Incaricato di avviare alle basi di montagna i militanti comunisti era Giovanni Gilardi

Dego (SV). Fonte: Wikipedia

Fu solo alla metà di ottobre del 1943 che i tedeschi optarono definitivamente per lasciare la Liguria all’amministrazione italiana anziché annetterla di fatto in qualità di “zona d’operazioni”, come avevano fatto nelle Alpi centrorientali <40. Ebbe così via libera l’insediamento in tutte le amministrazioni locali dei funzionari del nuovo Stato repubblicano. A Savona il prefetto di nomina badogliana Defendente Meda fu collocato a riposo e sostituito dal Capo della Provincia <41 Filippo Mirabelli, uomo destinato a pessima fama. Inizialmente questi tentò di riannodare il discorso con le masse operaie invitando in Prefettura gli ex componenti delle disciolte Commissioni interne e facendo intravedere loro buone possibilità di collaborazione <42. Si palesava in tal modo il timore delle autorità fasciste circa gli orientamenti dei lavoratori delle industrie, sempre più riottosi con il passare delle settimane. Fallito il tentativo di Mirabelli, fu il Commissario della Federazione del PFR di Savona, Bruno Bianchi (insediatosi il 7 ottobre) <43, a tentare di trovare un modus vivendi con la classe operaia savonese. Bianchi sfruttò a fondo le tesi sociali agitate in quei giorni dai fascisti di sinistra, i quali avevano aderito con sincero entusiasmo alla Repubblica Sociale sperando di potervi finalmente realizzare i loro disegni rivoluzionari e anticapitalistici. Già nel manifesto affisso all’inizio di ottobre per rendere nota la costituzione della Federazione savonese del PFR, Bianchi invitava fascisti e antifascisti a “riporre ogni rancore e desiderio di vendetta”, a “bandire ogni violenza” perché “il partito fascista repubblicano (…) si propone di costituire finalmente <44 un autentico regime proletario <45 in cui lavoro e popolo siano i fattori essenziali”. Seguono avvertimenti contro “disonesti”, “profittatori”, “cacciatori di cariche” e “violenti” <46. Tanta buona volontà non bastò tuttavia a far recedere gli antifascisti savonesi dal loro fermo proposito di opporsi al fascismo risorto sulle punte delle baionette tedesche. Con grande impegno il Federale prese contatti personali con i dirigenti del movimento operaio savonese, giungendo persino, dopo reiterate richieste, ad incontrarsi con l’operaio comunista ed ex amministratore della Cassa Mutua dell’ILVA Giuseppe Ghiso e con altri tre rappresentanti operai. Bianchi li invitò a collaborare promettendo loro l’immunità e asserendo di rispettare le loro idee che “in fondo condivideva”. Niente da fare. Ancora, il tenace funzionario fascista repubblicano andò a parlare in fabbrica con venti operai “scelti fra i più influenti”, ma anche questa volta restò vox clamans in deserto <47. Inutili si dimostrarono anche le promesse di una svolta sociale del fascismo, finalmente permessa dalla caduta della monarchia e del suo entourage reazionario, contenute nel primo numero della “Gazzetta di Savona”, organo della Federazione Fascista savonese, uscito ai primi di novembre <48.
Mi si consenta ora qualche riflessione sulla scelta compiuta da molti di servire o comunque accettare lo Stato fascista repubblicano. Dopo vent’anni di propaganda e indottrinamento, è innegabile che per un giovane non ancora passato per l’esperienza della guerra fosse più facile essere fascista piuttosto che antifascista, a meno di tradizioni familiari di segno contrario. A parte i figli degli squadristi della prima ora, le Forze Armate repubblicane poterono dunque contare anche su una ‘zona grigia’ discretamente ampia di giovani sedicenti apolitici, o addirittura di ideali politici poco affini al fascismo, che, spinti in parte dal desiderio di avventura, in parte da un sincero patriottismo accuratamente inculcato negli anni del regime, risposero al richiamo della Repubblica Sociale, la quale tra l’altro, non va dimenticato, rappresentava, per chi era da sempre incline al rispetto verso l’autorità costituita, l’unica Italia possibile sotto il tallone nazista. Su scelte siffatte si baseranno nel dopoguerra gli epigoni neofascisti della RSI nel tentativo di dare retrospettivamente ad essa una coloritura apolitica e nazionale <49, anziché schiettamente fascista. A grandi linee, le persone che aderirono più o meno scopertamente alla RSI appartenevano ad alcune ampie categorie.
