C’erano le rappresaglie, ma cosa avremmo dovuto fare? Smettere la lotta?

Onorina Brambilla
Fonte: Wikipedia

“Ricordo i chilometri in bicicletta o a piedi per la città, a ogni ora e con ogni tempo, col sole o con la pioggia, spesso passando con il cuore in gola in mezzo ai nazifascisti”.
«Avevamo tutti un nome di battaglia, io mi ero scelto Sandra; ho fatto una ricerca: mentre gli uomini partigiani si sceglievano nomi fantasiosi, Tarzan, Saetta, Lupo, la maggior parte delle ragazze avevano nomi normali…Elsa… ecco, il massimo era Katia!».
Di famiglia antifascista e comunista, Onorina Brambilla abita con i genitori e la sorella Wanda in una casa di ringhiera ai Tre Furcei, quartiere operaio di Lambrate a Milano. Il padre Romeo, “specializzato” alla Bianchi, fabbrica di biciclette, rifiuta di prendere la tessera del partito fascista; ne conseguono anni di disoccupazione e miseria.
Con la guerra di aggressione all’Abissinia, nel 1935, viene però a mancare la mano d’opera ed è assunto alla Breda. La madre Maria (il suo nome di battaglia negli anni della Resistenza sarà Tatiana) insegna alle figlie Onorina e alla più piccola Wanda a dubitare della propaganda del regime; è operaia, prima alla Agretta, nota per le bibite, e poi alla Safar che produce radio: «Aveva una voce così bella che veniva chiamata a cantare per testare certi microfoni». Desidera per la figlia l’istruzione che la allontani dal duro lavoro della fabbrica.
Onorina frequenta per tre anni una scuola professionale; le piacerebbe continuare a studiare ma i genitori possono solo iscriverla a un corso trimestrale di stenodattilografia dopo il quale, a 14 anni, deve cercare un lavoro.
Viene assunta dalla Paronitti come impiegata: «Non arrivavo neanche alla scrivania e i colleghi mi chiamavano Topolino, dovevano mettermi dei cuscini sulla sedia per alzarmi».
Dal 10 giugno 1940 l’Italia è in guerra.
Onorina rimane in quella ditta 4 anni, ma viene licenziata nel 1941 a causa di un diverbio con il padrone. Trova presto un nuovo impiego in una ditta che produce binari, è incaricata di compilare un inventario, frequenta i capannoni annotando tutto, conosce gli operai, impara a individuare chi è antifascista e chi no. Comincia a studiare l’inglese al Circolo Filologico di Via Clerici: in quella biblioteca circolano ancora, incredibilmente, molti libri vietati dal regime, preziosi per la sua formazione.
La fame si fa sempre più sentire, la gente non ne può più, la guerra toglie il velo a tutte le menzogne della propaganda di regime. La caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 coglie la gente di sorpresa, festa e disorientamento sono tutt’uno, i carri armati vengono usati per disperdere la folla. Nell’Agosto 1943 Milano viene bombardata.
La città è in fiamme, colpiti il Duomo, Palazzo Reale, il Castello Sforzesco, la Scala, Sant’Ambrogio, la Pinacoteca di Brera; a Santa Maria delle Grazie il Cenacolo di Leonardo è salvo per puro caso.
Nel rifugio affollato, una sera Onorina non riesce a trattenere la gran rabbia e, salita su un tavolo, senza curarsi dei molti fascisti presenti, grida «È ora di finirla con questa guerra!» È contenta, ha tenuto il suo primo comizio antifascista.
