Lattes rivide e modulò l’idea che i decreti del settembre 1938 avessero costituito una cesura brutale nella storia ebraica italiana

Con i decreti legge dell’1 e 2 settembre 1938 anche i più fiochi barlumi di speranza si spensero. I provvedimenti infatti colpirono sia gli ebrei stranieri sia quelli italiani. Ai primi fu vietato di fissare stabile dimora nel Regno – comprese le colonie – e furono revocate loro tutte le concessioni di cittadinanza italiana emesse in data posteriore al 1 gennaio 1919. Gli ebrei italiani, invece, furono colpiti soprattutto dal decreto di arianizzazione della scuola pubblica innanzitutto per le ricadute oggettive del provvedimento (esclusione degli ebrei dall’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado e l’espulsione degli alunni ebrei dalla frequenza delle scuole pubbliche) ma anche perché l’istruzione, storicamente, era stata uno dei più importanti canali di integrazione nazionale <24.
In quel momento gli ebrei realizzarono che si fosse aperta la vera “ora della prova”: una prova che, come scrisse Dante Lattes, gli ebrei avrebbero dovuto affrontare con la stessa dignità con cui i padri dell’ebraismo avevano superato i momenti critici della loro esistenza. Fingere che il dolore non esistesse era impossibile innanzitutto perché il decreto determinava la brutale esclusione degli ebrei dal luogo per eccellenza dove il patriottismo veniva infuso e si cementava. Esso, inoltre, causava l’espulsione dal circuito educativo di migliaia di giovani e la disoccupazione per molti docenti. Un pensiero speciale fu dedicato da «Israel» proprio a questi ultimi, il cui esodo forzato fu considerato come un motivo di particolare tristezza perché i loro magisteri, da sempre informati solo e completamente sulla cultura italiana, avevano rappresentato l’esito più alto dell’integrazione ebraica <25.
Nella riflessione scritta in occasione del capodanno ebraico del 1938, Lattes rivide e modulò l’idea che i decreti del settembre 1938 avessero costituito una cesura brutale nella storia ebraica italiana. Egli, infatti, definì quello che stava per aprirsi come «un anno nuovo, più grave e più serio degli altri anni che sono passati finora», come per sottolineare che gli ebrei italiani fossero stati sempre consapevoli della problematicità della situazione e che i provvedimenti avessero rappresentato il culmine di quel processo inesorabile di espulsione dalla nazione italiana. Privati definitivamente del passato di integrazione nella patria, che era un elemento costitutivo della loro identità, gli ebrei dovevano trovare la forza per resistere nella storia ebraica, che era storia dell’«unità di Dio nell’unità degli uomini». Quella tradizione, disse Lattes, insegnava che in tutti i momenti di sofferenza il popolo ebraico aveva ricevuto l’aiuto divino dopo il «ritorno sulla buona via, ritorno alle fonti, ritorno a Dio» e quello era ciò che gli ebrei italiani avrebbero dovuto fare in quel tragico momento per sopravvivere <26.
I provvedimenti più duri nei confronti degli ebrei furono quelli presi dal Gran Consiglio del fascismo il 6 ottobre 1938 con la Dichiarazione sulla razza. Nel documento si affermò che fin dalla sua istituzione il fascismo aveva mirato a migliorare quantitativamente e qualitativamente la razza italiana e per non compromettere quel risultato da quel momento i contatti con le razze non ariane dovevano essere limitati e controllati dal governo, mentre gli incroci, che avvenivano tramite matrimoni misti, erano vietati. Una parte della Dichiarazione fu riservata alla definizione su base biologica dell’appartenenza ebraica e si ribadì che gli ebrei di tutto il mondo, e quindi anche quelli italiani, non potevano far parte della razza ariana perché l’«internazionalismo di Israele» li rendeva per principio bastioni dell’antifascismo e del bolscevismo all’interno di tutti i paesi e negatori del primato della nazione fascista in Italia. La persecuzione, si annunciò nella Dichiarazione, non avrebbe coinvolto quegli ebrei che avessero particolari meriti patriottici o che si fossero distinti nella difesa della causa fascista. Per tutti gli altri ebrei fu fatto divieto di essere iscritti al Partito Nazionale Fascista, di possedere o dirigere aziende che avessero più di cento dipendenti, di essere proprietari di più di cinquanta ettari di terreno e di prestare servizio militare in pace e in guerra. A prescindere da meriti e onori, tuttavia, in nessun caso e a nessun ebreo sarebbe stato consentito di insegnare nelle scuole del Regno e tutte le indicazioni, a cominciare dalle categorie “risparmiate” dalla persecuzione, avrebbero potuto essere «annullate o aggravate a seconda dell’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei riguardi dell’Italia fascista» <27.
