Le figure femminili che furono partecipi della Liberazione appartenevano alle più diverse estrazioni sociali

La maggior parte delle donne che parteciparono alla Resistenza è stata oggi dimenticata o è addirittura sconosciuta. Le più sono tornate alle loro faccende domestiche, alla loro semplice vita di massaie e di donne di casa, ma con un bagaglio di vita assai più grosso e pesante, più spinoso e faticoso. Certo, per le esperienze che avevano vissuto e per le tragedie umane che avevano toccato con mano, ma anche perché nella lotta contro i nazi-fascisti, molte, avevano lasciato una persona cara: il padre, il fratello, il marito… Molte altre, come Renata Viganò, emersero vittoriose dall’esperienza partigiana e trasformate da questa, soprattutto dal punto di vista della coscienza politica e hanno deciso di impegnarsi, negli anni post-bellici, con le loro “armi” tanto innocue quanto potenti al fine di denunciare i terribili avvenimenti che erano accaduti. Difatti, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, la Viganò si impegnò nella scrittura di libri quali “L’Agnese va a morire” e “Matrimonio in brigata”, che costituiscono una delle testimonianze migliori di quei tempi, e che fu in grado di riorganizzare, all’interno della sua abitazione bolognese, una “base” di grande fermento politico e intellettuale.
A spiccare fra tutte le donne della Resistenza sono quelle bolognesi, non perché dotate di caratteristiche particolari che le hanno rese migliori delle altre, ma per la forza degli eventi. Infatti, Bologna è stata uno dei centri dove la guerra ha stazionato più a lungo e dove le crudeli azioni di rappresaglia sono state più tremende. I tedeschi, infatti, con l’intento di terrorizzare la popolazione e di spezzare le forze della resistenza, disperdendole e annientandole, hanno compiuto terribili azioni che non hanno assolutamente sortito l’effetto desiderato. Torture, impiccagioni, fucilazioni, eccidi di massa hanno soltanto rafforzato la forza di coesione del popolo bolognese e dei gruppi anti-nazisti, accendendoli di odio e di quel grande ardore che li ha portati a sfidare ogni sorta di pericolo senza mai cedere di fronte al nemico, stimolando il coraggio e la combattività.
Le figure femminili che furono partecipi della Liberazione appartenevano alle più diverse estrazioni sociali: c’erano studentesse, professoresse, o comunque persone acculturate, ma la maggior parte di queste proveniva dal popolo e si trattava di giovani contadine, che magari avevano perso tutti gli uomini della amiglia nella guerra e cercavano un proprio riscatto personale allo scempio che avevano subito, oppure si trattava di impiegate statali o all’interno di fabbriche, dove i fermenti politici si facevano sempre più vivi. Non a caso la Viganò proviene proprio da questi ambienti, dal momento che lavorò fino all’ottobre del ‘43 come infermiera al Brefotrofio di Bologna ed è proprio qua che una collega la introdusse per la prima volta alle questioni politiche e sociali.
L’impegno di queste donne è stato immenso e fondamentale, perché hanno svolto ruoli rischiosi, trasportando a piedi o in bicicletta biglietti contenenti istruzioni e comunicazioni fondamentali, o anche pacchi “scottanti”, all’interno dei quali si trovavano armi e ordigni esplosivi. Hanno anche accompagnato medici disposti a chiudere un occhio per curare malati e feriti partigiani. Spesso anch’esse, come tutti coloro che svolgono attività clandestine, sono state catturate, sottoposte alle più terribili torture: sono state mutilate, è stato loro tolto un seno, oppure sono state loro strappate le unghie, sono state battute sotto i piedi fino a che non si sono spezzati, in modo da non potersi più muovere. Riguardo a quest’ultimo supplizio la Viganò lo ricorda in un episodio de “L’Agnese”, quando i partigiani vanno a recuperare alcuni compagni imprigionati e ad uno di questi, Walter, è toccata proprio tale tortura: «Mi hanno picchiato ogni giorno, tante volte. Sento male dappertutto. Hanno battuto sotto le piante dei piedi che devono avermeli rotti. Abbiate pazienza se mi lagno». E diceva, anche: «Ma con loro, sai Comandante, non ho detto niente. Volevano il tuo nome, e sapere come sei, e picchiavano. Più picchiavano e più stavo zitto. Mi pareva davvero di non averti mai conosciuto». <59
Tutto sommato a Walter andrà bene, perché riuscirà a rimettersi, ma ad un altro ragazzo della compagnia, Cinquecento, la sorte non sarà altrettanto clemente: “[…] a Cinquecento ne avevano fatte di tutti i colori: «Gli mettevano nelle orecchie le sigarette accese. Gli hanno strappato tutte le unghie. Ma nemmeno lui ha parlato. Un urlo, e poi stava zitto. Uno dei militi gli dette quattro o cinque calci nella schiena, con gli scarponi; forse gli ha spezzato i reni. Dopo ha gridato sempre, che si sentiva per tutta la caserma. Ieri sera ha smesso di gridare. Allora abbiamo capito che era morto”. <60
Propongo questi esempi per ricordare quello che i partigiani, senza distinzione di sesso, dovettero subire, o meglio, preferirono subire, piuttosto che venir meno ai propri valori e proteggere i centri nevralgici della brigata.