«Secondo me sono state le donne a dare inizio alla Resistenza… la loro partecipazione fu dovuta a motivazioni personali; a differenza di molti uomini che scelsero di andare in montagna per sottrarsi all’arruolamento nell’esercito di Salò, nessun obbligo le costringeva ad una scelta di parte; fu anche l’occasione per affermare quei diritti che non avevamo mai avuto, mai come in quei mesi ci siamo sentite pari all’uomo…»
Dopo l’Armistizio dell’8 Settembre 1943 (in effetti una resa senza condizioni), i tedeschi occupano Milano, è finita una guerra ma ne sta iniziando un’altra. I soldati dell’esercito Italiano abbandonano le divise, molti diventano partigiani; i Gruppi di Difesa della Donna (che arrivano a mobilitare, fino all’aprile ’45, almeno 24.000 donne) si occupano di procurare loro denaro, cibo, vestiti; il compito di Onorina è distribuire la stampa clandestina. Desidera raggiungere in montagna una Brigata Garibaldi, ma la sua amica Vera (nome di battaglia di Francesca Ciceri, comunista) le presenta Visone (Giovanni Pesce) che sarà il suo Comandante e futuro marito. Lui la convince a combattere nella propria città, e Onorina a marzo 1944 lascia il lavoro. “Sandra” diventa Ufficiale di collegamento del III° ー Gap “Egisto Rubini”, equivalente al grado di sottotenente dell’Esercito Italiano, decisamente più che una staffetta. Con la sua bicicletta Bianchi color azzurro cielo trasporta armi, munizioni ed esplosivo, passa spesso, con il cuore in gola, in mezzo ai rastrellamenti nazifascisti. Sono le staffette a portare le armi e a prenderle in consegna dopo un’azione per evitare che i gappisti vengano sorpresi armati e fucilati sul posto.
«C’erano le rappresaglie, ma cosa avremmo dovuto fare? Smettere la lotta? In ogni caso i nazifascisti non avrebbero cessato di fare quello che facevano. Non ho mai provato pena per chi colpivamo. La guerra non l’avevamo voluta noi. Loro ogni giorno fucilavano, deportavano, torturavano. Si dovevano vincere due cose, la pietà e la paura.»
Il 24 giugno 1944 nella “battaglia dei binari” alla stazione di Greco, un bersaglio di straordinaria importanza, Sandra è il collegamento tra i ferrovieri e i gappisti e con la compagna Narva porta i 14 ordigni che, piazzati nei forni di combustione delle locomotive scoppiano simultaneamente; l’azione dei Gap viene citata da Radio Londra.
Il 12 Settembre 1944, a 21 anni, tradita da un partigiano passato al nemico (“Arconati”, Giovanni Jannelli) viene catturata dalle SS nei pressi del Cinema Argentina, nel cuore di Milano. Inizia la prigionia, la sofferenza, il distacco dalla famiglia, la tortura e la violenza fisica subita dalle SS nella Casa del Balilla di Monza, trasformata in carcere.
In attesa dell’interrogatorio cerca di farsi coraggio. Ai gappisti arrestati il Comando chiede di resistere 24 o 48 ore per permettere ai compagni di mettersi in salvo. L’interrogatorio è terribile, vogliono che lei consegni Visone, ore e ore di percosse, torture. Non parla, nessuno dei suoi compagni è compromesso.
Rimane in isolamento totale nel carcere di Monza due mesi, giornate lunghe e vuote, non può comunicare con l’esterno o ricevere notizie. È trasferita a San Vittore per soli due giorni e, l’11 novembre 1944, caricata, con altri prigionieri, su un pullman senza conoscere la destinazione.
Viene imprigionata a Bolzano in un campo di transito. Ancora oggi non si spiega perché le 500 prigioniere politiche che lì si trovavano non furono mai deportate in Germania, diversamente dalle altre 2700 donne che dall’Italia raggiungeranno i campi di concentramento. Mantiene contatti epistolari con la madre, la rassicura sul suo stato fisico e psicologico, riesce persino a scherzare: «se non fosse perché abbiamo sempre fame sembrerebbe una villeggiatura…» Lavora dapprima alla sartoria del campo, in un ambiente stretto e soffocante ma poi riesce a farsi assegnare ai lavori esterni. I tedeschi, prima di fuggire, le rilasciano persino un documento che attesta la prigionia e grazie al quale riuscirà in seguito a dimostrare la sua deportazione.