Una, come accennato sopra, era composta di giovani e giovanissimi cresciuti nel culto del Duce e della Patria durante il regime. Un’altra categoria, affine alla prima, era quella dei giovani fascisti di sinistra ansiosi di realizzare, ora che la monarchia era stata abbattuta, la rivoluzione antiborghese e anticapitalistica, e quindi di combattere gli invasori anglosassoni. C’erano poi molti borghesi e un certo padronato, fautori di un governo d’ordine rappresentato più dalle baionette tedesche che dai politici di Salò. Ovviamente numerosissimi affluirono nelle file repubblicane gli ex esponenti del regime, in particolare gli scontenti e coloro che non erano riusciti a ritagliarsi un proprio spazio di potere nelle gerarchie del Ventennio. I burocrati si adeguarono in gran parte alla RSI, se non altro per non perdere i loro piccoli privilegi. Infine, nota dolente, gli avventurieri, spesso autentici delinquenti amnistiati perché entrassero nei vari corpi armati fascisti; e, fatto da non sottovalutare, molti ex appartenenti a corpi d’élite delle Forze Armate (Decima Mas, paracadutisti, ecc.) ed ufficiali che avevano fatto carriera durante il Ventennio. Questo composito blocco sociale, a Savona come altrove, fu il sostegno principale della RSI. A tutti i soggetti citati va aggiunta un’ulteriore categoria formata da coloro che si legarono direttamente ai tedeschi scavalcando l’autorità fascista: un manipolo di militari, spie, poliziotti, capitani d’industria, doppiogiochisti senza scrupoli, spinti più spesso da incentivi materiali contingenti che da un’intima adesione alla Weltanschauung nazista.
Chiusa la pagina dedicata alla formazione del potere saloino, passiamo ad esaminare l’azione antifascista dopo l’8 settembre e le sue conseguenze. Come abbiamo visto, le incertezze iniziali del Comitato d’Azione Antifascista furono spazzate via dalla ferma posizione assunta dai comunisti savonesi, ormai decisi ad affrontare la lotta clandestina. Il PCI, dotato di un’organizzazione ramificata in tutti i principali centri della Provincia, era indubbiamente la forza politica più pronta a suscitare e sostenere un movimento guerrigliero antifascista. Tra l’altro, due suoi esponenti, Amedeo Isolica e Libero Bianchi, avevano combattuto nella guerra di Spagna <50.
Così, già in settembre, nuclei di militanti comunisti furono inviati in alcune località montane della provincia a formare le prime unità “ribelli”. Destinati alla montagna furono in particolare coloro che per noti precedenti politici non avrebbero potuto proseguire l’attività in città; tanto più che i fascisti avevano compilato un elenco di 200 “sovversivi pericolosi per l’ordine e la sicurezza dello Stato”, ed attendevano solo l’assenso del Comando tedesco per “impacchettarli” <51. Incaricato di avviare alle basi di montagna i militanti comunisti era Giovanni Gilardi: egli impartiva loro le prime istruzioni, indicava le località “sicure” dove insediarsi, spiegava come mantenere i contatti. In tal modo una trentina di ex operai, ciascuno con 200 lire fornitegli dal PCI, salirono da soli o a piccoli gruppi verso i monti dell’entroterra <52. Furono quattro i nuclei partigiani a totale o prevalente orientamento comunista che si formarono in settembre nel Savonese <53.

