Circa le Mostre coloniali sotto il fascismo

Le mostre e le sezioni coloniali organizzate dal Ministero erano caratterizzate da una buona omogeneità. Ciò era determinato da un lato dalla presenza degli stessi curatori e dall’altro dall’adesione al progetto propagandistico deciso all’interno degli uffici del Ministero. Tuttavia accanto a questa categoria ne è esistita anche un’altra, a cui afferiscono mostre e sezioni coloniali organizzate e allestite da attori diversi dallo Stato, ad esempio sindacati o gruppi di volontari. Numericamente inferiori, le manifestazioni si dispiegano lungo un arco di tempo abbastanza lungo (1927-1936) e sebbene risultino accomunate dall’adesione al programma propagandistico ministeriale, interessano maggiormente per il carattere volontaristico che li sottende, indicando come il programma statale fosse riuscito a scuotere le coscienze e a trovare adesioni spontanee. In alcuni casi si tratta di eventi espositivi di pertinenza locale e di scarsa
risonanza nazionale sui quali le informazioni non sono numerose: spesso i cataloghi non stati pubblicati, a volte questi sono stati pensati come veri e propri elenchi di personalità coinvolte e di oggetti esposti, privi di immagini fotografiche. Non mancano però interessanti eccezioni che ancora una volta confermano il carattere sfuggente e difficilmente classificabile delle esposizioni coloniali.
Nel 1927 ha avuto luogo a Imola una Mostra Coloniale Nazionale, inaugurata dal Podestà della città il 24 novembre e aperta fino all’8 dicembre dello stesso anno. <245 Il Presidente del Comitato d’onore era Luigi Federzoni, Ministro delle Colonie, ma tra gli espositori non figurava né il Ministero né il Museo Coloniale. I materiali esposti, infatti, erano stati prestati per lo più da ex militari della città di Imola. Il generale Carlo Manara era il maggior espositore, più volte decorato con medaglie di argento e bronzo al valore militare durante la sua vita in colonia, in occasione della mostra prestò un non meglio identificato «ricchissimo materiale» accumulato negli anni; il colonnello Augusto Severi di Dozza offrì la bandiera che gli italiani strapparono ai Derwis nel 1894; la signora Sofia Torchi concesse in prestito la collezione ornitologica del marito (più di 500 uccelli cacciati in colonia) che va a sommarsi agli esemplari del Circolo Cacciatori di Massalombarda; il colonnello comm. G. Testi Rasponi mise a disposizione la sua collezione di armi tuaregh e una raccolta di abbigliamento per signora; il Convento dei RR Padri Minori cappuccini di Bologna, che possedeva un repertorio di oggetti indiani, costituì un’apposita sezione «extra»; la signora Margherita Capri in Morsiani concesse il «materiale coloniale» del padre Giovanni, che spese lunghi anni in Eritrea; la R. Università di Bologna tramite il prof. Felice Pullè fece pervenire una ricca collezione di fotografie illustranti malattie coloniali (per lo più malaria, lebbra e leshmaniosi) raccolte dal direttore prof. Giuseppe Franchini nell’Istituto Coloniale della stessa Università; il M° Montuschi imprestò una copia di Ibis, «uccello che fu sacro agli Egizi». Il catalogo non menziona esplicitamente un promotore della mostra né cita il nome degli allestitori, si specifica solo che per iniziativa del Circolo intitolato a Silvio Pellico presso Imola furono organizzate delle Giornate Missionarie Diocesane con un ricco calendario di eventi. Oltre alle unzioni religiose vi figurava anche la Mostra Coloniale, una Pesca-lotteria e una serie di conferenze speciali e proiezioni cinematografiche. La mostra, dunque, si inscriveva all’interno di un programma afferente alle missioni diocesane ma esponeva oggetti e reperti prestati da laici. La mostra era divisa in otto sale: Pelli, nella quale vennero esposte pelli di animali esotici, esemplari