Milano era stata liberata dei Partigiani e dall’insurrezione popolare il 25 aprile. Onorina decide di non attendere l’arrivo degli americani; con alcuni compagni, sotto la neve, si inerpica sul passo della Mendola, attraversa la Val di Non e il Tonale; si fermano la notte presso i contadini ai quali chiedono cibo e riparo, sono d’aiuto i posti di ristoro dei partigiani delle Fiamme Verdi. Finalmente un pullman fornito dai comuni della zona fino a Ponte di Legno, li porta da lì a Lovere; poi in treno fino a Milano, Stazione Centrale: era il 7 maggio 1945. Con un’assurda “normalità” arriva a Lambrate, a casa, con il tram n. 7. Dalla finestra, vicina a Wanda, guarda emozionata la manifestazione dei Partigiani, rivede Visone, corre in strada, si abbracciano. Nori (come la chiamerà il marito) e Giovanni Pesce, finalmente liberi, si sposano il 14 luglio 1945, non possiedono niente, solo gioia per la ritrovata libertà e speranza per una nuova vita.
Ross Rox, Onorina Brambilla Pesce “Sandra”, Anpi Corsico per il 25 Aprile, 6 novembre 2020

Nella lotta partigiana, gli uomini si chiamano spesso Tundra, Lupo Rosso, Intrepido, Falco, Mitra, Lampo.
Onorina per sè sceglie invece un nome comune, per nulla epico.
Si chiamerà Sandra. Quasi a smentire la modestia del suo nome di battaglia, sarà insignita del Riconoscimento di partigiana combattente, con il grado di sottotente, del Certificato di patriota del Comando Alleato, della Croce al merito di guerra al Valor partigiano, e nel 2008 della Medaglia d’oro di Benemerenza del Comune di Milano.
Con il nome di Sandra, Onorina, vent’anni compiuti nell’estate cruciale del 1943, a piedi o in bicicletta percorre instancabile le strade di Milano.
Nell’organizzazione clandestina III GAP «Egisto Rubini», il suo compito è garantire il rapido passaggio delle comunicazioni partigiane, badando alla segretezza, alla completezza, e alla puntualità di ogni messaggio. Ogni ritardo e ogni imprecisione significano la cattura o la morte di un partigiano.
Onorina non trasporta soltanto messaggi. Consegna le armi ai gappisti, le riconsegna al Comando, le nasconde dopo le azioni, porta a destinazione i pacchetti di esplosivo, e nel giugno ’44 sarà lei l’agente di collegamento tra partigiani gappisti e ferrovieri della stazione Greco, quando 14 ordigni, piazzati nei forni di combustione delle locomotive, esploderanno nella cosidetta “Battaglia dei Binari”, citata anche da Radio Londra come operazione coraggiosa e esemplare.
La sua bicicletta azzurra passa accanto alle pattuglie nazifasciste, il suo passo sfiora i soldati tedeschi, la sua faccia giovane non tradisce nulla, ma il suo cuore – confesserà anni dopo in una intervista per l’Enciclopedia delle Donne – batte fortissimo di ansia e paura.
Onorina, ragazza di famiglia proletaria ed antifascista, nata in una casa di ringhiera nel quartiere operaio di Lambrate, avrebbe voluto arruolarsi tra i partigiani della montagna, schierarsi a viso aperto contro gli occupanti tedeschi e contro i fascisti, i nemici di sempre che, negli anni ’30, avevano fatto licenziare suo padre, colpevole di non essersi tesserato al PNF. Onorina vorrebbe combattere con i Garibaldini e continuare così la lotta già iniziata nei Gruppi di Difesa della donna, che, a Milano, mobilita centinaia e centinaia di ragazze e di donne nella diffusione della stampa e nell’attività di sostegno alle prime bande della montagna.
La Resistenza ha deciso diversamente. «Mi fecero la proposta –dichiarerà in una intervista anni dopo – di entrare in una formazione armata clandestina».
L’organizzazione si chiama GAP (Gruppi di Azione Partigiana). In essa ogni componente vive l’esperienza durissima della clandestinità e dell’isolamento nella realtà urbana dove il rischio è altissimo, i rastrellamenti continui, e ogni faccia può essere quella di una spia.
