A me Elsa piace e non ti chiamo mai con il tuo nome

V. che, dopo aver trascorso una giornata nervosa nella sua città del Nord, viaggia in una scomoda classe verso Roma per trovare la sua amata Cinzia e scopre che il vero piacere dell’amore lo avrà assaporato nella notte di viaggio ancor più che il giorno dopo tra le braccia della sua amata: “Infilò il gettone, fece il numero, ascoltò col batticuore il trillo lontano, udì il – Pronto… – di Cinzia emergere ancora odoroso di sonno e di soffice tepore, e lui era già nella tensione dei loro giorni insieme, nell’affannosa guerra delle ore, e capiva che non sarebbe riuscito a dirle nulla di quel che era stata per lui quella notte, che già sentiva svanire, come ogni perfetta notte d’amore, al dirompere crudele dei giorni.” [<Italo Calvino> L’avventura di un viaggiatore pag. 73]
Ritorna anche in questo caso una rivisitazione del tema dell’ineffabilità: sia nell’avventura del poeta, dell’impiegato che in quella del viaggiatore, i personaggi sentono di aver toccato un culmine di bellezza e di felicità che non riusciranno a dire e dal quale non potranno fare altro che allontanarsi in un processo di inderogabile declino. Tuttavia, sebbene ci siano numerosi elementi, nel carteggio e nei racconti, che ci fanno sentire quanto sia alta la liricità di Calvino, ce ne sono altrettanti che però ci fanno capire in ugual modo quanto lo scrittore non si senta soltanto un “lirico” che si nutre del pensiero dell’amata, ma che anzi il suo amore non può limitarsi ad un canzoniere petrarchesco senza fatti. Calvino aveva bisogno di fatti che incarnassero il suo amore ora per ora, e quando non ci sono stati, se li è inventati.
Maria Corti in “Ombre dal fondo” <154 offre una lettura chiave del carteggio osservando come per Calvino il reale cambi aspetto: ecco che troviamo Calvino benedire due oggetti odiati nel passato, il treno e il telefono, capaci di superare per lui la distanza dell’amata. Sono cambiate le forme dei desideri e dei ricordi e in alcune lettere spesso desidera di essere già nella settimana seguente oppure ancora in sere lontane, ma né il vagheggiamento del futuro (<Italo Calvino> L’avventura di un viaggiatore), né il paradiso della memoria del passato (<Italo Calvino> L’avventura di un impiegato), gli sono stati sufficienti. Il telefono e il treno sono necessari al raggiungimento della donna, sono dei mezzi attraverso i quali poteva raggiungere la voce affettuosa o l’abbraccio salvifico della De Giorgi lontana. Tuttavia il presupposto necessario era che la voce e l’abbraccio fossero veri, reali e presenti, dovevano cioè soddisfare un bisogno di azione viva, contemporanea, ed era in quella che Calvino riconosceva la sua vocazione, come in tutte le cose della sua vita. Calvino descrive minuziosamente la notte in treno passata da Federico V. prima di raggiungere Roma e racconta che una volta arrivato, il protagonista avrebbe usato il suo gettone per chiamare Cinzia, “avrebbe fatto il numero e le avrebbe detto: “Cara, sai, sono arrivato””. Ecco che qui ritornano alla memoria tutte le volte che Calvino ha usato la parola ‘cara’, come ad esempio in “sei cara e brava”; “cara, lievito della mia vita”; “cara, amore”; “mia cara” o il semplice e comune “Cara Elsa”. Questo non per far rientrare le sue lettere all’interno del canone secolare della corretta intestazione delle lettere amorose che tra ‘cara’ e ‘amore mio’ hanno riunito tutti gli innamorati sotto la comune stella della denominazione, ma perché per Calvino l’aggettivo ‘cara’ ha un valore ben preciso: “A me Elsa piace e non ti chiamo mai con il tuo nome. Perché per me sei unica, non posso chiamarti come gli altri, né tu me. Per questo tu sei la mia Cara, io il tuo Caro, ed ecco che l’aggettivo diventa nome insostituibile. E fra tante divagazioni non te lo devi scordare. Sono queste le cose che fanno lo stile di un amore. Tutti gli innamorati dovrebbero chiamarsi solo caro e cara; così i poeti quando parlano della donna amata non dovrebbero imporle un nome, perché finisce che il lettore ci sovrappone quello di chi conosce con quel nome, e magari si tratta di un volto sgraziato. Invece cara o caro restano vaghi e ciascuno può immaginare la bellezza secondo i propri gusti. Infatti vago vuol dire incerto e nello stesso tempo bello, gentile. A me piace restare nel vago sia perché è più bello, sia perché non mi costringe a decidere le sensazioni”. [HPT pag. 111]
