I beni comuni nel costituzionalismo democratico: i lavori della Commissione Rodotà

Non stupisce che in uno scenario come quello attuale certa cultura giuridica cerchi la legittimazione storica tra le costruzioni dogmatiche del passato per costruire un diritto dei beni comuni che valichi i confini fra pubblico e privato. D’altronde per affrontare la crisi di legittimità che attualmente investe la democrazia (nello specifico, la democrazia rappresentativa) non si può prescindere da una rilettura del rapporto individuo-comunità che superi i termini in cui è stato pensato tanto dal liberalismo quanto dal socialismo del XIX-XX secolo.
Per capire come i beni comuni siano tornati all’attenzione della dottrina conviene prendere le mosse dal lungo percorso tecnico iniziato nel giugno del 2006 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, cui il referendum del giugno 2011 ha dato continuità. Lì, infatti, si mossero i primi passi per un ripensamento della tassonomia e del regime giuridico dei beni pubblici, a fronte di una normativa ancora troppo frastagliata, di allarmanti squilibri economici nei bilanci pubblici europei e, soprattutto, dell’ondata di privatizzazioni dei primi anni Novanta che testimoniò l’inadeguatezza dei presidi preposti a tutela del carattere pubblicistico di certi beni. Mentre le garanzie che accompagnano l’espropriazione di un bene sono molto significative, a conferma della vigorosa protezione che il nostro ordinamento liberale dà all’istituto della proprietà privata, quelle che condizionano la privatizzazione di un bene o di un servizio sono assai limitate e lasciano ampio margine di manovra alle subitanee politiche adottate dai Governi <64.
La cultura giuridica occidentale moderna, infatti, si è sviluppata tutta intorno alla dialettica Stato-proprietà privata, a partire dall’idea che quest’ultima necessitasse di una tutela forte nei confronti di uno Stato che durante il Novecento aveva svelato il suo volto più cupo con l’esperienza dei governi autoritari. Per questa ragione, la tradizione costituzionale liberale protegge adeguatamente il passaggio dal privato al pubblico, ma non viceversa <65. «Oggi tuttavia, nel mutato rapporto di forza fra Stati e settore privato (corporations multinazionali), anche e soprattutto la proprietà pubblica è bisognosa di tutele e garanzie di lungo periodo», perché l’alienazione sbrigativa di beni pubblici, «in ossequio all’ideologia secondo cui nel privato si vede ogni virtù economica e nel pubblico ogni vizio e spreco organizzativo», rischia di provocare danni alla solidità economica del Paese <66.
Tali premesse risultano fondamentali per comprendere quali esigenze hanno avviato i lavori della Commissione ministeriale presieduta da Stefano Rodotà, chiamata nell’estate del 2007 a riformare il Libro III del Codice Civile nella parte relativa alla disciplina dei beni pubblici: i sopravvenuti principi sanciti nella Costituzione italiana prima, e nei Trattati europei poi, nonché l’attuale crisi economica, hanno messo in evidenza la necessità di aggiornare le forme di tutela di certi beni che per natura richiedono una protezione di lungo periodo nell’interesse delle generazioni future <67.
I lavori si sono articolati in diverse fasi (raccolta degli elementi normativi indispensabili, audizione di autorevoli personalità accademiche, discussione teorica e stesura dei principi fondamentali della legge delega) e hanno condotto, nel febbraio del 2008, alla maturazione di un disegno di Legge Delega, successivamente recepito in due identiche proposte legislative presentate in Senato da un Gruppo Parlamentare e dal Consiglio regionale del Piemonte. Sebbene il progetto non sia decollato a causa del cambio di maggioranza parlamentare, i lavori della Commissione hanno prodotto comunque una buona sinergia tra accademia giuridica e istituzioni politiche, e hanno inaugurato un intenso dibattito dottrinale, soprattutto intorno alla nozione di “bene comune” ivi codificata.
