Berlinguer guardava alla realtà della vita politica italiana per modificarla

Egli [Enrico Berlinguer], infatti, voleva costantemente ribadire come non fosse il suo PCI a mancare di passione, sempre nella accezione che gli abbiamo visto dare e che possiamo anche esprimere come amor per la cosa pubblica che alimenta l’animo del politico inteso come del servitore dello Stato e di conseguenza lo porta a vedere la politica come strumento al servizio del bene comune; per questo erano gli altri partiti a venire additati come “macchine di potere e clientela”, dalla “scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente”, e ancora “comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti”, non più “organizzatori del popolo ma “federazioni di correnti, di camarille”. Questa era per il Segretario del PCI la mancanza di passione. Eppure, come qualche accenno di indagine di Tangentopoli, per altro mai arrivato a conclusione, sembrò poi ventilare, lo stesso partito comunista non era del tutto estraneo, in alcuni dei suoi esponenti, dal giro di tangenti e illeciti che nulla aveva a che vedere con quella “passione” di cui ci parlava Berlinguer. Del resto, il consociativismo politico da tempo caratterizzava la politica italiana; e ciò certo non sollevava il PCI di qualche responsabilità, almeno sul piano politico. Forse fu lo stesso Segretario a sognare un modello di politica diverso da quello della prassi consolidata; intriso, infatti, di un sostanziale rispetto per le forme della morale, e soprattutto, che riuscisse bene a interpretare i desideri e i bisogni più profondi della società intera; forse egli stesso voleva cimentarsi nella titanica impresa di plasmare il Partito Comunista Italiano nel perseguimento di questo sogno in solitudine, ma fallendo infine. Enrico Berlinguer ha vissuto con profondo senso di abnegazione i propri ideali, nutrendo una passione etica senza fine, come il cugino Francesco Cossiga gli riconosce:
“Era un comunista vero, un uomo di rara intelligenza nel suo essere comunista. Dunque, non populista né demagogo, forte di una serietà morale e intellettuale che tali qualità garantivano, e insieme una persona sensibile ai valori, nessuno escluso, a cominciare dalla famiglia. Pur senza mai ignorare riferimenti utopici e libertari, per cui era influenzato da gruppi anche minoritari, come i comunisti cattolici, che sentiva vicini proprio in quanto portatori di un sistema organizzato di valori”. <111
Sembrerebbe lecito a questo punto domandarsi, alla luce degli avvenimenti che condussero allo sgretolamento della Prima Repubblica, con un PCI – poi PDS e – anch’esso chiacchierato, in un momento di prevalente e dilagante senso di disgusto per la politica da parte del popolo, se di “passione” per la cosa pubblica, non ve ne sia veramente stata più e se tale grave assenza abbia potuto tenere le redini del sentimento antipolitico diffusosi, o se si fosse generata in un simile clima l’Italia della Seconda Repubblica, come se essa fosse veramente figlia della “fine della politica” di cui aveva parlato Berlinguer. Ma porsi domande di questo genere perde ogni legittimità solo se si meditano le parole degli antichi maestri greci della politica, o se si accenna ad una riflessione epidermica sulla antropologia dominante in quella civiltà che sta alla radice della civiltà e della cultura del mondo occidentale; ci riferiamo alla antropologia del mondo greco che identificava l’uomo con il cittadino, (antropos con il politès) per cui Aristotele apriva il suo trattato sulla Politeia con la nota espressione: “l’uomo è per sua natura animale politico” <112, cioè legato imprescindibilmente al concetto di socializzazione e di costituzione della polis; se egli potesse vivere da solo, se cioè fosse autosufficiente, non sarebbe uomo ma dio o animale bruto. Secondo quest’ottica la politica non potrà mai venire meno, non potrà mai sparire dall’orizzonte umano, ma è destinata a perdurare, nelle diverse forme di gestione della cosa pubblica che si sono succedute e si succederanno nel tempo; ciò resterebbe vero anche se non si volesse far propria la concezione, nata solo in età moderna, per la quale l’uomo per natura è animale asociale, per cui lo stato, corpo artificiale, avrebbe origine contrattualistica e non naturale; anche se lo stato fosse un corpo artificiale e lo stato di natura fosse quello della guerra di tutti contro tutti, la polis con le sue istituzioni e le sue leggi sarebbe necessaria per la sopravvivenza del genere umano. In ogni caso, la “passione” per la politica sarebbe necessariamente un valore da coltivare e la condotta pubblica o privata non potrebbe non avere che carattere politico, in modo consapevole o irriflesso. È per tali considerazioni possibile trarre questa conclusione: non solo la condotta umana non potrà perdere mai il carattere sociale, o politico, che essa sempre ha, ma finché vi sarà qualcuno capace di impegnarsi nella lotta per un sogno non egocentrico o solipsistico, non potrà venir meno la passione politica. Finché ci saranno uomini capaci di sognare un mondo migliore per se stessi e per la polis, finché l’umanità sarà capace di sollevare lo sguardo dalla condizione attuale della comunità, spesso non soddisfacente, e battersi per la realizzazione di progetti che la rendano migliore, più impregnata di bene e di valore umanizzanti, ci saranno passione politica, passione per il bene comune, passione etica perché, secondo la dottrina dei filosofi antichi o la passione è regno dell’etica o è politica degenerata.
Ora, se leggiamo al senso della battaglia di Berlinguer, come il rifiuto e il rigetto di uno status quo sulla via della devianza e del declino, del cosiddetto “vuoto politico”, che caratterizzava la vita della seconda repubblica, ci rendiamo conto della natura del suo titanico impegno, pieno di passione, per la questione morale nella politica. Egli guardava alla realtà della vita politica italiana, ma non per appiattirsi su di essa, bensì per modificarla, cercando di coniugare insieme realismo e utopia, cercando di correggere il reale con l’ideale, il senso comune con la tensione etica, l’è con il non ancora. Appiattirsi nella contemplazione del presente, senza tentare di modificarlo in meglio o di denunciarne, rischia di generare mostri.
Giovanni Orsina, nel formulare un’ipotesi di governo delle contraddizioni democratiche <113 affermerà che essa dovrà passare:
“per il senso comune; per la speranza che quanti abitano le democrazie conservino un patrimonio sufficientemente consistente di realismo, ragionevolezza, pazienza e moralità. Anche quest’ipotesi ha bisogno di un certo ottimismo antropologico […]. In questo caso non si tratta di demolire tutto e poi ricostruire, bensì di evitare che il processo di distruzione arrivi fino in fondo. Ma è pur sempre da dentro l’individuo che deve venire il confine – si tratta comunque di un processo di autolimitazione. Il senso comune è pericoloso: dall’altro lato della sua faccia buona ce n’è una cattiva, e gli è capitato di generare dei brutti mostri”. <114
[NOTE]
111 F. Cossiga, La passione e la politica, BUR saggi, settembre 2010
112 Aristotele, Politica I
113 G. Orsina, op cit., pp. 169.
114 Ibidem.
Francesco Miccichè, Enrico Berlinguer e la questione morale: dalla mancata autolimitazione razionale al pensiero antipolitico, Tesi di Laurea, Università Luiss, Anno Accademico 2019-2020