interi o parti di essi; Manoscritti, consistente in lettere, libri sacri, messali copti; Armi che risultò essere probabilmente una delle sezioni più copiose; Tessuti e vesti; Uccelli e Argenteria. Le ultime tre sale fanno parte della Sezione extra, così motivate: «Le seguenti sale non avrebbero motivo d’essere in una Mostra Coloniale Nazionale non avendo i luoghi qui rappresentati niente a che fare con le nostre colonie. Ma andando a prendere il materiale coloniale e vedendo nelle stesse abitazioni del magnifico materiale orientale siamo stati presi dalla tentazione di mostrare anche quello ai nostri visitatori certi di non far loro gran dispiacere. È perciò che queste quattro salette le abbiamo chiamate Sezione extra, volendo lasciarle indipendenti dalla Mostra Coloniale» <246,
Si tratta per lo più di materiale eterogeneo proveniente dal Convento dei Cappuccini di Bologna, della R. Università della stessa città e del generale Manara, relativi per lo più all’India: fotografie di paesaggi e degli effetti di alcune malattie deformanti, oggetti di uso quotidiano come tegami, pentole, coltelli, tessuti e abiti tradizionali, sculture in legno o in alabastro, oggetti in pelle e calzature, frecce e armi, ventagli e tappeti. La fotografia veniva esposta in quasi tutte le sale, perfettamente commistionata agli oggetti e agli esemplari faunistici. La scelta di inserire una sezione orientale, relativa a territori diversi da quelli coloniali, rivelava una certa tendenza a considerare la mostra quale luogo in cui mettere in scena una generica e non geograficamente connotata alterità, attraverso l’esposizione di quanto più materiale possibile. La mostra infatti non sembrerebbe allinearsi alla prassi statale o alla sua politica propagandistica: il catalogo, ad esempio, non contiene nessun riferimento retorico alle vittoriose gesta del regime, né tanto meno dei singoli esponenti militari menzionati che hanno prestato il materiale esposto. Non emergono proclami in riferimento all’ampliamento dei possedimenti italiani; non sono presenti «chiamate alle armi» o appelli alla valorizzazione della coscienza coloniale: la descrizione delle merci e degli oggetti esposti tende piuttosto a mettere in risalto la loro abbondanza e la loro componente «esotica», invogliando il pubblico a visitare la mostra non per dovere civico ma per puro intrattenimento. Non si fa alcun riferimento all’attività evangelizzatrice o missionaria degli enti ecclesiastici, trapela invece un approccio didattico, relativo più che altro alla diffusione di notizie concernenti processi produttivi e curiosità. Ci si dilunga, ad esempio, sulle tecniche produttive degli oggetti, soprattutto nel caso delle armi e dell’argenteria, descrivendo gli strumenti necessari al lavoro e le superstizioni legate all’attività del fabbro e dell’argentiere. <247 Non sono pervenute fotografie di quest’evento.
La Prima Mostra didattica coloniale che ha avuto luogo a Varese nel 1930 e presenta caratteristiche uniche. Si tratta di un evento organizzato dagli Universitari Fascisti sottogruppo di Varese, coadiuvati dal prof. Romanini, direttore generale delle Scuole di Varese, e dall’avv. Lavatelli dell’Istituto Coloniale Fascista. Gli oggetti esposti riguardano per lo più componimenti scritti ed elaborati grafici realizzati da alunni delle scuole elementari, alcune «vere e proprie monografie» degli alunni delle scuole superiori, i «diagrammi e i quaderni» degli alunni dell’Istituto inferiore, le ceramiche della Scuola di Decorazione del Dopolavoro, le «opere di pregio» della Scuola Femminile di avviamento al lavoro. Se lo scopo precipuo delle Mostre Coloniali italiane consisteva nel far conoscere le colonie alla popolazione, questa mostra può essere considerata parte della categoria sebbene non vengano espositi oggetti provenienti dalle colonie né opere d’arte di ispirazione orientalista o coloniale. Piuttosto, sembrerebbe trattarsi di un evento utile a illustrare uno dei modi in cui la tanto decantata «coscienza coloniale» avrebbe dovuto manifestarsi, parlando
