Il festival di Castelporziano assume il ruolo di consapevole apripista del filone polemico come cifra dell’effimero

La festa della poesia è un trampolino di lancio, in termini di visibilità e rappresentazione pubblica, per l’Estate romana e apre il percorso che alla fine della stagione sarà chiuso da Parco Centrale.
Castelporziano realizza nell’imprevedibilità il proprio punto di forza. «Noi ci auguriamo di tutto» avevano dichiarato prima del festival gli organizzatori, lasciando intendere una certa efficacia delle polemiche sul lancio pubblicitario della manifestazione. L’ampliamento dell’offerta spettacolare e la risonanza mediatica danno i loro frutti. Pochi mesi dopo, una lunga intervista lancia al grande pubblico Nicolini, «sua eccellenza happening» <499 mentre un reportage sull’«Espresso», interrogandosi su quello viene definito il «circo Italia», certifica la nascita dei «nouveaux assesseurs» <500 e riflette sul ruolo della cultura nel rianimare i grandi centri urbani. L’evento scatena un dibattito attorno ai nodi dello spettacolo che ne allarga la fortuna e costituisce il secondo tempo della manifestazione, in uno schema destinato a ripetersi. Nicolini mostra aperta soddisfazione: la contaminazione ha coniugato una pratica elitaria ai desideri delle masse.
«Questa idea del raduno di poeti a Castelporziano mi è subito piaciuta» afferma l’assessore, «per le contraddizioni che ha, raduno di massa e poesia, comunicare a tutti con uno strumento di comunicazione privilegiato come è la poesia, il sogno (o il segno?) della qualità» <501. Nonostante l’entusiasmo degli organizzatori, numerose critiche sono sollevate da un agguerrito panorama intellettuale, che inizia a recepire con crescente insofferenza una ricerca di spettacolarità dell’effimero, spesso a scapito dei contenuti culturali che in linea teorica si prefigge di promuovere. «Il manifesto», solitamente entusiasta nei confronti delle iniziative della giunta capitolina, questa volta fatica a cogliere il senso dell’evento sulla spiaggia:
“[…] è dunque del tutto fuori luogo assegnare a questo festival una funzione di «laboratorio» poetico su vasta scala. Com’è fuori luogo pensare che si tratti solo di un ennesimo fallimento della possibilità di democrazia e di partecipazione da parte del pubblico presente, come non si tratta di tornare a casa solo con sensi di frustrazione e di rifiuto: invece ci si deve chiedere se questo è il modo giusto per rispondere alla richiesta di comunicazione, di espressione, e di cultura dei giovani. «Garantendo» cioè a 5 mila persone alla volta il libero accesso ad un microfono in gran parte simbolico, «garantendo», nel modo più euforico possibile, la cultura a tutti. Una cultura che, per come viene gestita e comunicata, non assomiglia in nessun modo a quell’aspetto sociale e politico drammatico ed irrisolto, che accompagna oggi inevitabilmente la massa dei giovani che si offrono come spettatori o partecipanti in uno spettacolo del genere. Non riconoscere l’abisso che c’è fra la realtà sociale e quella culturale porta allora ad organizzare questo tipo di incontri in cui, un poeta come Jacques Ribaud, venuto da Parigi, mi dice sorridendo: «la page ne va pas à la plage» (la pagina non va sulla spiaggia)” <502.
Quella del «manifesto» è per ampiezza la serie polemica più importante e mette al centro della riflessione il ruolo della poesia, l’atteggiamento dei poeti e la ricezione presso una platea maggiormente sfaccettata. Il principale quotidiano della nuova sinistra sottolinea la presenza di un nutrito gruppo di giovani che identificano la poesia nell’aggregazione, al netto della pratica letteraria declamata dal palco, confermando una tendenza che avrebbe caratterizzato altri momenti di svago, come la musica e il ballo <503. A renderla ulteriormente suggestiva la bellezza di un luogo estivo, contraltare di rabbia e nichilismo come persistenti richiami di una stagione di violenze non del tutto tramontata. È difficile per il poeta, si sostiene, rappresentarsi liberamente, ignorare la divisione di classe e il privilegio culturale che esprime, parte del più ampio rapporto fra arte e politica, così come lo squilibrio generato dal palco come diaframma. Alla luce di queste riflessioni, «il manifesto» conclude i suoi approfondimenti, chiosando prosaicamente: «pensare che questo festival, o meglio un festival articolato in questi modi possa rispondere al bisogno di cultura significa pensare di rispondere con uno spettacolo “culturista”» <504.
