Verosimilmente, oltre agli esiti del referendum, contribuisce a spingere la Dc sulla difensiva anche il susseguirsi di rivelazioni emerse in seguito alle inchieste della magistratura

Alla fine di maggio 1974 le Brigate Rosse passano decisamente in secondo piano. Ha luogo infatti uno degli episodi più cruenti della storia del terrorismo italiano: l’esplosione di una bomba in piazza della Loggia a Brescia mentre si tiene una manifestazione contro il terrorismo neofascista da parte di politici di sinistra e sindacalisti. L’attentato provoca otto morti e circa cento feriti; la sensazione nel paese è enorme e, questa volta, la responsabilità viene immediatamente attribuita agli estremisti neri, i quali sembrano manifestarsi ormai con lo stesso modus operandi: ordigni fatti esplodere in luoghi pubblici.
La Democrazia cristiana, almeno da quando sono cominciati a venire alla luce i sospetti circa la connessione tra servizi e reparti delle forze armate con le organizzazioni terroristiche, ha sempre tenuto un atteggiamento molto cauto e riservato sulle circostanze che emergono dalle inchieste sul terrorismo di destra, invitando tutti ad astenersi dallo “scandalismo” e dal “qualunquismo”.
Immediatamente dopo la strage di Brescia due importanti esponenti del partito di maggioranza relativa compiono una scelta diversa. Il ministro dell’Interno, Paolo Emilio Taviani, trasferisce ad altra sede Federico Umberto d’Amato, capo dell’ufficio “Affari Riservati”, poi indicato quale reparto “deviato” <111, che viene soppresso contemporaneamente alla creazione del nuovo ufficio antiterrorismo. Nello stesso periodo il ministro compie una serie di dichiarazioni pubbliche in cui afferma, senza mezzi termini, che la “strategia degli opposti estremismi” adottata dalla Dc fin dalla fine degli anni Sessanta era erronea e che il vero pericolo è costituito dalle trame eversive di marca fascista <112. Se l’atteggiamento di Taviani costituisce una discontinuità, quello di Andreotti, ministro della Difesa (e quindi primo immediato responsabile politico per i servizi di sicurezza), potrebbe dirsi di rottura; improvvisamente, nel giugno 1974, concede un’intervista al settimanale “Il Mondo”, nella quale fa una serie di rivelazioni sensazionali <113: spiega infatti che il latitante Giannettini lavorava in realtà per il Sid e che questo aveva mentito deliberatamente ai magistrati con il benestare dei responsabili politici e fa riferimento ad una riunione tenutasi a Palazzo Chigi in cui si era deciso (anche se in seguito, in maniera non proprio convincente, Andreotti smentirà questa parte dell’intervista, peraltro confermata dall’autore della stessa, Massimo Caprara) di occultare informazioni al giudice D’Ambrosio. «E’ stato un grave errore», afferma, il ministro, che rivela anche come i famosi fascicoli illegali raccolti dal Sifar diretto da De Lorenzo negli anni Sessanta, e che il governo si era impegnato a distruggere in seguito alle conclusioni della commissione Beolchini, si trovavano ancora custoditi presso gli archivi del Sid.
Nelle settimane seguenti il ministro incarica l’ammiraglio Henke, capo di stato maggiore della difesa, già responsabile dei servizi, di preparare dei rapporti circa le notizie in possesso del Sid a proposito delle trame nere da consegnare ai magistrati impegnati nelle inchieste giudiziarie. Tra i contemporanei sono in molti coloro che ritengono che i due esponenti della Dc intendono «riqualificarsi a sinistra» <114, secondo alcuni per non essere sgraditi al Pci dopo la svolta a sinistra segnata dall’esito del referendum <115. Se questo è l’intento sembra che abbia avuto anche qualche successo: per tutta la seconda metà del 1974 il settimanale “L’Espresso”, mai indulgente nei confronti di servizi “deviati” o “strateghi della tensione”, mette in risalto con soddisfazione la discontinuità introdotta da Andreotti e Taviani <116. Un atteggiamento simile viene dimostrato da parte della stampa dei partiti della sinistra; ma anche dall’archivio del Pci risulta che il «mutato atteggiamento», soprattutto di Andreotti, sia visto con interesse <117.