implicitamente degli effetti della ricezione della propaganda coloniale ministeriale e di altri Istituti come quello Coloniale Fascista. La Mostra di Varese era divisa in 18 sale, si era svolta nei locali di un istituto scolastico ed era stata considerata «opera lodevole», «simpatica e opportuna» capace di dimostrare attraverso le produzioni dei piccoli alunni – «Con le nostre piccole mani ti renderemo, o Italia, ciò che è tuo!» scrive al termine di una poesia un alunno della prima classe della scuola primaria – quanto prensili potessero rivelarsi le coscienze dei più giovani, più inclini superare i pregiudizi degli adulti e ad abbracciare l’avventura, in ossequio alla vocazione didattica tipica del regime. <248
Il 1931 è stato un anno interessante dal punto di vista espositivo perché oltre all’esposizione parigina ha avuto luogo la Prima edizione della Mostra Internazionale di Arte Coloniale a Roma e la XII edizione della Fiera Campionaria di Milano. Ci sono pervenute delle fotografie relative allo stand della Cirenaica e di un’altra sezione dall’aspetto prettamente informativo. A causa della scarsità di informazioni non è possibile affermare con certezza chi le abbia allestite, è tuttavia probabile che le immagini relative alla sezione della Cirenaica raffigurino stand di venditori privati e che soltanto la zona relativa all’informazione fosse stata allestita dal Museo Coloniale o dall’Istituto Coloniale Fascista. Colpisce che fra le due zone ci sia una significativa differenza nella metodologia allestitiva: da una parte, infatti, le fotografie raffiguranti la ditta Agiman <249 e i suoi collaboratori presentano un allestimento che ricorda l’aspetto di un mercato, funzionale alla vendita di merci d’importazione, dall’altra la sezione informativa presenta uno stile più compassato e ordinato. Per quanto riguarda il primo gruppo di fotografie (catalogo foto num 187-190) gli stand erano organizzati lungo un corridoio, in una struttura dall’alto soffitto in legno con travi a vista, su entrambi i lati si susseguivano gli spazi riservati ai venditori senza soluzione di continuità. Grazie alla pubblicistica di quel periodo si sa che i padiglioni relativi alle colonie erano posti tra il palazzo del turismo e l’ingresso di piazza Giulio Cesare. Le strutture espositive erano tre: due gallerie in legno – una delle quali dedicata alla Cirenaica come è stato già sottolineato – e, nel mezzo, un edificio in muratura con una grande statua dorata raffigurante Settimio Severo, imperatore romano nato a Leptis Magna. In questi padiglioni era permessa la vendita al minuto e i visitatori erano ogni anno numerosi. <250 Gli addetti alle vendite posavano ognuno vicino alla propria area, fissando la camera. Le merci in vendita consistevano in oggetti di arredamento quali tappeti, vasellame, tavolini, pouf, stoffe, argenti, piccole statue lignee. Il secondo gruppo di foto (vedi catalogo foto num. 191-192) invece ha avuto luogo in una struttura in muratura, con copertura piana e risulta formata da una sala ospitante una mostra della SAIS (Società Anonima Italo Somala) e da un’altra che sembrerebbe riportare informazioni sulla Cirenaica. In entrambi i casi erano esposte numerose fotografie, cartine geografiche, grafici informativi. È evidente, dunque, che la funzione degli spazi condizionasse il loro allestimento: se questi erano deputati alla vendita veniva preferito un allestimento tendente all’evocazione esotica, nel caso in cui lo scopo informativo fosse stato predominante, invece, si preferiva optare per una gestione degli spazi più ordinata.