L’elemento più innovativo e pregevole dell’attività della Commissione consiste nell’aver operato una vera e propria «inversione concettuale rispetto alle tradizioni giuridiche del passato», in linea con una recente dottrina secondo cui la funzione sociale non inerisce alla proprietà bensì ai beni <68. Gli addetti ai lavori, anziché classificare i beni in base al regime che vi sovrintende, hanno preferito coglierne anzitutto la rilevanza economica e sociale così da definirli come «oggetti, materiali o immateriali <69, che esprimono diversi “fasci di utilità”», ossia aggregati di interessi giuridicamente rilevanti, di natura anche non patrimoniale <70. È noto, infatti, che le res assumono un significato giuridico non solo nelle fonti ma anche nelle scale valoriali delle diverse culture giuridiche: ciò che è, di volta in volta, bene giuridico dipende dall’idea di utilitas che si prende a riferimento (pubblica o privata) <71, dalle modalità secondo cui essa si esprime (di carattere esclusivamente economico, di carattere interamente sociale oppure di carattere misto) e dai diversi piani di applicazione che la riguardano (tutela, circolazione, godimento in concessione); il combinato di queste due variabili “compone” la disciplina che vi sovrintende <72.
Di qui la scelta della Commissione di classificare i beni sulla base delle utilità che producono, ispirandosi ai principi costituzionali -sopravvenuti al Codice Civile- e alla tutela dei diritti della persona e degli interessi pubblici. La Costituzione, dunque, non è stata intesa solo come vertice del sistema delle fonti normative, ma ha funzionato da paradigma assiologico, avendo essa una «ruolo di legittimazione e limitazione dei pubblici poteri a garanzia della pace e dei diritti fondamentali» <73. I valori ivi sanciti sono stati il punto di riferimento privilegiato per la riscrittura del Libro III del Codice Civile, perché il diritto dei beni «costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa» <74.
L’opera di riforma mirava quindi a dare esecuzione economico-giuridica ad una precisa scala valoriale, recuperando l’attualità del modello di economia mista, così come esplicitato dall’art. 42 Cost. e dalle norme che regolano avanguardisticamente i beni culturali, il paesaggio e l’ambiente. I due problemi cui si è cercato di dare soluzione in quella sede sono: da un lato, la necessità di una più forte tutela di alcuni beni che costituiscono il «contesto identitario» del Paese dal quale dipendono i valori delle persone e la soddisfazione dei loro interessi fondamentali; dall’altro lato, l’urgenza di attenuare le difficoltà della finanza pubblica, attraverso nuove regole in materia di gestione dei beni pubblici, preferibilmente ispirate al criterio della loro valorizzazione <75.
In linea con questi obiettivi, la Commissione Rodotà ha riclassificato i beni secondo un approccio reicentrista, costruendo un sistema a partire dalle cose, e non dai soggetti titolari di diritti su di esse, in modo da determinare immediate ricadute sui diritti, la cui effettività può essere garantita solo a fronte di un certo regime. «La costruzione tassonomica proposta nell’articolato dello schema di disegno di legge si fonda e si snoda sulla ricostruzione e l’affermazione di principi che […] dovrebbero costituire criteri e direttive per successive regole applicative»: ci si riferisce, nello specifico agli articoli contenuti nella prima parte della Costituzione (artt. 2, 3, 9, 41, 42, 43) e al diritto pubblico europeo (ad esempio, il principio di coesione economico-sociale e territoriale di cui all’art. 16 ovvero l’art. 86 TCE <76) che in un certo senso costituiscono le basi per una vera e propria «filosofia dei beni comuni» ispirata ai principi del pieno e libero sviluppo della personalità umana, della solidarietà politica, economica e sociale, della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà, l’eguaglianza e la partecipazione, dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, nonché della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico del Paese <77.
Sono stati, così, riformati dettagliatamente i beni pubblici sulla base della loro destinazione a pubblico servizio, ed è stata inaugurata la categoria dei “beni comuni”, terza rispetto a quella dei beni privati di proprietà del singolo cittadino, e dei beni di proprietà dello Stato. Il valore aggiunto di questa nuova classificazione consiste anzitutto nella proposizione di una disciplina unitaria e generale che limita e contiene eventuali deroghe o legislazioni speciali sopravvenienti. Ma soprattutto, esso si concretizza nella scelta di ribaltare la logica formalistica propria del Codice Civile che si limita a distinguere il regime dei beni senza darne una definizione sostanziale previa che, invece, consente di individuare a chi e a che cosa servono i beni.
[NOTE]
64 Cfr. Atti del Convegno raccolti in U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà (a cura di), Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Il Mulino, Bologna 2007.
65 Cfr. U. MATTEI, Beni comuni, cit., p. VII.
66 Cfr. U. MATTEI, Le ragioni di una giornata di studio: riformare la proprietà pubblica, in I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma dei beni pubblici, a cura di U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Bardi Scienze ed Arti, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2010, pp. 21-32.
