Gli uomini della Banda Gallo erano accusati di “collaborazionismo col tedesco invasore, di sevizie di torture e di uccisioni”

Il carcere dell’ex XXI° a La Spezia come si presentava dopo la Liberazione. È visibile il corridoio di accesso alla “stanza delle torture”. Fonte: I.S.R., Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea

Aurelio Gallo, nato nel 1900 a Raveo, in provincia di Udine, era una figura atipica nel fascismo spezzino. Fu autista prima di un imprenditore marittimo, poi dei Fasci Femminili, quindi del Vescovo della Diocesi di Luni, Costantini. Perse l’incarico per le sue continue molestie agli adolescenti: fu bollato come “pederasta”, oggi diremmo “pedofilo”. Fece poi l’autista per la Federazione Fascista e per il locale comando delle SS. Si era iscritto al Partito Nazionale Fascista relativamente tardi (nel 1933), rimanendo all’interno del partito locale una figura assolutamente secondaria. Dopo l’8 settembre 1943, pur non avendo nessun grado e incarico ufficiale, diventò però uno dei confidenti e dei collaboratori più fidati dei nazisti, favorito sia dalla sua conoscenza del tedesco sia dalla sua offerta di disponibilità per individuare e fare arrestare i partigiani spezzini. Diventò una spia dell’OVRA, la polizia segreta fascista, e i comandi tedeschi si fidarono sempre più di lui. La sua uniforme fuori ordinanza nera e senza nessuna insegna di grado -pantaloni alla cavallerizza, giaccone, stivali, berretto- diventò presto nota alla popolazione spezzina, dato che Gallo non solo partecipava ai rastrellamenti contro i partigiani, ma conduceva anche con ferocia e sadismo gli interrogatori dei prigionieri. Dalla sua rete di delatori raccoglieva notizie, spesso inventate, per arrestare e torturare anche persone innocenti.
Nella sentenza a suo carico si fa riferimento a “torture… praticate con raffinata, medievale barbarie”: percosse con bastoni, calci di pistola e fruste appesantite dal piombo, distorsione delle dita, asportazione delle unghie, applicazione di corrente elettrica ai genitali e altre sevizie.
Della famigerata banda Gallo facevano parte Emilio Battisti, trentino, Achille Morelli, di Fabiano, il migliarinese Matteo Guerra con la madre e la sorella, Aldo Capitani, anche lui di Migliarina [quartiere di La Spezia]. E don Rinaldo Stretti, che, come Guerra e Capitani, prima era stato vittima di Gallo, per poi diventare suo complice e a sua volta aguzzino.
Se ripercorriamo la storia della Resistenza nella IV Zona Operativa, in quasi tutte le uccisioni e i rastrellamenti Gallo e la sua banda furono protagonisti: a Calice il 30 dicembre 1943; a Chiusola il 5 aprile 1944, quando fu ucciso Piero Borrotzu; a Migliarina il 19 settembre 1944 nella casa di Isolina Boeri, che fu talmente torturata da perdere la ragione (finì la sua vita nel manicomio di Volterra); a Migliarina il 1° ottobre 1944, con l’arresto dei fratelli Ruggia, uno fucilato, l’altro deportato a Mauthausen, dove morì.
E poi il grande, terribile, rastrellamento a Migliarina del 21 e 22 novembre 1944, nel quale furono arrestate oltre 350 persone. Alcuni morirono durante gli interrogatori all’ex XXI Reggimento Fanteria e nel carcere di Marassi a Genova, altri si tolsero la vita. Anche a Marassi operò la banda Gallo. Circa 250 persone furono inviate a Bolzano e da lì verso i campi di sterminio in Germania. Solo la distruzione da parte degli Alleati della linea ferroviaria del Brennero il 25 febbraio 1945 impedì la deportazione in Germania di tutti i prigionieri spezzini. Tutta l’operazione avvenne con l’appoggio dei tedeschi, ma la sua esecuzione fu lasciata in buona parte ai fascisti; anzi, i tedeschi manifestarono qualche critica al carattere troppo violento e indiscriminato del rastrellamento.