Onorina accetta di diventare gappista. La scelta partigiana spezza ogni altro legame. Nel marzo del ’44 Onorina deve lasciare il lavoro, gli studi di inglese al Circolo Filologico di Via Clerici e la biblioteca del Circolo dove aveva scoperto ed amato alcuni libri vietati dalla censura fascista.
Diventa Ufficiale di Collegamento del III Gap (l’equivalente del grado di sottotenente dell’esercito) Impara a vincere la paura e a non cedere alla pietà. «C’erano le rappresaglie ma, cosa avremmo dovuto fare? Smettere la lotta? In ogni caso i nazifascisti non avrebbero cessato di fare quello che facevano. Non ho mai provato pena per chi colpivamo. La guerra non l’avevamo voluta noi. Loro ogni giorno fucilavano, deportavano, torturavano”.
Sarà tradita dalla spiata di un traditore, Giovanni Iannelli, e consegnata ai nazisti il 12 settembre 1944. Sarà portata a Monza, in cella di isolamento per sessanta giorni. Brutalmente picchiata, resisterà senza pronunciare un solo nome. Insieme ad altri detenuti politici, sarà deportata nel campo di concentramento di Bolzano, destinata al blocco F, e marchiata con il numero di matricola 6087. «Arrivammo al campo di concentramento di Bolzano il 12 novembre 1944. Fu in quella livida domenica mattina che per la prima volta vidi un campo di prigionia: le baracche, i prigionieri, le mura, i reticolati, le sentinelle sulle piazzole di guardia. Calci colpi di randello, frustate, accompagnati da urla terribili ci venivano inflitti per i più futili motivi. Guai a non osservare la brutale disciplina. Le punizioni avvenivano non solo nei blocchi, a volte si veniva portati nella palazzina del Comando, o nelle celle di punizione, che erano stanzette di cemento, buie e gelate.».
Onorina non sarà con i partigiani il 25 aprile. A fine aprile ’45, è ancora in marcia con un gruppo di ex prigionieri del campo sul passo della Mendola, la Val di Non e il Tonale. Arriverà a Milano il 7 maggio 1945.
Onorina e Giovanni Pesce
Scende dal tram n. 7. E’ Lambrate. Casa sua.
Per Onorina e il suo compagno Giovanni Pesce, nome di battaglia Visone, Comandante del III GAP, comincia un’altra storia.
Redazione, Onorina Pesce Brambilla, ANPI Pavia Sezione Onorina Pesce Brambilla

Agosto 1944 si chiude con l’uccisione della spia fascista Domenico Di Martino.
Avvocato, al servizio dell’OVRA sino al 1943, ora è dirigente dell’ufficio politico della Questura di Milano. Il delatore adotta le precauzioni più disparate. Non è mai solo, esce soltanto per recarsi in Questura o tornare a casa in via Telesio. E’ sempre scortato. La zona di via Telesio è completamente militarizzata, sede di comandi tedeschi e fascisti, è protetta da eccezionali misure di sicurezza. E’ consigliabile non sostare per più di qualche minuto per non essere fermati o considerati ‘individui sospetti’.
Nessuno dei gappisti conosce il volto del dirigente della questura. E’ quindi “Sandra” (Onorina Brambilla), a recarsi nel suo ufficio per ricevere un parere legale riguardo un fantomatico riconoscimento del figlio della sorella, nato da una relazione con un colonnello fascista morto in guerra. Il 1 settembre del 1944, Di Martino cadrà a pochi passi dal portone di casa colpito da tre colpi di pistola. La scorta non reagirà immediatamente.
Quando esploderanno i primi colpi contro i gappisti in fuga, sarà troppo tardi.