  1. A Santa Giulia, sulla “langa” che divide la Bormida di Spigno dal torrente Uzzone, si riunirono Angelo Bevilacqua, Pietro Toscano, Mario Sambolino, G. Recagno, Nino Bori, Aldo Tambuscio e pochi altri <54 cui, entro il 25 settembre, si unirono dei soldati sbandati del Regio Esercito. Il gruppo difettava gravemente di armi e munizioni e vi erano molte discussioni circa la linea d’azione da seguire.
  2. Alla cascina Smoglie dell’Amore, non lontano dal paese di Montenotte, salirono Giovanni Carai, A. Sibaldi, Giovanni Aglietto, Francesco Bazzino, Libero Bianchi, Angelo Tambuscio e Augusto Bazzino.
  3. Alla cascina Bergamotti, sopra l’abitato di Bormida, si ritrovarono Angelo Carai, Ugo Piero, Renzo Guazzotti, Piero Molinari, Valentino Moresco, Giuseppe Regonelli e Attilio Folco appena liberato dal confino di polizia di Ventotene.
  4. Sopra i paesini di Montagna e Roviasca, al Teccio del Tersè, si stabilirono Gino De Marco, Pietro Morachioli, Guido Caruzzo, Francesco Calcagno, Giuseppe Lagorio.
    Con il passare dei giorni altri uomini, tra cui Miniati, Tamagnone e Rebella, raggiunsero l’uno o l’altro gruppo <55. Sempre nelle sue “Cronache militari della Resistenza in Liguria”, Gimelli riferisce infine che sul finire del mese di settembre una ventina di giovani vadesi salirono alle Tagliate, sopra Mallare, per poi disperdersi parte verso Bormida, parte verso il Monregalese <56. Non mancavano altri nuclei dispersi, non inquadrati politicamente.
    Non furono tuttavia queste le prime bande partigiane nate in provincia di Savona. I primi a muoversi erano stati gli azionisti. Il 9 settembre i fratelli Emilio e Leandro Botta, insieme a Giovanni Mantero, Giuseppe Francia, Carlo e Giuseppe Trombetta, si impadronirono delle armi della Milizia di Dego lasciate incustodite al Bricco Ridotta. Il nucleo era comandato dall’avv. Emilio Botta, classe 1885, che prese il nome cospirativo di “Bormida”. Pochi giorni dopo raggiunse i ribelli azionisti il notaio Calogero Costa “Accursio”, che ne divenne il commissario politico. La zona dove si aggirava la banda era quella di Dego – Santa Giulia – Brovida <57.
    La terza componente della Resistenza savonese, quella “autonoma”, nacque anch’essa verso la metà di settembre, quando attorno a Giuseppe Dotta “Bacchetta” e al dottor Angelo Salomone “Katia” si formò a Ravagni, presso Rocchetta di Cairo, un nucleo partigiano <58.
    La Resistenza savonese esordì dunque subito divisa in tre anime politiche: quella comunista, poi garibaldina, destinata ad attrarre anche molti socialisti e cattolici, quella azionista, capeggiata da noti professionisti, e quella autonoma, sempre più un’enclave “maurina” in terra ligure. Va detto che autonomi ed azionisti operarono spesso in tale completa sinergia da risultare quasi indistinguibili, posto che l’azionismo ligure aveva connotazioni meno progressiste rispetto ad altre regioni. Inizialmente i gruppi di resistenti badarono essenzialmente a non attirare l’attenzione. Mancando di armi, munizioni, viveri, denaro ma soprattutto di esperienza militare specificamente orientata alla guerriglia, i “ribelli” si limitarono per parecchie settimane a rinsaldare le basi e i collegamenti con il capoluogo, dove si andavano lentamente formando gli organismi direttivi della guerra partigiana. Un flusso sottile ma continuo di piccole quantità di armi e denaro affluiva ai nuclei imboscati sempre in attesa di raggiungere una consistenza numerica e una capacità di fuoco tali da poter entrare in azione. In tali condizioni, le uniche attività possibili erano l’addestramento alla conoscenza del territorio e piccoli sabotaggi di poco conto (taglio di fili telefonici ecc.). Il recupero di armi era un’attività rischiosa e poco praticata. Per il momento, nell’autunno del ’43 ci si limitava a riprendersi quelle opportunamente imboscate nella confusione dei primi giorni dell’occupazione tedesca. Si tessevano lentamente le reti dell’organizzazione partigiana, ogni gruppo per i suoi tramiti. La “rete” comunista era composta di operai e contadini che mantenevano precari contatti tra Savona e gli altri centri della costa e i ribelli isolati in montagna; la stessa funzione era svolta per gli azionisti da medici, avvocati, notai, magistrati e militari in congedo.