«Nulla se non le parole» scriveva Primo Levi, ci rimangono per ricordare, per non far perdere forma e sostanza, per rendere giustizia e non far cadere nell’oblio l’operato di tante persone che credevano in un futuro migliore e che dopo la Liberazione l’esistenza sarebbe stata più umana e più serena di quella che era allora.
Troppo spesso, tuttavia, l’attività femminile di volontarie della libertà viene difficilmente e sporadicamente rammentata. Possiamo dire che un’attenzione verso le operazioni delle donne nella Resistenza, andò di pari passo con la loro conquista di autonomia intorno agli anni ’70 del Novecento: la donna cominciò ad emanciparsi sia da un punto di vista lavorativo, arrivando a raggiungere cariche un tempo ad esclusivo appannaggio della componente maschile, e non essendo costrette solo e soltanto ad occuparsi della casa e della famiglia, sia da quello sociale, ottenendo il diritto al divorzio e cominciando ad avere pari diritti e doveri degli uomini. Parallelamente, i movimenti femministi iniziarono a calcare l’attenzione sul valore umano e sociale che le donne passate e presenti avevano svolto, e si aprirono accessi dibattiti intorno alla partecipazione femminile alla guerra di Liberazione.
La studiosa Anna Rossi-Doria si lamenta della “[…] generale cancellazione della storia politica delle donne e quella particolare dell’occultamento che la memorialistica e la storiografia hanno compiuto non tanto della partecipazione delle donne alla Resistenza quanto del suo carattere politico” <61.
Quello che si nota nel corso di queste conferenze, e che negli anni seguenti si cercherà di modificare in positivo, è un generale sottovalutazione del numero delle donne impiegato nelle operazioni di resistenza, che si accompagna ad una
svalutazione del loro operato, parlando di esse come di “staffette”, di “portaordini” o di “corrieri”. È implicita in queste denominazioni, apparentemente insignificanti, il retroscena sociale di emarginazione decisionale della donna, considerata come una semplice esecutrice di ordini impartitile da uomini e priva di una propria coscienza selettiva.
Un altro elemento che ad una prima lettura passa in sordina è quello del richiamo alle donne come “mamme” come “nutrici”: infatti, spesso, e lo vediamo anche ne “L’Agnese”, le figure femminili vengono chiamate con questi nomi con il risultato, spesso anche inconsapevole, tanto l’usanza è ben radicata e normalizzata, di relegarle alla sola dimensione casalinga e privata: “[…] l’attitudine al materno viene usata a mo’ di giustificazione per quell’impegno dimostrato [dalle donne] nella Resistenza. Gli uomini sono aiutati, supportati, difesi e sottratti dal pericolo solo per quell’istinto di protezione insito nelle donne. Un tale punto di vista […] relega all’infinito la donna nella sua sola dimensione domestica, anima della casa, incapace di meditare su una vera scelta d’impiego. E quando è ammesso che questa scelta effettivamente ci sia, allora è dovuta solo alla predisposizione caratteriale della donna alla solidarietà, alla bontà, all’accoglienza, ma mai frutto di un’idea precisa” <62.