Il 12 ottobre 1938 l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane si riunì in consiglio per discutere della situazione; nessun provvedimento poteva fermare la persecuzione e una critica esplicita e formale della legislazione non avrebbe fatto altro che facilitare la messa in clandestinità dell’ebraismo italiano da parte del fascismo. Il consiglio, pertanto, non poté fare altro che manifestare la grave apprensione per il futuro degli ebrei in Italia, sottolineando che la disposizione che provocava maggiore rammarico era l’estromissione dal «poter offrire il braccio ed occorrendo la vita per la Patria» <28.
Il sacrificio militare nel Risorgimento e nella prima guerra mondiale aveva rappresentato per gli ebrei un’esperienza cruciale e fondante della loro identità italiana; a tutti gli attacchi del fascismo, e specialmente in occasione di quelli più duri del 1928 e del 1934, gli ebrei avevano risposto appellandosi alla memoria del sangue versato per la patria per testimoniare e riconfermare il proprio patriottismo. Vietare l’arruolamento, così come l’accesso all’istruzione, significava impedire agli ebrei di rinnovare l’esperienza inclusiva per eccellenza nella patria e quindi negare loro la possibilità di avere una parte – e di poterla rivendicare – nel futuro della nazione <29.
Come scrive Giancarlo Sacerdoti, dopo la promulgazione dei decreti legislativi del settembre 1938 e dopo la Dichiarazione sulla razza, gli ebrei realizzarono di trovarsi davanti a un terribile dilemma: «emigrare, battezzarsi, avere pazienza, impazzire e battere la testa contro il muro e uccidersi» <30. Ogni decisione era influenzata da diversi fattori, come la condizione economica, la situazione lavorativa, la possibilità o meno di continuare gli studi e tutte “imponevano” una negoziazione, o meglio una rinegoziazione, del valore dell’identità ebraica in sé e in relazione all’identità italiana, nonostante questa fosse stata negata dai decreti razzisti del fascismo <31.
Circa 6000 ebrei lasciarono l’Italia dopo la promulgazione dei decreti: 2000 circa si stabilirono negli Stati Uniti e altrettanti in America Latina <32. La scelta fu al contempo di tipo esistenziale ed economico, determinata da problematiche concrete come la perdita del lavoro o l’interruzione dell’attività professionale <33. Un posto speciale tra coloro che scelsero di emigrare lo ebbero le quasi 400 persone che, tra l’ottobre del 1938 e il giugno del 1940, decisero di trasferirsi in Palestina <34. All’interno di quel gruppo, sostiene Marzano, si possono distinguere da un lato gli elementi che, pur essendo sionisti, emigrarono solo perché furono emanate le leggi razziali e dall’altro gli elementi che avevano in animo di fare ‘alyià già da anni e per i quali i decreti fascisti accelerarono la scelta <35. Fondamentale per tutti loro, a prescindere dalla rapidità e dalla maggiore o minore spontaneità della decisione, fu l’apporto del sionismo. La gran parte degli ebrei italiani che emigrò nel 1938, infatti, aveva partecipato alla stagione dei campeggi, conosceva l’esperienza delle haksharot (fattorie di addestramento) ed era convinta che un’esistenza ebraica integrale e moderna potesse aversi solo in Palestina e solo partecipando in prima persona alla realizzazione della nazione ebraica in chiave socialista o religiosa.
Il sionismo, in realtà, li salvò in qualche modo già in Italia, rafforzando la loro identità ebraica. Nonostante la campagna antiebraica fosse nel pieno del suo corso, il 26 luglio del 1938 aprì a Gressoney, in Val d’Aosta, l’ottavo campeggio estivo ebraico, a cui ne seguirono altri due, fino al 1940; allo stesso modo anche le haksharot non occupate da ebrei stranieri, colpiti dal decreto di espulsione del settembre 1938, rimasero attive fino all’entrata dell’Italia nel conflitto nel giugno del 1940 <36. In entrambi i contesti le attività, improntate allo studio della lingua e della tradizione ebraica, alla preghiera, alla discussione su temi di attualità sionistica e all’attività fisica di gruppo contribuirono a sviluppare nei partecipanti il senso di appartenenza a un progetto di rinascita e di rinnovamento dell’identità e a infondere fiducia nel futuro dell’ebraismo.