    Frattanto il capoluogo si calava pian piano nell’atmosfera della cospirazione. Non che la gioventù locale aspirasse in massa a raggiungere i primi partigiani del Savonese. I due fattori principali che mantennero la provincia savonese insurrezionalmente “fredda” per mesi furono l’attendismo e la “concorrenza partigiana”. L’attendismo, croce di tutte le Resistenze d’Italia e d’Europa, era nella Savona del settembre – ottobre 1943 uno stato d’animo particolarmente vivo. Si era infatti diffusa con le modalità tipiche della “leggenda metropolitana” la notizia che gli Alleati fossero pronti a sbarcare sulla costa ligure da un momento all’altro <59. Tale credenza, condivisa dagli stessi comandi tedeschi che si affannavano a minare opere pubbliche e impianti e a costruire appostamenti difensivi <60, non invogliava certo i giovani della zona a rischiare la vita quando si poteva più o meno comodamente aspettare di essere liberati dagli anglosassoni. La “concorrenza partigiana” era invece determinata dalle voci, veridiche ma gonfiatesi a dismisura passando di bocca in bocca, dell’esistenza di un solido nucleo di resistenza militare attestato in Val Casotto, non lontano da Mondovì. Non furono pochi i savonesi che, fino al marzo del ’44, accorsero lassù lasciando i pochi ribelli della provincia ligure, tanto più che si vociferava di migliaia di militari italiani del Regio Esercito con armi pesanti e regolari rifornimenti aerei, comandati da ufficiali alleati. La realtà era meno rosea, e più d’uno ne fece le spese, come i vadesi fratelli Valvassura, Domenico, fucilato a Mellea di Fossano il 29 dicembre 1943, ed Enrico, ucciso a Ceva il 27 marzo 1944 <61.
    Nel frattempo nel capoluogo, parallelamente all’insediamento delle autorità saloine, procedeva la formazione degli organismi dell’opposizione clandestina. Tali erano le Squadre di Difesa operaia, precursori delle SAP. Il loro compito consisteva, nei limiti del possibile, nel sabotare la produzione bellica, proteggere eventuali scioperanti e salvaguardare gli impianti industriali dall’evacuazione in Germania ad opera dei tedeschi <62. A metà ottobre era nato a Genova il Comitato Militare Ligure, che aveva suddiviso in zone la regione; l’intero Ponente (zona I) era stato affidato alle cure dei rappresentanti socialisti, ma l’incarico veniva di fatto svolto un po’ da tutti, anche per interessi di partito. In particolare furono gli azionisti a prodigarsi con i pochi uomini a loro disposizione per organizzare una rete cospirativa e spionistica efficiente <63. Si inaugurò così una lunga stagione di viaggi, incontri, riunioni clandestine da parte di esponenti di tutti i partiti antifascisti. Tra questi viaggiatori e cospiratori instancabili, che correvano rischi enormi in prima persona per legare le bande disperse ai partiti e ai comitati di liberazione, vanno ricordati su tutti alcuni nomi. Per gli azionisti, i giudici del Tribunale di Savona Panevino e Drago, Emilio Botta “Bormida”, Cristoforo Astengo; per i socialisti, Renato Martorelli, destinato a morire sotto tortura in Piemonte nell’estate del ’44 <64. Molti di questi uomini persero la vita. Il primo ad essere arrestato fu l’Astengo che, notissimo a Savona, era stato invitato da Ferruccio Parri in persona a cambiare aria per evitare guai ed essere comunque utile altrove. Ma il coraggioso avvocato antifascista non volle lasciare la sua città e anzi, avuta notizia dell’esistenza di militari italiani ancora