovo esecutivo. Questo andava inevitabilmente contro il radicato sentimento antifascista di Zoli, che non tardò a stigmatizzare così l’eventuale appoggio dei missini: «i vostri voti, perciò, che non vi ho richiesto, che non vi sollecito, che non vi solleciterei mai, non potranno cambiare, nonostante tutti i vostri esperimenti, né i miei connotati né i connotati del Governo» <13.
In tale clima, superato l’esame al Senato con i voti, non determinanti, del Msi, si attendeva con ansia il delicato passaggio alla Camera. Come nella precedente votazione, Zoli pensava di detrarre i voti dei neofascisti da quelli favorevoli <14. Naturalmente, assai negativa fu la reazione del Movimento sociale italiano. Roberti, capogruppo alla Camera e tra i deputati più attivi nel difendere la legittimità del voto, in una ricostruzione di quella particolare congiuntura, così ha ricordato l’esecutivo del successore di Segni: “Il ministero Zoli dunque, che durò circa un anno, fino alla scadenza della legislatura, fu sostanzialmente di ordinaria amministrazione: ma assunse per noi un’importanza fondamentale per un episodio che determinò la dichiarazione formale di piena costituzionalità della nostra formazione politica, smentendo clamorosamente la taccia di illegittimità ripetutamente lanciata contro di noi dalle altre forze politiche per discreditare di fronte all’elettorato il nostro partito e, con esso, la possibilità di una valida e consistente opposizione nazionale” <15.
Se in prima battuta sembrava non esserci alcun problema, dopo un secondo controllo emerse un disguido nel conteggio che fece salire la maggioranza necessaria. A questo punto il Msi, per un solo voto, era determinante. E i voti missini, sebbene «non richiesti» arrivarono, aprendo – paradossalmente – una crisi per un esecutivo che aveva i numeri per governare. Coerentemente con quanto dichiarato in precedenza, Zoli rassegnò le proprie dimissioni a Gronchi. Seguirono i tentativi, senza successo, di Merzagora e di Fanfani. Alla fine, il presidente della Repubblica decise di respingere le dimissioni e riaffidare l’incarico sempre a Zoli, il quale – solo ed esclusivamente per dovere istituzionale e per traghettare l’Italia alle elezioni politiche del ’58 – accettò.
Comunque, la vicenda mise in luce che la destra – missina, assai più di quella monarchica – era in grado di sfruttare la litigiosità dei partiti di centro e i timori dell’apertura a sinistra. Parimenti, l’episodio dei voti determinanti per la fiducia portò all’attenzione un problema presente nel partito fin dall’origine. Ritenuto antisistema e illegittimo, nonché orgogliosamente rivendicato come tale da tanti suoi componenti, il Msi era arrivato a sostenere un governo della Repubblica a guida democristiana. In altri termini, l’equivoco dei «fascisti in democrazia», come aveva affermato Almirante nel ’56, sembrava essersi risolto a favore dell’opzione democratica all’interno, ma rimaneva tutt’altro che accettato all’esterno, ovvero nell’arena parlamentare <16.
Infine, il tormentato negoziato tra governo e Quirinale, la lotta interpartitica e infrapartitica, la confusione in campo socialista, il nodo di una destra che esiste ma non conta erano tutti aspetti peculiari di un momento di transizione. O forse sarebbe meglio dire del caos politico imperante nell’Italia della seconda metà degli anni Cinquanta.