Gallo fu protagonista anche del rastrellamento di Vezzano Ligure, nel quale furono uccisi due giovani innocenti e furono arrestati, orrendamente torturati e poi fucilati i partigiani Enrico Bucchioni e Pierino Andreani. Altri arrestati furono deportati in Germania.
[…] Nell’introduzione al mio libro “Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945” ho scritto che “alla Spezia il carattere antifascista della guerra partigiana fu molto netto” e che questo dato “emerge con forza dalle testimonianze di tutti coloro che raccontano che cosa fu l’ex XXI Reggimento Fanteria: la caserma, occupata dalle Brigate Nere, fu trasformata in comando-carcere e in luogo di terribili torture”. Aggiungevo: “La stessa memoria spezzina della deportazione è fortemente antifascista, non solo antinazista: dall’ex XXI partivano infatti i prigionieri condannati ai campi di concentramento in Germania”.
Il carattere antifascista della guerra partigiana riemerse con nettezza anche dopo la guerra, al tempo dei processi contro i crimini fascisti, che rivelarono una vera e propria galleria degli orrori.
[…] Le pagine di Luigi Leonardi ben ricostruiscono queste vicende: l’arresto di Gallo e dei suoi complici, il processo, la condanna a morte. Così Renato Jacopini, il partigiano “Marcello” nominato Questore dopo la Liberazione, racconta in “Lunense” il clima di quei giorni: “Aurelio Gallo sparì… qualche giorno prima della Liberazione. Tutta la città era ansiosa di sapere che fine avesse fatto, o meglio dove era fuggito o dove si era nascosto. Il popolo, se l’avesse trovato, era pronto al linciaggio. La fantasia popolare era accesa a tal punto che tutti vedevano il Gallo in ogni luogo”. Gallo fu arrestato in Carnia la notte del 19 dicembre 1945, riuscì a scappare ma fu riacciuffato e condotto nel carcere spezzino di Villa Andreini. Gli altri componenti della banda erano già stati tutti arrestati.
Il processo iniziò il 6 maggio 1946 e terminò il 14 maggio. Fu celebrato nella palestra del complesso scolastico di via Napoli, causa l’inagibilità del Tribunale spezzino. […]
Giorgio Pagano (autore di “Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945” e di “Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona Operativa, tra La Spezia e Lunigiana”), Prefazione a Umili e ribelli. Memorie di guerra in Lunigiana di Luigi Leonardi, Mursia Editore – 2018, Associazione Culturale Mediterraneo, 20 aprile 2019

Intervista del: 07.06.2000 a La Spezia realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
[…] Mi chiamo Morelli Vittorio, sono nato a La Spezia il 6 luglio 1920.
Nel periodo della guerra, io sono anche invalido di guerra, rimasto ferito in Albania, facevo parte della Divisione Acqui, però sono rimasto ferito il secondo giorno di Natale del 1940.
[…] Viene però l’8 settembre. Allora cosa succede? L’8 settembre era già venuto, come avevo detto prima. Lì avevano installato anche una stazione di Brigate Nere, le quali mattina e sera controllavano i documenti a tutti. Dovevamo avere la carta d’identità, farla vedere. Oggi c’era uno, domani un altro, e chiedevano continuamente questi documenti.
Va bene, fino a qui non era ancora successo nulla. Se non che prima il primo novembre i repubblichini, cioè i facenti parte della tristemente nota Repubblica Sociale Italiana di Salò, avevano formato queste Formazioni Nere, le cosiddette Brigate Nere, ed in più la Guardia Repubblicana, sempre formazioni fasciste che aiutavano, collaboravano strettamente con i tedeschi ecc…
Il primo novembre del ’44, anzi, alcuni giorni prima, due o tre giorni prima avevano messo dei gran manifesti nella frazione di Migliarina, lì dove io ero sceso dal tram, dovevo poi farmela a piedi fino a Bonviaggio. Avevano messo dei gran manifesti dove dicevano: il giorno primo novembre dalle ore 12 saranno passati per le armi dodici banditi. Alle ore 12.
