In tempi recenti è stata nuovamente sottoposta alla Suprema Corte la questione relativa alla configurabilità della “mafia silente”

In verità la giurisprudenza ha avuto modo di affermare, rispetto alla figura dell’associazione mafiosa, la sua configurabilità con riguardo ai casi di “mafia silente”, nella quale il modo attraverso cui essa si struttura sia indiziante la futura realizzazione dei reati-scopo, che emerge peraltro dal fatto che le articolazioni locali della cosca centrale si atteggiano quali parti di un sistema di franchising, esso stesso pericoloso (in via presuntiva) per il bene giuridico “ordine pubblico” protetto dalla fattispecie associativa ex art. 416-bis c.p.93.
“Mafia silente” è l’espressione coniata dalla giurisprudenza in relazione a fenomeni mafiosi atipici. È locuzione che si riconnette alla pratica, emersa negli anni più recenti, della creazione di gruppi dediti ad attività criminali in aree geografiche diverse da quelle della mafie classiche, specie di tipo ‘ndranghetistico, ma che trovano nel metodo e nell’organizzazione delle famiglie mafiose la fonte di ispirazione e di conformazione. Si tratta a tutti gli effetti di organizzazioni criminali dai tratti riconducibili alle organizzazioni mafiose classiche ma che non hanno ancora manifestato all’esterno il proprio volto e la forza intimidatrice tipica del metodo usato, non essendosi ancora fregiate di alcuna attività delinquenziale ed avvantaggiate degli effetti dell’assoggettamento e dell’omertà che da tale forza derivano.
La giurisprudenza si è pertanto interrogata sulla riconducibilità delle stesse alla fattispecie associativa di cui all’art. 416-bis c.p.: è possibile rinvenire due corposi orientamenti che fondano le reciproche argomentazioni contrastanti sulla necessità che la forza intimidatrice sia potenziale (come tale insita nella stessa organizzazione mafiosa del vincolo) o attuale.
Centrale è però altresì il profilo strutturale/organizzatorio, utile per comprendere se il gruppo nato “fuori contesto” sia organizzazione autonoma che trova nelle mafie classiche un modello che fa proprio e che sfrutta per propri fini indipendenti, o piuttosto se esso si atteggi come “cellula” (rectius: come articolazione delocalizzata) dell’associazione centrale.
La sussistenza dei caratteri necessari per l’applicazione della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. è richiesta in entrambi i casi, potendosi semmai l’accusa giovare, rispetto alla seconda ipotesi, delle elaborazioni e dei fatti sociologicamente e giuridicamente notori in tema di mafie classiche: verificando cioè che l’articolazione decentralizzata possegga, per traslazione, gli stessi elementi strutturali dell’associazione di cui faccia parte, così ritenendosi integrati anche l’elemento della forza intimidatrice che mutua da quest’ultima.
Si tratta di un assunto sposato da una significativa pronuncia, secondo la quale se nel primo caso è richiesta la prova “aggravata” della struttura interna ed in specie dell’impatto di tale struttura nell’ambiente circostante (poiché l’illecito associativo viene letto come ipotesi criminosa insieme di pericolo e di danno), nel secondo caso va data prova del collegamento funzionale con l’organizzazione di base, attraverso la chiara delineazione dei suoi connotati costitutivi interni (il reato è di pericolo).
Questa differenziazione testimonia una tendenza repressiva maggiore e in via anticipata nei confronti dei gruppuscoli delocalizzati affiliati all’organizzazione centralizzata, sull’assunto della pericolosità notoria di tale ultima e nella prospettiva di una prevenzione del crimine, a prescindere dalla commissione di specifici illeciti. Ed evita così di ricorrere all’imputazione della fattispecie di cui all’art. 416 c.p., solo in base alla centralità della forza di intimidazione, ancorché implicita nel collegamento accertato.
Tale approccio preventivo emerge anche dalla sentenza relativa al processo “Infinito”, nella quale, pur asseriendosi la necessità di una forza di intimidazione da dimostrare come “attuale”, “effettiva” e “obbiettivamente riscontrabile”, si fa risiedere nell’affermazione secondo cui “detta capacità di intimidazione potrà, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l’associazione principale”, tutta la tensione verso una repressione anticipata, sulla scorta di una pericolosità presunta riconosciuta in capo all’articolazione mafiosa che non solo nella struttura ma anche nell’articolazione possiede tutti i connotati costitutivi dell’organizzazione mafiosa classica.
Il problema, in tal caso, finisce per divenire quello della definizione del concetto di “silente”: riferito alle organizzazioni localizzate in aree non tradizionalmente pervase dalla presenza mafiosa, sembrerebbe descrivere la condotta consistente nell’operare in sordina, nell’usare proprio quel metodo intimidatorio che, al di là della commissione di fatti di reato di positiva manifestazione, è la chiave per il successo sul territorio delle mafie classiche, e che produce vantaggi col minimo sforzo e il minimo dispendio di energie.
In tempi recenti è stata nuovamente sottoposta alla Suprema Corte la questione relativa alla configurabilità della “mafia silente”: o, tecnicamente, se possa considerarsi imputabile il reato di cui all’art. 416-bis c.p. ad un gruppo delocalizzato rispetto al locus tradizionale della mafia classica, in presenza della mera dimostrazione di un collegamento tra le due strutture e a prescindere dall’esteriorizzazione del connotato della forza intimidatrice.
La logica sottesa a tale possibilità probatoria va rinvenuta nella diffusa conoscenza che dell’associazione mafiosa si ha al di fuori del contesto tradizionale in cui essa è sorta, alla luce dell’universalità del linguaggio di violenza da essa impiegato.
La finalità cui si perviene, invece, è quella di incriminare prima di un’eventuale atto violento perpetrato dalla cellula, dando invece valore penale al suo essere “silente”: se è vero infatti che ciò che rileva ai fini dell’imputabilità è il mero collegamento tra la “mafia silente” e quella “parlante”, allora le “parole” (rectius: i crimini commessi dall’associazione-base nell’area di afferenza) produrranno effetti “parlanti” anche per le cellule silenti. Non dandosi spazio, ai fini dell’imputazione della fattispecie associativa alla prova del metodo mafioso concretamente ed effettivamente impiegato dalla cellula, quindi, si finisce per legittimare forme di incriminazione penale che eludono il rispetto dei principi di materialità ed offensività.
Carla Cucco, “La lotta al terrorismo tra prevenzione e repressione: una sfida ai diritti umani?”, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Palermo in cotutela con Universitat de València, 2020