in armi in Val Casotto, si diede a viaggiare tra Savona e la località piemontese per mantenere i collegamenti. Sua unica precauzione era quella di salire e scendere dal treno per Ceva alla stazione periferica di Santuario, dove i controlli erano minimi. Ma la notte del 25 ottobre 1943, tornando dal Piemonte, si addormentò vinto dalla stanchezza del viaggio e si ritrovò alla stazione di Savona dove fu immediatamente arrestato <65. Astengo, dopo una settimana nel carcere savonese di S. Agostino, durante la quale lo portavano agli interrogatori in catene, fu trasferito a Genova, alla famigerata “Casa dello Studente” e poi a Marassi, in stretto isolamento. Ricondotto davanti agli aguzzini della “Casa dello Studente”, gli diedero un blocco di carta per scrivere la confessione. Ammise tutte le proprie responsabilità, ma senza coinvolgere nessun altro. Non lo torturarono e lo rimandarono in cella, dove, grazie ad un carceriere insolitamente generoso, poteva incontrarsi con i suoi compagni di sventura <66.
    [NOTE]
    40.4. G. Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Farigliano (CN), Milanostampa, 1965 – 69, vol. I, p. 94.
    41.Tale, sotto la RSI, fu la nuova denominazione dei prefetti.
    42.G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 95.
    43.De Marco – Aiolfi, op. cit., p. 79.
    44.Corsivo mio.
    45.Corsivo mio.
    46.G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 242 – 243.
    47.Ibidem, vol. I, p. 98.
    48.Badarello – De Vincenzi, op. cit., p. 60.
    49.Per questa tematica, vedi F. Germinario, L’altra memoria. L’Estrema destra, Salò e la Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
    50.Badarello – De Vincenzi, op. cit., p. 54.
    51.Ibidem, p. 62.
    52.Ibidem, p. 62.
    53.Per i gruppi e la loro dislocazione vedi Badarello – De Vincenzi, op. cit., p. 64; cfr. G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 84.
    54.Perlopiù studenti dell’Istituto tecnico industriale “Boselli”.
    55.R. Badarello – E. De Vincenzi, op.cit., p. 64. La presenza di Attilio Folco (classe 1911, tuttora vivente) tra i primi ribelli comunisti di Bormida mi è attestata con certezza dal nipote, Mario Savoini “Benzolo”.
    56.Non escluderei che questi giovani facessero in realtà parte del nucleo di Montagna – Roviasca; le Tagliate sono a poche ore di cammino dai due villaggi.
    57.M. Zino, G. L. fra Val Bormida e Langhe, in Id., Più duri del carcere, Genova, E. Degli Orfini, 1946, pp. 306 segg.
    58.Badarello – De Vincenzi, op. cit., p. 294.
    59.G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 93.
    60.Ibidem, vol. I, pp. 99 – 100.
    61.Ibidem, vol. I, p. 84. Vedi ad esempio la testimonianza di Mario Savoini “Benzolo” in id., Cosa è rimasto. Memorie di un ribelle, Savona, Editrice Liguria, 1997, pp. 39 – 66.
    62.G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 89.
    63.Ibidem, vol. I, p. 89.
    64.Le relazioni intessute da questi uomini sono illustrate in M. Zino, op. cit.
    65.Su quello stesso treno, in un altro vagone, viaggiava Emilio Botta “Bormida” il quale, data l’età, non poteva restare sempre alla macchia ed in quei giorni si nascondeva a Savona: vedi M. Zino, G. L. fra Val Bormida e Langhe, in Id., op. cit.
    66.M. Zino, Cristoforo Astengo, in id., op.cit.
    Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet – La rivolta di una provincia ligure (’43-’45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999-2000