Vale la pena riportare, in proposito, la convincente e ragionata sintesi di Francesco Malgeri: “La tormentata vicenda del governo Zoli svelava, in termini molto chiari, la precarietà di un quadro politico che appariva impotente ad esprimere una maggioranza di governo stabile e consistente. I tradizionali partiti di governo, che avevano garantito la stabilità politica per circa un decennio, apparivano condizionati da preoccupazioni, interessi e orientamenti che mal si conciliavano con la necessità di offrire al Paese una maggioranza stabile. Ad una Dc, che rimaneva ferma nella esigenza di proseguire nella politica di solidarietà tra i partiti democratici di centro, per evitare lacerazioni interne che potevano verificarsi a seguito di aperture a destra o a sinistra, si contrapponevano i partiti di centro, le cui posizioni e prospettive si scontravano con l’esigenza della governabilità, facendosi, tra l’altro, complici nel favorire l’equivoco di un governo in grado di sopravvivere solo grazie al sostegno della destra, e, pertanto, oggetto di ricatti e di condizionamenti. Una realtà molto complessa, che era l’espressione di quella che “Il Mulino” definì «processo di abbassamento e disfacimento delle contrapposizioni politiche e ideologiche del nostro paese» <17.
[NOTE]
4 Su tali vicende si vedano almeno P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), Il Mulino, Bologna, 1997, p. 350; P. Di Loreto, La difficile transizione. Dalla fine del centrismo al centrosinistra 1953-1960, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 171-203; F. Malgeri, La stagione del centrismo. Politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra, 1945-1960, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, pp. 245-246.
6 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 108-111.
7 Si veda soprattutto il numero monografico, significativamente intitolato I liberali nella Repubblica: l’alternativa sconfitta, di «Ventunesimo Secolo», n. 15, a. VII, gennaio 2008. Utili osservazioni in G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra. La Dc di Fanfani e Moro 1954-1962, Vallecchi, Firenze, 1977, p. 11
8 F. Malgeri, La stagione del centrismo, cit., pp. 265-268 da cui è tratta la citazione de «La Giustizia»; N. Kogan, Storia politica dell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 1990, pp. 128-129; P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 218-219.
9 Progress report on United States policy toward Italy (NSC 5411/2), September 3, 1957, NARA, RG 273, Records of the National Security Council (NSC), Policy Papers 5410-5413, Box 30, f. NSC 5411/2. Si veda anche E. Ortona, Anni d’America, cit., pp. 243-244.
10 P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., pp. 271-272.
11 Su questo si vedano R. Orfeo, L’occupazione del potere. I democristiani ’45-75, Longanesi, Milano, 1976; P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 2006, pp. 193-249.
12 F. Malgeri, La stagione del centrismo, cit., p. 269.
13 A. Zoli, Discorsi parlamentari, Senato della Repubblica, Roma, 1989, p. 886.
14 Rivolgendosi ai missini, Zoli affermò: «Non ho alcun intendimento di offenderli, ma debbo confermare quello che dissi al Senato e cioè che, quale che sia il risultato della votazione ed anche se questa mia decisione dovesse indurmi a proporre al Consiglio dei ministri di rassegnare il mandato, nonostante l’apparente fiducia, io detrarrò dal calcolo dei voti favorevoli i voti del Movimento sociale italiano», Atti Parlamentari, Camera dei Deputati (d’ora in poi AP, CdD), II Legislatura, Discussioni, Seduta del 7 giugno 1957, pp. 32580-32581.
15 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia 1946-1979, Gallina, Napoli, 1988, p. 111.
16 Per una lettura critica dell’appoggio missino e della condizione del partito in quegli anni si veda P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo. Da Salò ad Almirante. Storia del Msi, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 114. Secondo Baget Bozzo si trattava di una manovra complessa orchestrata dalla Dc, e in particolare da Fanfani: «cominciare ad avviare il dialogo con il Psi sul piano sociale con la copertura della destra sul piano politico. […] Fanfani offre dunque un accomodamento alle destre e garantisce loro un sostegno economico. La destra monarchica è ormai costituita da un insieme di casi personali. Il Msi è in mano al pragmatico Michelini, che accetta per principio qualunque avvicinamento possibile al governo, certo che ciò trova l’appoggio della base più ampia del partito e dell’elettorato», G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 108.
17 F. Malgeri, La stagione del centrismo, cit., p. 276. Si veda, inoltre, l’accurata ricostruzione di P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 218-227.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009/2010