La credenza comune che le donne siano incapaci di formulare propri pensieri e avere proprie opinioni emerge chiaramente dal romanzo centrale di questa analisi. La vecchia e grossa Agnese non si è mai interessata di politica, perché erano «cose da uomini» <63: solo il compianto Palita si occupava delle faccende di partito. E quando tre partigiani, subito dopo la deportazione del marito, vanno dalla donna e le fanno capire che «bisogna lavorare» <64, ella, desiderosa di poter essere d’aiuto, si propone, ma istantaneamente arrossisce «come se si fosse azzardata a dir troppo» <65. E ancora, quando si sarà guadagnata la fiducia della brigata, in quanto donna volenterosa e fedele, tanto da esser stata
soprannominata dalle altre staffette “la Responsabile”, si porrà sempre in una posizione di secondo piano, antico retaggio dell’emarginazione femminile, affermando a più riprese «Chissà se sarò buona» <66. Mette così in discussione le sue capacità, evidente mancanza di fiducia in sé, non, credo, determinata da una peculiarità del suo carattere, quanto piuttosto da un’imposizione sociale, fermamente imposta.
Finora ho ricordato le donne che combatterono la Resistenza senza armi, in un impegno a volte più rischioso, di chi, invece, si scontrava in prima linea, per il fatto che non erano abituate a tenere in mano un’arma e non erano in grado di usarla correttamente. Agnese ne è il classico esempio, perché, al momento in cui decide di uccidere il militare tedesco che si è addormentato nella sua abitazione, prende in mano il mitra dell’uomo, ma non sapendo come farlo funzionare preferisce tramortirlo picchiandoglielo sulla nuca. E dichiarerà, successivamente, ai compagni presso i quali si rifugerà: «“Io non so sparare. Gli ho dato un colpo così”. Fece l’atto, poi rimise piano piano il mitra sul sedile». <67
Donne come l’Agnese erano le più, ma non sono mancate anche quelle che furono impegnate in spedizioni esplorative presso i fronti nemici e che si sono ritrovate a dar battaglia in prima persona sperando di riuscire vittoriose e non morire; e ancora, altre, le più impavide, che decidevano, senza remore apparenti, di porsi alla testa di reparti e affrontare il nemico a suon di colpi mortali. Parlando di donne guerriere, di donne che hanno combattuto attivamente la guerra con armi alla mano, può sembrare strano, soprattutto se pensiamo alla concezione di donna che si aveva più di sessant’anni fa. Jean Bethke Elshtain nel suo saggio “Women and war”, ha fatto delle importanti riflessioni al riguardo: ‘si parte dalla distinzione, alquanto superficiale, tra uomini che tolgono la vita e donne che la danno e si afferma: “La guerra è degli uomini: gli uomini sono gli autori storici della violenza organizzata. Sì le donne sono state coinvolte […]. Ma sono stati gli uomini a descrivere e definire la guerra, mentre le donne ne sono “influenzate”: esse “per lo più vi reagiscono” ‘ <68.
Ancora una volta la figura femminile è relegata alla sua sfera di sottomissione e di incapacità cognitiva, indissolubilmente legata all’uomo. Al di là delle conclusioni alle quali Elshtain giunge, non volendo intraprendere una strada ragionativa tanto allettante quanto fuorviante per quello che interessa in questa sede, è interessante soffermarsi su una credenza che è stata per lungo tempo ritenuta vera, quella, cioè, che considera “[…] la violenza femminile [come] un’aberrazione, lo sfogo di soggetti non totalmente disciplinati, parzialmente fuorilegge. Non essendo dei soggetti politici le donne non erano neppure politicamente responsabili. La violenza maschile poteva essere moralizzata come attività strutturata – la guerra – e, in tal modo, spersonalizzata e idealizzata. La violenza femminile, invece, non portava a nulla di buono. Era troppo personalizzata e vendicativa […]”. <69
Ancora una volta, l’elemento che è posto in risalto è l’incapacità di avere un proprio intelletto, di essere in grado di formulare personali ragionamenti e trarre conclusioni appropriate; ma soprattutto è rilevante per l’intero contesto l’affermazione che le donne non sono da considerarsi dei soggetti politici, condizione nella quale, passando dal generale al particolare, si trovavano le donne della Resistenza, avendo assunto il diritto di voto solo nel 1946. È, quindi, chiaro come esse fossero considerate inferiori, non degne, ma dimostrarono esattamente il contrario, di saper combattere la guerra, armate o meno.