Come se si ripescasse Lacan, viene qui estetizzata e sublimata da Calvino la dimensione insostituibile, intraducibile della persona amata grazie alla quale l’amore è amore del nome proprio, ovvero di qualcosa che non si può tradurre in nessuna lingua, che non è un nome comune. Il nome della persona che si ama ha come l’effetto di un corpo, una sensibilità unica, ma in questo caso è il generale aggettivo ‘cara’ che prende il posto del particolare nome da amare, in quanto tutti possono chiamarla Elsa, ma solo l’innamorato può chiamarla ‘cara’. Secondo Lacan l’amore dovrebbe essere sempre amore del nome <155, mai della vita in generale, ma per Calvino è amore sia per una cosa che per l’altra, è un cerchio dentro il quale si ritrova come catturato vorticosamente. Ad avvalorare la teoria di una coincidenza tra il personaggio e il suo autore c’è sia la lettera quotidiana che Federico manda a Cinzia che proprio perché quotidiana risulta un dettaglio non trascurabile (alla luce dell’esistenza del carteggio amoroso fra Calvino e la De Giorgi), sia il fatto che il Federico del racconto non è ricco, ma, come Calvino (che era cresciuto senza hobby, senza nulla di superfluo o evasivo), vive una vita in stretta economia. Tuttavia,predisponendo il necessario per sistemarsi nel modo più confortevole possibile, Federico noleggia un cuscino per dormire meglio ed è in quel gesto che si nasconde il significato del suo piacere. Solo il fatto di potersi concedere un tale lusso, sebbene provvisorio, costituisce per lui un assaggio preliminare del benessere in cui viveva insieme a Cinzia ed un modo di avvicinarsi a lei, per cui: “…quell’esiguo rettangolo di agio prefigurava altri agi, altre intimità, altre dolcezze, per godere i quali egli si stava mettendo in viaggio; anzi, già il fatto di mettersi in viaggio, già il noleggio del guanciale era un goderli, un entrare nella dimensione in cui regnava Cinzia, nel cerchio racchiuso delle sue morbide braccia.” [ L’avventura di un viaggiatore p. 62]
La dimensione in cui regna Cinzia è la stessa di Viola e la stessa di Elsa, la cui ricchezza e agiatezza vengono costantemente e rispettivamente messe a confronto con la frugalità delle abitudini di Federico (scomodo su di un treno), di Cosimo (scomodo su di un albero) e infine di Calvino (scomodo nella sua stamberghetta). Anche lo scrittore, fra l’altro, partendo da questa situazione di personale ‘scomodità’ e disagio idealizza la dimensione dell’altra e la descrive come una sorta di rifugio tanto che parla dello stesso cerchio amoroso in una delle sue lettere: “Siamo davvero drogati: non posso vivere fuori dal cerchio magico del nostro amore» <156. A sigillare il patto amoroso è anche la consapevolezza dell’unicità degli amanti che si traduce in una gratitudine amorosa che viene dichiarata sia da Calvino in varie lettere (“E la cosa più esaltante di tutto quel che uno viveva era che chi lo viveva non era un altro, ero io” [3,2: 22 aprile 1955] ) sia dal protagonista Federico che risulta altrettanto compiaciuto non solo dell’esclusività del suo rapporto (“il treno percorreva la terra, sormontata da spazi interminabili <157, e in tutto l’universo lui e lui solo era l’uomo che correva verso Cinzia U.”), ma anche della straordinarietà di Cinzia: “Nessuno poteva immaginare che da quello squallido scenario di vivai spinti dal bisogno e dalla pazienza, egli stesse volando tra le braccia d’una donna come Cinzia U.” [ L’avventura di un viaggiatore pag. 63]
Il significato della presenza di Cinzia nella vita del protagonista si nutre, dunque, di tutto quello che è più lontano da Cinzia, cioè di tutto quello che non rientra nel suo “cerchio magico”. L’importanza di avere Cinzia dipende dal fatto che era proprio Federico ad averla e la De Giorgi infatti nel suo libro dice la stessa cosa di Calvino: “Il contrasto tra il suo e il mio personaggio, la vita che con esso condivideva raffinatezza, agi, lo centellinava ed era tra le droghe che condivano di meraviglia costante il suo trasporto.” <158
[NOTE]
154 Maria Corti, Ombre dal fondo, Einaudi, 1997, p. 92
155 Jacques Lacan, Il Seminario. Libro XX – Ancora 1972-1973, Einaudi, Milano, 2011, p. 5
156 “Elsa, Italo e il conte scomparso” di Paolo Di Stefano ne Il Corriere della Sera del 4/08/2004
157 Nel saggio “Colours, landscapes and the senses in Difficult Loves” di Martin McLaughlin in M. McLaughlin e L. Waage Petersen, Image, Eye and Art in Calvino, Legenda 2007 a pag. 34 riguardo a questo passo del racconto Martin Mc Laughlin spiega come ci siano molti momenti in cui si fa menzione, in termini leopardiani, al paesaggio notturno mentre il treno è in velocità verso Roma (emblematica infatti è l’espressione “spazi interminabili”). Solo in prossimità della città, come ci avviciniamo alla fine della storia, viene la luce del giorno che contrasta con l’oscurità precedente. Finalmente intravediamo la campagna romana, ma come nell’Avventura di un soldato, ecco che il paesaggio diventa nella storia un elemento marginale, al suo termine, e filtrato attraverso i finestrini del treno. Calvino non è mai interessato alla descrizione di un paesaggio idillico di per sé: come nella sua prima novella, il paesaggio è secondario al dispiegarsi degli eventi umani e c’è quindi solo una rapida, impressionistica descrizione delle sue essenziali caratteristiche: “Dai finestrini s’apriva larga la campagna romana. […] guardò olimpico gli archi degli acquedotti che correvano fuori dal finestrino.”
158 Da E. De Giorgi, “Ho visto partire il tuo treno”, pag. 24
Eugenia Petrillo, Italo Calvino ed Elsa De Giorgi: l’itinerario di un carteggio, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2014-2015