[…] Noi poi ad uno ci hanno riportato sempre lì alla Flage in una vasta stanza in cui erano sedute parecchie persone, tutti in borghese. Anche persone di fascisti di provata fede, ma erano in borghese con la camicia nera. In piedi c’era il capitano delle SS italiane Battisti, trentino di nascita, che era stato Ufficiale dell’Esercito, ma dopo l’8 settembre si era naturalmente subito arruolato di là con le SS, ed era questore di La Spezia. Un boccione aveva, il quale prendeva i nostri documenti, a me ha detto, aveva già la carta d’identità che ci avevano requisito subito all’entrata, mi ha chiesto come mi chiamavo, ho detto Morelli Vittorio. Lui dice: “Morelli Vittorio, abitante in via Bonviaggio…” Però guardava poi tutti quei signori che ormai sapevano come si dovevano comportare, ed hanno fatto cenno con la testa che non mi riconoscevano, come infatti era vero.
Però un giovane di bassa statura, un certo Capitani, che poi ho saputo dopo che si chiamava Capitani, fa al capitano, dice: “Sì, ma lo conosco io di vista”. Dice: “Lo vedevo prendere il filobus al mattino, al pomeriggio”. Dico: “Sì, perché mi reco al lavoro, io sono impiegato al Comune, vado e vengo e poi vado a casa”.
Redazione, Vittorio Morelli, Lager e deportazione

Come già accennato in precedenza, solo tre delle dieci condanne alla pena capitale furono eseguite. I tre condannati facevano tutti parte della famigerata “Banda Gallo” <234.
Nei fascicoli esaminati nell’archivio di stato di Genova non sono presenti gli atti processuali e le sentenze a carico degli imputati e per la ricostruzione dei fatti ho utilizzato i giornali di quel periodo, “Il Tirreno” e l’ “Unità”.
Tutto viene fatto risalire all’omicidio della GNR Ghisfredi compiuto il 13 settembre 1944; a seguito di tale accadimento il capitano della GNR Emilio Battisti incominciò un’inchiesta che diede luogo all’arresto e all’interrogatorio di circa venti persone le quali per sottrarsi alle sevizie, ne denunciarono delle altre.
Questa indagine contribuì a far crescere nelle forze germaniche la convinzione di trovarsi davanti ad una organizzazione patriottica clandestina e i tedeschi affiancarono a Battisti, Aurelio Gallo. Si innescò una serie di arresti a catena con torture di ogni genere.
Gli accusati rinviati a giudizio erano nove, sette uomini e due donne, tutti detenuti nel carcere di Villa Andreini. Il reato più grave era quello che con responsabilità diverse avevano tutti i soggetti giudicati che era concretizzato nell’arresto, nella tortura di 252 persone, sospettate di collaborare con la resistenza, molte della quali vennero deportate in Germania, dove trovarono la morte.
Si trattava del questore Emilio Battisti, di Aurelio Gallo ex autista del vescovo, del brigadiere della Guardia Nazionale Repubblicana Achille Morelli, di Aldo Capitani, di Matteo Guerra, di don Rinaldo Stretti, di Pasquale Rucco agente di custodia, di Rosaria Di Matteo madre di Matteo Guerra, e Anna Guerra sorella gemella di Matteo.
Gli uomini della Banda Gallo erano accusati di “collaborazionismo col tedesco invasore, di sevizie di torture e di uccisioni”, le due donne soltanto di collaborazionismo e delazione.
Il processo durò dal 7 al 14 maggio 1946.
Il Presidente della Corte era Enrico Antonini i cinque giudici popolari erano Anselmo Corsini, Morandi, Dante Toracca, Guglielmo Toracca ed Emilio Zappa. Il pubblico ministero era l’avvocato Gaetano Squadroni.
Gli avvocati erano tutti difensori d’ufficio; Romanelli per Pasquale Rucco; Malatesta per Don Rinaldo Stretti; Bellincioni per la famiglia Guerra; Fornelli per Aldo Capitani; Rossi per Achille Morelli; Tinti per Emilio Battisti; l’unico ad essere rappresentato dal difensore di fiducia, Degli Occhi del collegio di Milano era Gallo.
La Cas aveva sede nella palestra della scuola di Via Napoli.