Un’interpretazione parzialmente diversa è quella suggerita da Giuseppe De Lutiis <118, il quale sottolinea come l’iniziativa dell’intervista al “Mondo” (rilasciata il giorno 8 giugno) sia immediatamente successiva ad un telegramma inviato da Giovanni Tamburino al presidente della Repubblica in cui il magistrato spiega i «possibili gravi coinvolgimenti» che emergono dalla sua istruttoria, comunicazione della quale Andreotti era verosimilmente informato e che può averlo indotto ad anticipare i tempi, rivelare circostanze che sarebbero comunque emerse e presentarsi quale promotore della trasparenza sulle distorsioni dei servizi.
Queste considerazioni si possono probabilmente calare in un contesto molto più vasto, che vede la Democrazia Cristiana sulla difensiva su più piani. C’è certamente la sconfitta sul divorzio, che testimonia come gran parte degli elettori della Democrazia Cristiana si dimostrino in buona misura indipendenti rispetto agli appelli del partito quando si tratta di decidere su singole questioni; essi continuano a dare il voto alla Dc (anche se, come suggeriscono le elezioni amministrative del giugno 1974 in Sardegna, i suoi consensi appaiono comunque in calo) perché di orientamento moderato e perché vi vedono la grande diga che ostacola l’avanzata delle sinistre, ma, quando si tratta di decidere su aspetti attinenti alla vita privata, lo fanno in autonomia e magari laicamente. La sconfitta del 12 maggio non è solo la sconfitta di Fanfani, che aveva fatto della consultazione popolare lo strumento per un’affermazione del partito e sua personale, ma di tutta la Dc (anche la sinistra Dc aveva votato a favore della strategia dello scontro politico con le forze favorevoli a mantenere l’istituto del divorzio, nella direzione del 9 febbraio 74; anche se poi alcuni, come Andreotti, affermano che si è trattato di un errore <119), la quale è ora pienamente consapevole della impossibilità di controllare completamente i propri elettori secondo i propri disegni e strategia, ma di dover tener conto delle dinamiche della società civile e, soprattutto, dell’indipendenza dei cittadini.
Ma, verosimilmente, oltre agli esiti del referendum, contribuisce a spingere la Dc sulla difensiva anche il susseguirsi di rivelazioni emerse in seguito alle inchieste della magistratura ed il loro alternarsi a gravi fatti eversivi di chiara matrice di destra. Dall’inizio dell’anno si sono susseguite notizie che, in un crescendo allarmante, hanno destato scalpore: il 13 gennaio, come ricordato, era stato arrestato Amos Spiazzi; con la sua requisitoria di febbraio il pubblico ministero Alessandrini aveva chiesto il rinvio a giudizio di Freda e Ventura per la strage di piazza Fontana, mettendo in luce il ruolo di Pino Rauti, già collaboratore del generale Aloja, ma soprattutto le azioni di depistaggio da parte del Sid; a marzo Tamburino aveva proceduto con l’interrogatorio di Andrea Piaggio circa i finanziamenti provenienti dalle sue aziende a favore di gruppi ritenuti eversivi, mentre “L’Espresso” aveva pubblicato un’intervista a Giannettini che sembrava intenzionato a fare rivelazioni <120, e a Catanzaro cominciava il processo a Valpreda, sempre per i fatti di Piazza Fontana del 1969, mentre in aprile la Corte di Cassazione, tra le critiche delle forze di sinistra <121, imponeva l’unificazione di quel processo con quello Milano a carico di Freda e Ventura. Pochi giorni dopo, per un caso fortuito, viene evitata una strage sul treno Bologna-Firenze, ma gli attentatori questa volta sono chiaramente individuati come neofascisti <122. A maggio vi è la sentenza della Cassazione che toglie un altro spezzone dell’inchiesta su Piazza Fontana alla magistratura milanese mentre lo Stato appare sotto scacco da parte dei terroristi che hanno rapito il giudice genovese Mario Sossi. Poi, a pochi giorni dall’esito del referendum, il 28 maggio, la strage di piazza della Loggia, da tutti attribuita senza esitazioni ai neofascisti, crea lo sconcerto nell’opinione pubblica e rende più urgente l’esigenza di chiarire, sul piano giudiziario ma anche su quello politico, le responsabilità a tutti i livelli degli episodi eversivi.
In questo contesto non sembra per nulla escluso che esponenti del maggiore partito di governo siano destinati a pagare un prezzo politico. Tanto Taviani quanto Andreotti hanno qualche ragione per sentirsi a rischio di divenire candidati per l’espiazione dei “peccati” democristiani, siano essi di semplice omissione di controllo o di altro tipo. Il primo, in numerose occasioni ministro dell’Interno e con una solida reputazione di anticomunista ad oltranza; il secondo, di cui si ricorda una stretta di mano al maresciallo Graziani, capo dell’esercito della RSI, davanti agli elettori in Ciociaria <123, identificato spesso come la destra del partito <124, capo del governo più a destra dai tempi di Tambroni, dopo le elezioni del 1972, e, soprattutto, un politico che ha grande familiarità con gli ambienti militari e dei servizi di sicurezza grazie al prolungato periodo trascorso come ministro della Difesa nei governi di centrosinistra.