Il dibattito è vivacizzato dal coinvolgimento di alcuni intellettuali di punta nella temperie delle Estati romane e un botta e risposta oppone Corrado Augias e Alberto Arbasino. Dalle colonne de «la Repubblica» il primo sottolinea la delusione di chi, con un approccio più tradizionalista, auspicava un tradizionale spettacolo di poesia, mentre il secondo si domanda in modo ironico il perché di «tante costernazioni» <505. «Paese sera» sottolinea l’attualità di uno spettacolo come quello in scena a Castelporziano, capace, con le sue multiformi espressioni, non di rado drammatiche, di «colmare il vuoto che ognuno dentro di noi sente» <506. Le espressioni pubbliche della stampa vicina al Pci evidenziano fra i meriti maggiori l’«aver costruito uno spazio vuoto, che si è riempito di conflitti, di collisioni, di esplosioni, continuamente mutevoli, nel segno drammatico della “situazione”» <507. Tra le voci più significative del dibattito, Dacia Maraini riporta a galla il profondo intreccio fra pulsioni esistenziali, festa di massa e desiderio di protagonismo. Lo sguardo è influenzato dalla diretta partecipazione al festival:
“si è detto che i contestatori del festival volevano distruggere il privilegio del palco, il potere delle parole, l’uso mistificatorio del microfono, in nome dell’uguaglianza, della democrazia dal basso, dell’antiautoritarismo fosse pure quello dell’arte. Si è detto che invocavano in maniera selvaggia ma idealistica la fine di ogni discriminazione culturale, la distruzione di un palco che divideva chi ci stava sopra da chi stava sotto. Si è detto che «la gioventù oggi è così» priva di rispetto per le istituzioni fossero pure quelle della poesia odiando prima di tutto il successo, la fama, il prestigio, tutte cose che dividono gli uomini fra di loro dando spazio all’ingiustizia e all’oppressione. L’ho pensato anche io quella prima sera e mi sono detta: hanno ragione, di fronte ai bisogni urgenti, terribili come la casa, il mangiare, il lavoro (questi erano i termini della contestazione) che cosa può la poesia?»” <508.
Nell’interpretazione della scrittrice, i giovani bonariamente definiti come «romantici ribelli» – il supplemento a «Lotta Continua» li aveva invece considerati delle «strane creature» <509 – non vogliono contestare il successo e i privilegi culturali, bensì conquistare un pezzo di quel successo e di quel prestigio per sé. In altre parole, desiderano quel palco e poterci stare dentro. La riflessione è conclusa da alcune critiche all’organizzazione della rassegna:
“[…] penso che gli organizzatori abbiano sbagliato, per populismo, per demagogia, per faciloneria a non capire fin dal principio come stavano le cose, a non capire che non si trattava di un pubblico indiscriminato e incomprensibile ma di poche precise persone che andavano individuate e ascoltate. Hanno sbagliato, qui veramente usando le gerarchie, a mandare avanti i poeti meno conosciuti, i più giovani, gli italiani meno esperti di queste letture pubbliche come pattuglie d’avanguardia (da sempre destinate alle imboscate e ai fucili nemici) per «saggiare» il pubblico sconosciuto, quando si trattava di concludere dei patti precisi senza falsi pudori con i cosiddetti contestatori ansiosi di pubblicità e attenzione” <510.
Il festival di Castelporziano assume il ruolo di consapevole apripista del filone polemico come cifra dell’effimero e contribuisce alla proiezione pubblica dei suoi aspetti più controversi. Il territorio immaginario del festival è anche un buon termometro dei cambiamenti interni alle Estati romane e ne registra la mutazione verso una spettacolarità più ampia e onnivora, che anticipa gli umori del decennio successivo, caratterizzati da una «molteplicità di scelte» <511 nel campo culturale.
[NOTE]
499 D. Matelli, Sua eccellenza happening, in «L’Espresso», 1 aprile 1979.
500 R. Tripodi, Nicolini di tutta Italia, unitevi, in «L’Espresso», 18 novembre 1979.
501 R. Nicolini, Ricordi d’egotismo, in «Quotidiana di Poesia», 28 giugno 1979.
502 P. Candinas, Che dicono i poeti europei? La pagina non va alla spiaggia, la page ne va pas à la plage, in «il Manifesto», 1 luglio 1979.
503 Su questi temi si interverrà ampiamente nel corso del capitolo successivo. Per ora, ci si limita a rimandare ad un inquadramento di taglio giornalistico-didascalico: P. Morando, Dancing Days 1978-1979, cit.
504 P. Candinas, Che dicono i poeti europei? La pagina non va alla spiaggia, la page ne va pas à la plage, cit.
505 A. Arbasino, Ma perché tante costernazioni?, in «la Repubblica», 3 luglio 1979.
506 D. Bellezza, Il pubblico? Bisogna saperlo addomesticare, in «Paese Sera», 3 luglio 1979
507 D. Del Giudice, Ma dopo lo sfascio ha vinto la poesia, in «Pese Sera», 1 luglio 1979.
508 D. Maraini, Due o tre cose su Castelporziano, in «Paese Sera», 8 luglio 1979.
509 «I poeti non ufficiali: strane creature?», in «Quotidiana di Poesia», 30 giugno 1979.
510 D. Maraini, Due o tre cose su Castelporziano, cit.
511 A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, il Mulino, 2004, p. 315.
Marco Gualtieri, La città immaginata. Le Estati romane e la “stagione dell’effimero” (1976-1985), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno Accademico 2019-2020

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