67 Un’iniziativa analoga era stata proposta già nel 2003 da un gruppo di studiosi presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze in seguito al lavoro avviato in quella sede per la costruzione di un Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche. Nello svolgimento di tale compito era emersa la necessità di poter contare su un contesto giuridico dei beni capace di definire i criteri generali e le direttive utili ad una gestione e dismissione di beni in eccesso delle funzioni pubbliche realizzate nell’interesse generale della collettività entro un orizzonte di lungo periodo. Inoltre, era emersa la necessità di azioni concrete per una migliore amministrazione di particolari tipologie di utilità pubbliche che scaturiscono da beni disciplinati in modo frastagliato e disorganico (es. concessioni dello Stato, degli Enti territoriali, concessioni delle frequenze, beni finanziari ed immateriali). L’iniziativa fu accolta con favore dal Ministro però con il cambio di Governo del 2005 non fu ulteriormente proseguita.
68 Tale dottrina «reinterpreta sia il concetto di funzione sociale sia il principio della sua accessibilità a tutti in termini che ne consentano sviluppi che possono benissimo comprendere il godimento e la diffusione dei prodotti di alta tecnologia e ad alta densità di conoscenza. E anche precludere i rischi enormi che corre il genere umano a causa della irresponsabilità sociale delle corporations, come di ogni impresa capitalistica». Cfr. G. FERRARA, Diritto soggettivo, diritto oggettivo. Uno sguardo sugli apici del giuridico, in www.costituzionalismo.it, 3, 2008, p.13. Per approfondimenti, cfr. J. HABERMAS, Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino 2002 [2001]; F. BILANCIA, I diritti fondamentali come conquiste sovrastatali di civiltà. Il diritto di proprietà nella CEDU, Giappichelli, Torino 2002 , pp. 148 e ss.; J. ZIEGLER, La privatizzazione del mondo, Marco Troppa, Milano 2003.
69 La precisazione circa la immaterialità di alcuni dei beni in questione è importante perché costituisce il presupposto logico e giuridico per l’inclusione della conoscenza tra i beni comuni (ci riferiamo, ovviamente, a E. OSTROM, La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica”, Mondadori, Torino 2009). Infatti, la teoria dei bisogni consente di ricavare «non soltanto la serie materiale di quelli connessi ai bisogni naturali […] ma anche di quelli che possono essere chiamati sociali o anche immateriali. Questi secondi si consolidano generandosi dalle idee che si formano appena si acquista la coscienza dei bisogni materiali […] e soprattutto quando la coscienza di sé, e del proprio essere al mondo e nella società si eleva dagli strati primordiali […]». La dottrina che propone la categoria dei beni immateriali e dei diritti della personalità sostiene che «tali beni sono per loro stessa natura indisponibili. Si afferma anche che essi non hanno carattere patrimoniale; ma che di una valutazione patrimoniale sono suscettibili in caso di lesione». La Commissione Rodotà proponeva, dunque, una revisione dell’art. 810 del Codice Civile, prevedendo che fossero considerate come “beni” tutte «le cose, materiali o immateriali, le cui utilità possono essere oggetto di diritti»: l’ambiente, la conoscenza, le frequenze via etere, etc. Estendere in modo esplicito la categoria dei beni al mondo dell’immateriale avrebbe avuto il pregio di rompere il nesso tra la percezione che noi abbiamo di bene e quella che abbiamo di proprietà, entrambe derivate dall’idea per cui la proprietà esauriva da sola tutte le utilità derivanti dalle cose, attribuendole tutte in capo al titolare. Nelle Institutiones di Gaio (168-180 d.C.) quest’approccio era molto nitido: le res corporales erano definite proprio in funzione del diritto di proprietà di cui potevano/dovevano essere oggetto; tutte le altre res incorporales, invece, incorporavano al loro interno residualmente gli altri diritti. Ripensare, dunque, il diritto di proprietà in termini di “fascio di poteri, facoltà, immunità” ma anche di obblighi e responsabilità, diversamente assortiti a seconda degli scopi di destinazione del bene in questione, consente di tenere aggiornato l’ordinamento uscendo da un approccio fiscalista che esige la reificazione anche di beni percepiti come tale a prescindere dalla loro consistenza materiale. Cfr. G. FERRARA, Diritto soggettivo, diritto oggettivo, cit., pp. 6-7; C. MAIORCA, Beni, in «Enciclopedia Giuridica Treccani», V, Roma 1988, p.12; A. GAMBARO, I beni immateriali nelle riflessioni della Commisione Rodotà, in I beni pubblici, cit., pp. 65-69.