[…] Il 12 settembre alle 17 “Visone” ha un appuntamento con “Arconati” in Piazza Argentina. Janelli vuole proporre a Pesce la consegna d’un pacco d’armi. Nello stesso giorno cade in uno scontro a fuoco, nei pressi di Città Studi il gappista Romeo Conti e, nella stessa circostanza, ne rimane gravemente ferito un altro: Antonio Sironi ricoverato al Policlinico. Venuto a conoscenza dell’accaduto Pesce preferirà immediatamente organizzare la liberazione di Sironi (azione che ebbe successo grazie alla collaborazione del dottor Galletti, chirurgo dell’ospedale partigiano di via Hayez e medico al Policlinico) e a pochi minuti dall’incontro con Janelli, preferirà inviare “Sandra” in Piazza Argentina per comunicare lo slittamento dell’incontro.
Appuntamento che si trasformerà in una trappola tesa da “Arconati” al comandante dei GAP milanesi Giovanni Pesce!
Le staffette saranno arrestate e trasferite in primis al comando delle SS di Monza (dove verranno a lungo torturate dagli uomini di Werning), poi a San Vittore, terminando il loro lungo peregrinare al campo “di transito e di polizia” di Bolzano-Gries.
A seguito di questi ultimi arresti Pesce sarà costretto ad allontanarsi precauzionalmente in Valle Olona ritornando a Milano solo nel dicembre. La macchina di partito tesa alla protezione dei ricercati dalla polizia è già in moto, i collegamenti sono comunque spezzati.
[…]
Giorgio Vitale, L’altra Resistenza. I GAP a Milano, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, anno accademico 2008-2009

Come già accennato, le testimonianze di Giovanni Pesce costituiscono una delle principali fonti a cui attingere informazioni sull’attività dei Gap.
Le memorie della sua vita e della sua attività politica si possono rintracciare in diversi libri, <37 ma il fondamentale rimane sicuramente “Senza tregua”, <38 che costituisce il nucleo d’analisi di questo lavoro. Pubblicato per la prima volta ne La clessidra nel marzo 1967, è poi arrivato alla settima edizione nel marzo 2006. Ma è in “Soldati senza uniforme” <39, scritto nel 1950, che rintracciamo il fulcro di memorie che poi troveremo ampliato in “Senza tregua” e su cui sarà necessario svolgere un confronto.
Prima di intraprendere un viaggio nel testo è necessario innanzi tutto comprendere cos’è che ha permesso a Giovanni Pesce di diventare una sorta di “eroe” della Resistenza e per farlo è doveroso volgere uno sguardo alle esperienze di vita che più hanno contribuito a “forgiare il suo animo gappista”, in primis la partecipazione alla guerra di Spagna.
[…] Lasciata la Spagna e poi la Francia, Pesce rientrò in Italia nel 1940 ma fu subito arrestato e inviato al confino sull’isola di Ventotene, ove conobbe alcuni tra i massimi rappresentanti politici dell’antifascismo italiano.
Liberato nell’agosto del 1943, si unì alle prime formazioni partigiane e fu tra i fondatori dei GAP di Torino. Qui svolse, con il nome di battaglia “Ivaldi”, numerose azioni di sabotaggio contro l’occupante nazifascista e uccise diversi esponenti del regime fascista, spie e collaborazionisti, tra i quali il maresciallo della Milizia e amico personale di Benito Mussolini Aldo Mores, e il giornalista fascista Ather Capelli (31 marzo 1944). A Torino, il 18 maggio 1944, avvenne anche la morte di Dante Di Nanni, membro del GAP comandato da Pesce, subito dopo l’attentato contro la stazione radio dell’Eiar che disturbava le trasmissioni di Radio Londra.
In seguito a questi ultimi avvenimenti, nel mese di maggio 1944 Pesce si trasferì a Milano, dove riorganizzò la formazione locale. Qui operò con la staffetta partigiana “Sandra”, Nori Brambilla, che dopo la Liberazione, il 14 luglio 1945, divenne sua moglie.
[NOTE]
37 Vd. bibliografia.
38 G. Pesce, Senza tregua, Milano, Feltrinelli 1967.
39 G. Pesce, Soldati senza uniforme, Roma, Edizioni di Cultura Sociale 1950.
Valentine Braconcini, La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007-2008