In questa prospettiva, in un momento in cui non risulta affatto chiaro dove le inchieste potranno arrestarsi, non appare sorprendente che Andreotti abbia desiderato “giocare d’anticipo”. Il diario di Andreotti non è particolarmente utile a far luce perché si limita a giustificare il suo atteggiamento con il doveri istituzionali, ma senza spiegare il cambiamento subito dopo la bomba di Brescia <125. Maggiormente indicative quelle di Taviani, almeno perché sottolineano l’errore precedentemente commesso dal partito circa il terrorismo di destra ed il sostegno alla teoria degli opposti estremismi <126: «La strategia degli opposti estremismi avrebbe dovuto costituire il pilastro della forza elettorale democristiana, ne fu invece il batterio che la corrose: prolungò gli anni di piombo, logorò le istituzioni, distrusse la Dc» <127.
[NOTE]
111 Vedere la testimonianza di Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi negli anni Novanta, in G. Fasanella, Segreto di Stato. Cit. «Tra il 1969 ed il 1974», afferma Pellegrino, «durante la strategia della tensione, l’Ufficio Affari Riservati si distinse per la sua attività di copertura nei confronti degli autori delle stragi e di depistaggio delle inchieste della magistratura… D’Amato, di fatto, fu il coordinatore di quell’ufficio»
112 Vedere, ad esempio, l’intervista a Eugenio Scalfari su L’Espresso, n. 35 del 1974, “Taviani: ai fascisti ci penso io”.
113 “Questa è la verità”, Il Mondo, 20 giugno 1974
114 “Sifar e Nofar”, L’Avanti, 07 luglio 1974
115 Questa è anche l’opinione di G. Galli, Mezzo secolo di Dc. Cit. Pag. 278 e, almeno per quanto riguarda Andreotti, è anche la principale ipotesi di P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992. Cit. Pag. 551
116 Vedere, ad esempio, gli articoli “Parola di Andreotti” e “Licenziati!” sui numeri, rispettivamente 41 e 48 del 1974 dell’Espresso.
117 Vedere, ad esempio, una nota elaborata dalla sezione problemi dello Stato della direzione del Pci, datata 1 agosto 1974, riguardante il terrorismo che denota la maggiore determinazione della magistratura nel perseguirlo e il mutato
atteggiamento di alcuni politici (il riferimento è ad Andreotti). Fondazione Gramsci, Archivio del Pci. Busta 079-Pag. 175X
118 G. De Lutiis, I servizi segreti in Italia. Cit. Pag. 226s.
119 “Questa è la verità”, Il Mondo del 20 giugno 1974. Cit.
120 “Freda? Quello si che è un vero amico”, L’Espresso, N. 12 del 1974,
121 L’Unità del 05/04/1974 pubblica un articolo in prima pagina, “Estromessi i magistrati di Milano da tutta l’inchiesta su piazza Fontana”, in cui definisce la sentenza della Cassazione «scandalosa» e parla di «sfida all’opinione pubblica». Vedere anche “L’ombra della Cassazione”, L’Avanti del 04 aprile 1974
122 “Attentato sul Bologna-Firenze, i terroristi volevano la strage”, Unità del 22 aprile 1974. vedi stampa
123 M. Franco, “Andreotti”, Mondadori, Milano, 2008.
124 Vedere, ad esempio, A. Quaglio, “Radiografia delle correnti Dc”, Mondoperaio, Maggio 1973
125 G. Andreotti, Governare con la crisi, Rizzoli, Milano, 1991. Pag. 210-211
126 Spiega Taviani che «Nella dottrina, nessuno ha mai negato la teoria degli opposti estremismi: di qua lo statalismo integrale, di là la destra di stampo autoritario. Ma la “strategia degli opposti estremismi” sbagliava, perché poneva sullo stesso piano, da un lato le efferate azioni delle Br incapaci di generare una svolta dittatoriale di sinistra e dall’altro la galassia dell’estrema destra che – al contrario – rischiava realmente di portare a una svolta autoritaria». P. E. Taviani, Politica a memoria d’uomo. Il Mulino, Bologna, 2002. Pag. 403
127 Ivi. Pag. 404.
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, 2013

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