La maggioranza degli ebrei scelse di restare in Italia, cercando di trovare il proprio posto «in un mondo uguale al precedente e però stranamente nuovo» <37, nel quale l’identità ebraica era stata imposta dal regime.
[…] La petizione alle autorità fu un’altra via scelta dagli ebrei per sopravvivere in patria; una via complementare e intrecciata a quella del rifugio nell’ebraismo, perché il suo scopo era quello di affermare l’identità italiana, di conservare i diritti di cittadinanza e di non vedere stravolta la propria vita <41. Molti ebrei scrissero a Mussolini e al re chiedendo un atto di clemenza, rivendicando meriti patriottici o rinnovando la propria fedeltà allo stato nella speranza che ciò potesse risparmiare loro, e in generale tutti gli ebrei, dalla persecuzione e condannarli “soltanto” alla discriminazione. Nella percezione ebraica, infatti, le leggi razziali coincisero immediatamente con la perdita della cittadinanza italiana e per quel motivo molti si illusero che la discriminazione fosse l’unico modo per mantenere lo status <42: «già da parecchi mesi i miei fratelli hanno presentato domanda per la loro discriminazione allegando titoli e documenti […] voi sapete bene che i miei fratelli hanno un unico desiderio: quello cioè che sia loro riconosciuto il diritto di chiamarsi cittadini di questa Italia appassionatamente amata» <43.
La richiesta di discriminazione e l’atto di scrivere alle autorità mossero dalla volontà degli ebrei di mantenere l’identità di italiani, ma non per questo ridimensionarono la loro autopercezione ebraica. La maggior parte degli scriventi, infatti, non rinnegò la propria appartenenza ebraica e continuò a percepirla come non contraddittoria rispetto alla cittadinanza italiana.
[…] Già dal settembre 1938 l’astio degli ebrei fascisti nei confronti di «Israel» raggiunse livelli inediti. Essi non tolleravano che il giornale presentasse in maniera fiera e aperta gli ideali ebraici come strumenti di resistenza politica contro l’annientamento fascista e pensarono che un’azione punitiva potesse dimostrare al regime il patriottismo degli ebrei fascisti. Per quella ragione, nell’autunno del 1938, un gruppo di ebrei fascisti guidato dal consigliere della comunità di Firenze, ed ex membro del Comitato degli italiani di religione ebraica, Pietro Chimichi, assaltò e distrusse la tipografia dove veniva stampato «Israel» e la consegnò all’autorità del segretario federale fascista di Firenze. Per completare l’opera di dissociazione dall’ebraismo italiano, considerato una piattaforma antifascista, nel dicembre del 1938 venti consiglieri della comunità di Firenze rimisero ufficialmente il loro incarico <47.
[NOTE]
24 M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 164. Marie-Anne Matard-Bonucci, L’antisemitismo totalitario del fascismo, in Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Marie-Anne Matard-Bonucci, Enzo Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni. Vol. I. Le premesse, le persecuzioni, lo sterminio, Torino, UTET, 2010, pp. 141-168, in particolare pp. 150-161.
25 Nell’ora della prova, «Israel», 8 settembre 1938, p. 1. Sull’espulsione degli ebrei dalle accademie rimando al libro di Annalisa Capristo, L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, Torino, Zamorani, 2002.
26 Dante Lattes, Invito alla penitenza, «Israel», 22 settembre 1938, pp. 1-2.
27 M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei, cit., pp. 105-117.
28 AUCEI, fondo “Attività dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane dal 1934”, Libro dei verbali 1938, consiglio del 12 ottobre 1938.
29 Il regio decreto legge del 17 novembre 1938 dispose il licenziamento di tutti gli ebrei, anche di quelli “discriminati”, da tutte le cariche pubbliche e quindi anche dall’esercito. Sul valore civile di quell’estromissione cfr. Michele Sarfatti, I caratteri principali della legislazione antiebraica in Italia (1938-1943), in Anna Capelli, Renata Broggini, Antisemitismo in Europa, cit., pp. 192-211, in particolare pp. 210-211.