Sempre trattando della Fiera Campionaria di Milano, è pervenuta una testimonianza risalente al 1935 (XVI edizione della manifestazione) relativa ancora una volta alla ditta Agiman. Padiglione Cirenaica e Isole Egee recita la didascalia impressa sul recto della fotografia: le modalità con cui i tappeti e gli oggetti in vendita erano stati disposti sembra molto simile a quella adottata appena quattro anni prima, tuttavia il padiglione non è più lo stesso in legno (vedi catalogo foto num. 212) ma si trattava di una struttura in muratura dal soffitto alto, che terminava con una cupola progettata da Rava e Larco. In questo, tuttavia, gli interni sono stati parzialmente nascosti grazie all’uso di tendaggi e all’esposizione di tappetti, nel tentativo di dare un aspetto più esotico all’area. La Tripolitania occupava uno spazio importante, la Cirenaica seguiva per grandezza e conteneva al suo interno anche le merci delle altre colonie. Inoltre «non senza qualche nota anacronistica» che aggiungeva qua e là «una nota di colore e dà alla visione africana una pennellata d’Oriente», erano esposti anche i kimoni, idoletti, collane, coralli e false pietre sgargianti. L’attrazione principale della sezione era il suk che registrava ampi profitti perché «nessuno che qui entri è disposto a uscirsene a mani vuote e un poco di profumo, un anellino, un fermaglio, un tappeto, uno scudiscio, un pacchetto di tè tripolino lieve e profumato tutti vogliono portarselo a casa come un ricordo della visita compiuta». Nonostante la mostra raccogliesse espositori da paesi lontani, non sembrerebbe tuttavia aver raggiunto lo scopo di apportare sempre nuovi orientamenti e nuove iniziative ispirate alle circostanze e alle necessità presenti nell’interesse dello sviluppo commerciale. La mostra coloniale non aveva un assetto commerciale importante: «raccoglie un insieme di oggetti, di minuterie dal sapore orientale, più o meno ricercati» ed era meta obbligata per la folla incuriosita, al contrario si auspicava che questa potesse contenere in futuro generi di prima necessità, in modo da destare l’interesse degli importatori. <251
Una certa mancanza di informazioni affligge anche la Prima Mostra di prodotti etiopici svoltasi a Torino nel dicembre 1936, secondo quanto riportato da un articolo su L’Illustrazione coloniale. <252 Si trattava di una mostra campionaria di prodotti raccolti in Etiopia dall’on. Giovanni Visenino e dal conte dott. Napoleone Rossi di Montelera. Dalla descrizione fornita sembrerebbe trattarsi di una mostra concentrata prevalentemente su materie prime tra cui cereali, pelliccerie, pelli bovine, legumi, droghe, profumi, caffè, semi oleosi, legname e fibre tessili. Lo scopo, ancora una volta, doveva essere relativo all’avvicinamento in Italia di prodotti smerciabili provenienti dall’Etiopia: «ognuno di questi prodotti recava un cartello con le indicazioni più preziose per il tecnico, oltre alle analisi che ne attestano la superiore qualità». I due organizzatori, inoltre, affermavano esplicitamente che il campionario era stato organizzato per andare incontro «alla legittima e intelligente curiosità delle categorie economiche e soprattutto dei produttori e dei commercianti» oltre che per mostrare «i frutti della singolare feracità dei territori dell’Impero fascista». Viene menzionata, infine, una raccolta di oggetti d’avorio, di metallo, di legno, di «chincaglierie» fra cui collane di perle, vetro e corni di animali e una serie di fotografie.
Un posto a parte occupa la Mostra dei prodotti dell’Impero realizzata a Bolzano (1938). Da pochi fotogrammi estratti da un cinegiornale Luce è possibile affermare che la Mostra organizzata dal Banco di Roma non si discostava troppo dal consueto impianto allestitivo fatto di teche e vetrinette in legno all’interno delle quali sono collocati oggetti di natura etnoantropologica e/o artigianale (foto catalogo num. 267-270). Corredate da qualche immagine fotografica, non mancavano carte geografiche dell’Africa, che risponderebbero alla già nota funzione didattico-informativa, prodotti del sottosuolo e cimeli di guerra, che a loro volta assolvono quelle economiche e celebrative, e la cosiddetta «statua dell’infaticabile lavoratore italiano». <253 Dietro di essa un’iscrizione parzialmente leggibile recita: «Almeno 400.000 di quel mezzo milione di soldati che abbiamo nel centro dell’Africa sono contadini i quali marciando, combattendo, non dimenticano mai di osservare il terreno, di valutarlo, di prenderne in mano qualche zolla». <254 Emerge il ritratto della figura del soldato-contadino fascista che, al pari del cittadino-soldato nell’antica Roma, possedeva competenze sia in ambito agricolo che militare. Il tema della fertilità appare centrale: sia per il colono italiano, parte delle «feconde famiglie rurali» ma anche per la terra d’Abissinia capace, grazie alle conoscenze tecniche dispiegate dagli italiani, di sfamare i propri abitanti. Ancora una volta, dunque, si cercava di smentire l’idea secondo la quale le colonie costituissero un pessimo affare, celebrandone non più le mere potenzialità ma presentando una prova concreta: mezzo milione di italiani si trovava già in Africa e stava lavorando per nobilitarla.