70 Il merito del progetto elaborato dalla Commissione Rodotà è quello di «offrire un’impostazione della teoria dei beni che si allontani dalla logica patrimonialistica e che, pur riconoscendo nel bene un valore anche economico, ne prospetti una disciplina, in un certo senso, depatrimonializzata. […] Sì che la natura giuridica del bene non può più essere ristretta ad esclusiva conseguenza della situazione proprietaria, ma dipende anche da una concezione più ampia delle situazioni soggettive […] che a quel bene si riferiscono. […] Si rende dunque necessaria una rilettura delle situazioni giuridiche soggettive patrimoniali alla luce di valori non patrimoniali. I beni, la proprietà, l’impresa devono essere gestiti affinché i diritti fondamentali della persona siano comunque rispettati e realizzati». Cfr. P. PERLINGIERI, Normazione per princìpi: riflessioni intorno alla proposta della Commissione sui beni pubblici, in I beni pubblici, cit., pp. 125-130.
71 Cfr. C. MAIORCA, Beni, cit., pp. 10-14.
72 Un bene che esprime solo utilità di mercato sarà regolato dal diritto privato e immesso in contesti puri di concorrenza, a prescindere dalla titolarità. Viceversa, un bene che esprime sia utilità sociali che di mercato sarà soggetto a vincoli tanto nella destinazione del bene, quanto nell’entità del ritorno economico del gestore (che può essere un soggetto pubblico, o anche privato purché disponibile a ritorni economici minimi). Infine, un bene che esprime esclusivamente utilità sociali avrà necessariamente una gestione pubblica. Cfr. E. REVIGLIO, Le linee guida della riforma contenute nella “Relazione di accompagnamento al di segno di legge delega della Commissione Rodotà”, in I beni pubblici, cit., pp. 71-77.
73 Cfr. L. FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2007/2008, I, p. 860.
74 Cfr. U. MATTEI, Le ragioni di una giornata di studio, cit., pp. 21-32.
75 Cfr. M. D’ALBERTI, Il nuovo diritto dei beni pubblici tra valori della persona ed esigenze economiche, in I beni pubblici, cit., pp. 79-84.
76 L’art 14 TFUE (ex articolo 16 TCE) prevede che «in considerazione dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, l’Unione e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione dei trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono tali principi e fissano tali condizioni, fatta salva la competenza degli Stati membri, nel rispetto dei trattati, di fornire, fare eseguire e finanziare tali servizi». L’ Articolo 106 TFUE (ex art. 86 TCE), invece, prevede che «le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità».
77 Cfr. A. LUCARELLI, Proprietà pubblica, principi costituzionali e tutela dei diritti fondamentali. Il progetto di riforma del codice civile: un’occasione perduta?, in I beni pubblici, cit., pp. 85- 95. L’Autore sottolinea che il progetto di riforma, «da una parte ha tratto la sua ispirazione e legittimazione dai principi costituzionali, dall’altra ha inteso ispirarsi alle più recenti evoluzioni del diritto europeo, tentando di ricondurre la concorrenza nell’alveo delle regole appunto, piuttosto che dei principi. Ciò significa che il governo di quei beni riconducibili a servizi pubblici essenziali, orientati alla tutela di diritti fondamentali della persona, vanno gestiti nel rispetto del principio della coesione economico-sociale e territoriale che ambirebbe restituire allo Stato e più in generale alle istituzioni pubbliche, un ruolo centrale». Il riferimento normativo di rango comunitario è dunque costituito dagli artt. 16 e 86 del TCE, e dall’art. 36 della Carte Europea dei Diritti fondamentali («Al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell’Unione, questa riconosce e rispetta l’accesso ai servizi d’interesse economico generale quale previsto dalle legislazioni e prassi nazionali, conformemente al trattato che istituisce la Comunità europea»).
Francesca Belotti, Il bene comune tra scienza e senso comune. Linguaggi, concezioni ed esperienze, Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno Accademico 2013-2014

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