Al pubblico dibattimento assistevano i familiari delle vittime, le vittime stesse e molta gente comune che voleva vedere i carnefici della Banda. Donne vestite di nero davanti alle belve repubblichine, intitolavano i giornali di quei giorni mettendo in evidenza quelle presenze femminili, madri, sorelle, mogli e figlie di vittime torturate o deportate nei campi di concentramento <235.
Fuori dall’aula molta polizia ma anche molti partigiani che avevano ripreso le armi e facevano servizio d’ordine per quella importante occasione.
Il primo ad essere interrogato fu Battisti, accusato di aver fatto parte delle SS tedesche di aver inflitto sevizie e maltrattamenti per estorcere confessioni e di aver fatto deportare molti prigionieri. Una accusa gravissima pendeva su di lui era quella di aver torturato Fabbricatore. Battisti si dichiarò sempre innocente e se qualche volta aveva ecceduto lo aveva fatto su ordine dei suoi superiori.
A Don Rinaldo Stretti venne imputato di aver rivelato alle autorità nomi e fatti di antifascisti, si difendeva dicendo che i nomi erano noti a tutti e si rivendicava il merito di aver salvato molti sacerdoti.
Pasquale Rucco si dichiarava innocente e si diceva vittima delle torture inflitte da Gallo.
Rosaria e Anna Guerra venivano accusate di aver fatto arrestare molti abitanti di Migliarina a causa delle loro delazioni ma le due donne si dichiaravano innocenti.
Aurelio Gallo, il più odiato dagli spezzini si difendeva affermando di essere stato un semplice agente delle SS, di non aver mai seviziato ne torturato e di aver dato al massimo qualche schiaffo.
Achille Morelli nel suo interrogatorio respinse l’accusa di seviziatore.
Il presidente si rivolse a Capitani che confessò solo di aver partecipato ai rastrellamenti di Migliarina ma di non aver mai torturato nessuno.
Infine la parola andò all’imputato Matteo Guerra che ammise di aver commesso abusi sui dei prigionieri ma solo perchè costretto da Gallo e da Battisti.
Il giorno seguente e per altri cinque giorni davanti alla Cas comparvero un centinaio di testimoni d’accusa che raccontavano con precisione i fatti attribuiti agli imputati. Si parlò di arresti di familiari poi deportati in Germania, di percosse e sevizie ai detenuti per fargli confessare colpe non commesse, di torture, di rastrellamenti. I fatti erano descritti in modo molto dettagliato e mettevano in evidenza la malvagità degli incriminati in particolare di Gallo, Battisti e Morelli.
Il settimo giorno fu il momento piu atteso del processo, il PM richiederà le condanne.
Il Pubblico Ministero aprì la sua requisitoria rivolgendosi al Giudice: “Signor Presidente e signori giudici, non vi è persona, per quanto in basso caduta, che non presenti qualche lato umano per essere difesa. Questa era la mia convinzione sino all’incontro con queste belve umane”. Descrisse dettagliatamente le sue convinzione al riguardo di ognuno degli imputati. Si soffermò in particolare su Gallo: lo accusò di aver picchiato a sangue Fabbricatore prima del suicidio, di aver commesso tutti i reati a lui contestati con cinismo e di aver tenuta la popolazione cittadina sotto la paura. Anche per Battisti e per Morelli le parole del PM furono dure e passò in rassegna le testimonianze delle varie torture. La posizione delle due donne era meno compromettente e Squadroni le illustrò come persone di secondo piano che avevano il compito di indicare gli individui da arrestare. Aldo Capitani venne definito come “il terrore di Migliarina” poiché arrestava innocenti per il solo gusto di arrestare o per vendetta personale. Degno compagno di Capitani fu Matteo Guerra che nonostante si sia difeso affermando che arrestavano solo uomini scritti nelle liste fornite dalle SS non viene creduto dal PM. Ma il PM fu duro anche nei confronti di Don Rinaldo Stretti definendolo miserabile e spregevole per aver tenuto un atteggiamento da persecutore e torturatore. Unico a non scatenare il dissenso del PM fu Rucco per il quale chiese alla Corte di giudicarlo in maniera benevola.
Si arrivò alla richiesta della condanna a morte per Battisti, Gallo e Morelli. Per Capitani, Matteo Guerra e Don Stretti trenta anni di reclusione. Per Rucco e Anna Guerra sei anni e otto mesi.