A conclusione di questo capitolo pongo un’ultima questione: per quali ragioni le donne scelsero di partecipare alla guerra di Resistenza? Domanda assolutamente lecita, dopo aver argomentato riguardo alla scarsa considerazione del ruolo femminile nella società maschilista. Ilenia Carrone ha riassunto nel suo libro “Le donne della Resistenza” le interviste a diversi figli e figlie di partigiane dell’Emilia Romagna, riguardo a quello che loro ricordano sul perché della partecipazione delle loro madri alle attività della Resistenza. Le risposte che sono emerse sono piuttosto omogenee e vertono soprattutto su due tematiche: una è l’antifascismo e la completa avversione verso questo partito fin dal momento della sua nascita; l’altra individua questa adesione come “la cosa giusta da fare” una sorta di propensione spontanea a compiere un determinato atto in quanto per definizione quello naturale verso il quale tendere. Un testimone si spinge a dare una spiegazione più puntuale, sostenendo che: «si tratta di un’operazione di protezione di un equilibrio umano e di comunità» <70, sottintendendo, quindi, che il «fascismo e l’invasore tedesco non si configurino come ospiti non desiderati, ma anche come un possibile (e già provato) rischio per la tenuta della comunità locale». <71
Qualunque siano state le motivazioni che hanno spinto ragazze, madri, donne anziane a partecipare alla lotta di Resistenza, è certo che “[…] senza il coinvolgimento femminile nell’agevolazione del movimento degli uomini, nell’approvvigionamento dei combattenti e nel favorire la comunicazione fra gli uomini, per la maggior parte costretti alla clandestinità, il movimento partigiano forse non avrebbe potuto svilupparsi e attuare le operazioni che la storia ci ha riportato” <72.
Ed è per queste ragioni che, dalle pagine di “Epopea partigiana”, Ilio Barontini invita tutto il popolo italiano a ricordare e a tener alto l’onore di tali donne, le quali hanno combattuto alla stregua di soldati uomini per la liberazione del proprio Paese: “Anch’esse sono soldati, soldati dell’esercito di liberazione, e appartengono a quel grande, luminoso, ammirevole movimento di popolo che è stata la lotta partigiana; e hanno dato giovinezza, salute, vita, fortuna, speranze, tutto per la vittoria d’Italia: l’Italia “vera” che è quella dei partigiani, e che anche questa volta ha vinto” <73.
[NOTE]
59 R. Viganò, L’Agnese va a morire, Torino, Einaudi, 1954, p. 129.
60 Ivi, p. 130.
61 A. Rossi-Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, 2007, p. 130.
62 I. Carrone, Le donne della Resistenza, Monza, Infinito, 2014, p. 19.
63 R. Viganò, L’Agnese va a morire, Torino, Einaudi, 1954, p. 21.
64 Ibidem.
65 Ivi, p. 22.
66 Ibidem.
67 Ivi, p. 59.
68 J. B. Elshtain, Women and war, New York, Basic Book, 1987, traduzione di L. Perrone Capano, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 233.
69 Ibidem.
70 I. Carrone, Le donne della Resistenza, Monza, Infinito, 2014, p. 87.
71 Ibidem.
72 D. Gagliani, Introduzione. Resistenza alla guerra, diritti universali, diritti delle donne, in Guerra, Resistenza, Politica. Storie di donne, a cura di D. Gagliani, Reggio Emilia, Aliberti, 2006, p. 28.
73 I. Barontini, Le staffette, in Epopea partigiana, a cura di A. Meluschi, A.N.P.I regionale Emilia e Romagna, 1948, p. 16
Valentina Moschini, Romanzi di guerra nel Novecento italiano. Comisso, Malaparte, Viganò, Tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2015-2016