Interessante risulta anche il rapporto tra fotografia e parola scritta. Alcune fotografie, infatti, arricchivano l’allestimento della mostra di Bolzano susseguendosi verticalmente: sembrerebbero incollate ad un supporto verticale a sua volta attaccato alla parete, riconoscibile perché di un colore leggermente più scuro. Le fotografie erano rettangolari, corredate di didascalie: “…Si gettano le fondamenta delle nuove città…/ Si elevano ardite le arcate dei ponti che recheranno inconfondibili i segni della civiltà romana…/ Gli orridi tucul cedono il passo alle ridenti costruzioni”. Le fotografie erano utilizzate come documentazione di ciò che veniva affermato dal testo e non solo: un altro elemento da non sottovalutare è il rapporto che l’intero apparato fotografico intrattiene con le scritte a caratteri cubitali poste sulla parete: “L’Italia ha nel cuore dell’Africa… territori dell’impero, dove per alcu… può dispiegare le sue virtù di lavo… capacità creatrici (Mussolini)”. Nonostante la frammentarietà del testo, infatti, il messaggio sembrerebbe riferirsi alla possibilità che il regime aveva dato all’«uomo nuovo» di esprimere compiutamente le proprie potenzialità nei territori dell’impero. Superando il disfattismo dei nemici e l’ozio, l’uomo fascista ha finalmente potuto dar seguito al proprio destino vittorioso. La parola scritta si poneva come chiave di volta per la piena contestualizzazione non solo dell’apparato iconografico – poiché le fotografie esposte non erano altro che un’ulteriore testimonianza di quanto affermato retoricamente – ma dell’intera esposizione, esistendo tra i due mezzi un rapporto di reciproco sostegno.
[NOTE]
245 Mostra Coloniale Nazionale Imola 24 novembre-8 dicembre 1927. Guida Catalogo, Imola, Tipografia Baroncini, 1927. Il catalogo non possiede pagine numerate.
246 Ivi, «sezione extra».
247 Ivi, «sezione C e D».
248 La Prima Mostra Didattica Coloniale in Italia, «L’Illustrazione Coloniale», agosto, 1930, pp. 23-24
249 Il nome “Mosè Agiman” è reperibile sul database del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) in due voci distinte: in un caso si riferisce ad un ebreo apolide ex italiano internato nel 1941 ad Itri, nel secondo caso, invece, ci si riferisce ad un ebreo libico nato il 16 giugno 1896 a Bengasi che non fu deportato. Nel caso in cui si tratti dell’uomo nato a Bengasi possiamo desumere si trattasse di un mercante o commerciante che partecipava alle edizioni della Fiera Campionaria di Milano per promuovere prodotti locali. Cfr: Ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico: http://www.annapizzuti.it/database/ricerca.php?a=show&sid=9714; Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici, Università degli Studi di Pisa: http://www.cise.unipi.it/ebreistranieriitalia/view.php?lang=it&id=44
250 Alla XVI Fiera di Milano, «Illustrazione Coloniale. Rassegna d’espansione italiana», a. XVII, n. 4 (aprile 1935), p. 58.
251 Prima mostra di prodotti etiopici in Italia, «L’Illustrazione Coloniale», a. XIX, n. 1 (gennaio 1937) p. 44.
252 Ibidem.
253 Mostra dei prodotti dell’Impero, organizzata dal Banco di Roma sotto li auspici dell’Istituto Fascista dell’Africa Orientale. Giornale Luce B1349 del 03/08/1938 https://www.youtube.com/watch?v=98pjssLrE40 è stata inoltre trovata un’immagine fotografica relativa alla mostra su A. Secciani, L’impero. Le colonie italiane in Africa, Novara, Editoriale Nuova, 2005.
254 L’iscrizione prosegue ma purtroppo non è possibile riportarla per intero: (…) fra l’Italia e l’Abissinia (…) prospet (…) di portare in quelle terre spopolate (…) feconde famiglie rurali italiane»
Monica Palmeri, Esposizioni, fiere e cultura visiva coloniale italiana fra le due guerre, Tesi di di Dottorato, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, Anno Accademico 2018-2019