Il 14 maggio fu l’ultimo giorno del processo contro la banda Gallo. Era la giornata in cui gli avvocati dovranno cercare di difendere uno ad uno gli imputati. Inizia Luigi Rossi, difensore d’ufficio di Achille Morelli. Nella sua arringa
esordì affermando che la difesa era un diritto inviolabile dell’uomo e anche nel caso di questi criminali non si può non concederla. Il suo assistito in particolare aveva partecipato alle torture e alle sevizie ma aveva dimostrato anche alcuni momenti di umanità. Chiede che gli venga riconosciuto le attenuanti generiche e che venga condannato per collaborazione politica anziché militare. Anche l’ avvocato Tinti difensore d’ufficio di Emilio Battisti fa riferimento
al diritto di ciascun uomo alla difesa e per il suo assistito chiede attenuanti generiche perché ha commesso tutti queste efferatezze ma come dipendente diretto delle SS doveva seguire i metodi tedeschi nel campo della polizia giudiziaria. Per la difesa di Gallo l’avvocato Dagli Occhi chiese la remissione del processo ad altra sede e l’applicazione dell’art. 58 che contempla la collaborazione politica.
La Corte si riunì in camera di consiglio e dopo nemmeno un’ora il Presidente Antonini lesse la sentenza. Emilio Battisti, Aurelio Gallo, Achille Morelli, Aldo Capitani e Matteo Guerra vennero condannati alla pena capitale. Don Rinaldo stretti a venti anni di reclusione, Pasquale Rucco e Rosaria Di Matteo Guerra a 10 anni ed Anna Guerra a 4 anni. Il processo si chiuse così tra le grida della folla che insultava e mandava maledizioni ai condannati.
Contro la sentenza si ricorre in Cassazione e per difetto di motivazione si ebbe il rinvio all’Alta Corte d’Assise di Genova. Il nuovo procedimento confermerà la pena di morte per Gallo, Battisti, Morelli, 30 anni di reclusione per Capitani e Guerra di cui 10 condonati. Per quanto riguarda Rosaria di Matteo Guerra e la figlia Anna, i loro reati vennero amnistiati dalla Cassazione mentre di Rucco non si hanno notizie ulteriori. Respinta la domanda di grazia il 5 marzo 1947 nel Forte Bastia di Vezzano Ligure si ebbe la fucilazione dei tre condannati a morte. Il questore di quel periodo, Antonino Russo, dispose l’assoluta riservatezza per l’esecuzione impedendo la presenza del pubblico ma non quella dei giornalisti. Il plotone di esecuzione era composto da 18 uomini e un sottufficiale. Disposti in due file, divisi in tre gruppi di sei, tre in piedi e tre davanti con ginocchio a terra. Ogni gruppo di sei dovrà sparare mirando alla nuca o alle spalle, sulla sinistra del giustiziando che si ha di fronte. I condannati non morirono immediatamente e ci fu bisogno di due scariche e un colpo di grazia da parte del comandante del plotone. I cadaveri composti nelle bare vennero trasferiti al cimitero dei Boschetti <236.
Ma a questo punto davanti al tribunale si riunì una folla minacciosa che chiedeva a gran voce di poter vedere i cadaveri, spostandosi poi al cimitero, dove si radunarono migliaia di attivisti. Ovviamente i magistrati non volevano cedere ma la tensione crebbe al tal punto che, alla fine, fu deciso di disseppellire le bare e di aprirle per far vedere i cadaveri. In un clima di grande confusione, le bare furono aperte e i cadaveri vennero raggiunti da sputi e colpi <237.
[NOTE]
234 Vincenzo Marangione, Tarcisio Trani, Polizia e cittadini nella resistenza – i martiri dimenticati, Luna Editore, Milano, 2014.