30 Giancarlo Sacerdoti, Ricordi di un ebreo bolognese: illusioni e delusioni. 1929-1945, Roma, Bonacci, 1983, p. 63. La scelta di parlare di “imposizione” è ispirata dal lavoro di Fabio Levi, L’identità imposta. Un padre ebreo di fronte alle leggi razziali di Mussolini, Torino, Zamorani Editore, 1996. Con la legislazione razziale agli ebrei fu imposta l’identità ebraica e furono negati i diritti, dunque fu imposta l’esclusione dall’Italia. In questo senso la rinegoziazione dell’identità si impose per gli ebrei come passo necessario per «continuare a vivere nella bufera» come ebrei e come italiani (Fabio Levi, Come continuare a vivere nella bufera. Gli ebrei italiani di fronte alla persecuzione, in M. Flores, S. Levis Sullam, M-A Matard Bonucci, E. Traverso, Storia della Shoah in Italia. Vol. I, cit., pp. 305-328).
31 Bruno Di Porto, Gli ebrei italiani di fronte al 1938, «La Rassegna Mensile di Israel», vol. 73, n. 2, Numero speciale in occasione del 70° anniversario dell’emanazione della legislazione antiebraica fascista (maggio-agosto 2007), pp. 249-276.
32 Enzo Traverso, L’esilio ebraico tra antisemitismo e antifascismo, in M. Flores, S. Levis Sullam, M. A. Matard-Bonucci, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vol. I, cit., pp. 371-401.
33 Ilaria Pavan, Tra indifferenza e oblio. Le conseguenze economiche delle leggi razziali in Italia (1938-1970), Firenze, Le Monnier, 2004.
34 Sergio Della Pergola, Amedeo Tagliacozzo, Gli Italiani in Israele. Le origini e lo sviluppo del gruppo italiano, «La Rassegna Mensile di Israel», vol. 43, n. 1-2 (gennaio-febbraio 1977), pp. 16-31; i dati complessivi riguardanti l’emigrazione ebraica italiana tra il 1935 e il 1975 si trovano alle pp. 22-24.
35 Arturo Marzano, Una terra per rinascere. Gli ebrei italiani e l’emigrazione in Palestina prima della guerra (1920-1940), Genova, Marietti, 2003 cit., p. 93.
36 L’apertura del campeggio fu annunciata in Dal campeggio ebraico, «Israel», 11-18 agosto 1938, p. 8; ricostruisce l’attività delle haksharot fino al 1940 A. Marzano, Una terra per rinascere, cit., pp. 70-71.
37 M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 236.
41 Si veda il bel libro di Paola Frandini, Ebreo tu non esisti! Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini, Introduzione di Alain Elkann, San Cesario di Lecce, Manni, 2007; Iael Nidam Orvieto, The Impact of Anti-Jewish Legislation on Everyday Life and the Response of Italian Jews, in Jehoshua D. Zimmerman (ed.), Jews in Italy under the Fascist and the Nazi Rule 1922-1945, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, pp. 158- 175.
42 Michael Livingston sostiene che, a causa dell’esistenza della clausola della discriminazione, in molti ritennero che le leggi razziali fossero deboli o edulcorate, ma in realtà è vero il contrario. L’idea della discriminazione, infatti, rese le disposizioni più malleabili da un punto di vista legale: a discrezione dei giudici, infatti, la “discriminazione” poteva essere negata o confermata, e quindi la disposizione legislativa applicata oppure derogata (Michael A. Livingstone, The Fascists and the Jews of Italy. Mussolini’s Race Laws 1938-1943, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, p. 23).
43 Lettera di G. M conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato, fondo Ministero dell’Interno Demorazza, citata in Iael Nidam Orvieto, Lettere a Mussolini: gli ebrei italiani e le leggi antiebraiche, in Liliana Picciotto (a cura di), Saggi sull’ebraismo italiano del Novecento in onore di Luisella Mortara Ottolenghi, numero speciale de «La Rassegna Mensile di Israel», vol. 69, n. 1 (gennaio-aprile 2003), pp. 321-346, la lettera è a p. 329.
47 Francesco Del Canuto, La soppressione della stampa ebraica in Italia e la sua ripresa (1938-1944), in Mezzabotta L. (a cura di), Italia Judaica, cit., pp. 464-473. A firmare la circolare di dissociazione furono Piero Chimichi, Giuseppe Funaro e Piero Sacuto.
Sara Airoldi, Nazione in Patria. Gli ebrei italiani e la sfida dell’identità (1918-1938), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2014/2015