235 Il Tirreno – 7 maggio 1946.
236 Il Secolo XIX, 7 marzo 1947
237 Il Secolo XIX, 7 marzo 1947
Marco Bardi, La Repubblica Sociale Italiana alla Spezia tra pratiche repressive e punizione dei crimini, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2019

All’alba del 5 marzo, al forte Bastia di Vezzano Ligure, la sentenza fu eseguita. I corpi dei tre torturatori furono trasportati al cimitero della Spezia. La mattina del 6 maggio i parenti delle vittime si recarono al cimitero per sincerarsi dell’identità delle vittime. Per evitare gravi incidenti la bara di Gallo fu riaperta, alla presenza del Sindaco Osvaldo Prosperi, ed esposta alla vista di una folla enorme che sfilava.
“Dopo questo macabro ma simbolico rituale di riconoscimento -ha scritto lo storico Maurizio Fiorillo in “La Spezia tra guerra e dopoguerra 1940-1948″- la tensione si dissolse rapidamente. La più sentita delle ferite subite dalla popolazione della Spezia durante la guerra cominciò a rimarginarsi”.
Certamente le pagine di storia rievocate da Luigi Leonardi impressionano per la violenza dei tempi. In “La guerra civile” Claudio Pavone ha scritto che in quegli anni “l’esercizio della violenza apparve come lo sbocco di un’accumulazione di lunga data” e che questo “rese la violenza da una parte più ovvia, dall’altra più spietata; ma preparò allo stesso tempo il passaggio a una riconsiderazione dei limiti del ricorso a essa e della possibilità di un suo uso contingente per renderla nel futuro impossibile”.
Il 9 dicembre 1947 Guerra e Capitani furono condannati dalla Corte d’Assise di Genova a 30 anni, di cui 10 condonati. L’11 gennaio 1949 la Corte di Cassazione determinò una pena residua di 8 anni. Il 4 febbraio 1950 venne condonato un altro anno. Il 10 luglio 1956 la Corte d’Appello di Genova riabilitò Guerra. Il 12 luglio 1947 la Corte di Appello di Genova dichiarò estinta la condanna di don Stretti per sopraggiunta amnistia. Il sacerdote riprese la sua funzione nelle Marche e in Toscana, fino alla morte avvenuta il 4 marzo 1990. Il 2 luglio 2011 il Comune di Uzzano Castello gli dedicò un piccolo parco pubblico, intitolato “Corte don Rinaldo Stretti”.
Per ciò che riguarda Genova, solo uno su dieci dei condannati delle Corti d’Assise speciale e straordinaria sconterà davvero la pena. E anche in questo caso, per di più, si tratterà quasi sempre di pene di entità minori.
In questo generale colpo di spugna la condanna di Gallo, Battisti e Morelli fu un’eccezione. Il motivo emerge con chiarezza dalle pagine di questo libro: la “sovranità” del popolo spezzino si impose e prevalse.
Su Aurelio Gallo e la sua banda e sul processo si vedano:
Marcello Jacopini, “Lunense”, Tipografia Moderna, 1975
Associazione Partigiani Cristiani F.I.V.L, “Sacerdoti cattolici nella Resistenza”, Zappa, 1979
Antonio Bianchi, “La guerra fredda in una regione italiana. La Spezia e Lunigiana 1945-1953”, Franco Angeli, 1991
AAVV, “Migliarina ricorda, testimonianze sulla Resistenza e deportazione ’43-’45”, Daniela Piazza Editore, 1996
Laura Lotti, “Attilio e gli altri”, Lunaria, 1996
Maurizio Fiorillo, “La Spezia tra guerra e dopoguerra 1940-1948”, tesi di laurea discussa presso l’Università di Pisa, relatore Gabriele Ranzato, a. a. 1998-99
Antonio Bianchi, “La Spezia e Lunigiana – Società e politica dal 1861 al 1945”, Franco Angeli, 1999
Maurizio Fiorillo, “Uomini alla macchia, partigiani, sbandati, renitenti, banditi e popolazione nella Lunigiana storica 1943-1945”, tesi di dottorato discussa presso l’Università di Pisa, relatore Gabriele Ranzato, a. a. 2005
Andrea Casazza, “La beffa dei vinti”, Il melangolo, 2010
Vincenzo Marangone, Tarcisio Trani, “Polizia e Cittadini nella Resistenza, I martiri dimenticati”, Luna Editore, 2014
Giorgio Pagano, art. cit.