I crimini commessi nei confronti del clero e dei credenti etiopici furono mascherati abilmente

Caro Tracchia, tu sei troppo vecchio coloniale per non comprendere che tutto il clero di Debre Libanos e popolazioni vicine sono complici nel conoscere esattamente i nomi coloro che in primo tempo si sono rifiugati presso il convento dopo aver partecipato all’attentato persona Vicere… Lascia perciò piena libertà di azione all’Arma per indagare et di penetrare dove ritiene meglio di penetrare. Diversamente ti assicuro che l’intero convento di Debra Libanos passerà un brutto quarto d’ora. Dammi notizie al più presto. Graziani.
Telegramma in Partenza: Generale Tracchia, ACS, F. RG, B. 48 (7 Marzo 1937).

Il 3 ottobre 1935, le forze armate del Regno d’Italia entravano in territorio etiopico.
La campagna richiese sette mesi, nonostante la superiorità in armamenti degli italiani (che, a differenza degli avversari, disponevano anche di un’efficiente aviazione), e l’errata strategia degli etiopici (invece di puntare sulla guerriglia, cercarono di fermare i nemici in campo aperto). La resistenza dell’esercito di Hailè Selassiè e le incertezze dei comandi italiani fecero sì che il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, comandante delle truppe regie, facesse il suo ingresso in Addis Abeba soltanto il 5 maggio 1936. Il 9 seguente Mussolini annunciò la “riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma”, e attribuì il titolo di imperatore d’Etiopia a Vittorio Emanuele III di Savoia.
Per spezzare la resistenza, gli italiani attuarono bombardamenti terroristici contro villaggi e insediamenti civili, e – su espresso ordine di Mussolini – impiegarono gas asfissianti, nonostante essi – usati nella Prima Guerra Mondiale – fossero proibiti dalla Convenzione internazionale di Ginevra del 1929 (che l’Italia aveva sottoscritto). Anche dopo la caduta della capitale e delle città, però, nelle campagne continuavano a combattere reparti dell’esercito imperiale sotto la guida di capi locali, (i ras). La “pacificazione” del territorio richiese diciotto mesi, e fu condotta con impressionante durezza dal generale Rodolfo Graziani, governatore della nuova colonia.
Dopo la presa di Addis Abeba, Mussolini aveva disposto che qualunque etiopico sorpreso armato fosse fucilato sul posto (fosse o no un soldato del Negus); a entrare nel mirino della repressione fu anche la popolazione civile. Da notare che parecchi capi guerriglieri, arresisi, vennero eliminati subito dopo la consegna delle armi, nonostante le assicurazioni di aver salva la vita ricevute dalle autorità italiane.
Dopo un tentativo di attentato contro Graziani, attuato da elementi della resistenza eritrea (Addis Abeba, 19 febbraio 1937), militari e civili italiani residenti nella capitale scatenarono un vero e proprio pogrom contro i nativi: torme di armati percorsero i quartieri indigeni uccidendo, saccheggiando, incendiando. Mussolini in persona, da Roma, ordinò un “radicale repulisti”; il risultato dei tre giorni di massacro furono almeno seimila morti tra la popolazione (a stare alle valutazioni più prudenti). Assieme a centinaia di abitazioni indigene venne data alla fiamme anche la chiesa cristiana copta di San Giorgio; chi cercava di sottrarsi con la fuga ai roghi diventava obiettivo del lancio di bombe a mano. Graziani decise allora di sterminare l’intelligencija locale, potenziale focolaio di opposizione: alti funzionari governativi, notabili del Negus, intellettuali, giovani che avevano studiato all’estero vennero fucilati sulla base di sentenze sommarie emesse dai tribunali militari italiani. La stessa fine fanno tutti i cadetti dell’Accademia militare di Addis Abeba.
A marzo il governatore ordina lo sterminio di indovini e cantastorie che, nelle loro profezie, annunciano l’imminente fine dell’occupazione italiana. Secondo i meticolosi appunti del comandante dei carabinieri stanziati nella colonia, Azzolino Hazon, da marzo al 2 giugno 1937 i militi ai suoi ordini avevano ucciso ben 2.509 indigeni (e stiamo parlando solo dei carabinieri!). Secondo l’inchiesta disposta dalle autorità d’occupazione, gli attentatori si sarebbero addestrati nella città sacra di Debre Libanos, centro della confessione cristiana copta; Graziani ordina allora al generale Pietro Maletti di marciare sulla città e di annientarla, assieme ai suoi abitanti, laici o religiosi che fossero. L’equivalente del Vaticano per gli etiopici deve essere cancellato. Maletti esegue con disciplina: nella sua marcia verso Debre Libanos i soldati ai suoi comandi bruciano 115.422 tucul (le abitazioni indigene), tre chiese, un convento, ed uccidono 2.523 etiopici. Ma non basta: occupata la città sacra, monaci, sacerdoti, giovani diaconi vengono condotti nel vallone di Zega Weden e sterminati in massa a raffiche di mitragliatrice, i corpi gettati nella gola. Le vittime
furono oltre 1.200. La strage fu apertamente rivendicata da Graziani, che la definì: “un romano esempio di pronto, inflessibile rigore”, gloriandosi della “chiusura (sic!) del convento di Debre Libanos.
Brunello Mantelli, L’Italia fascista. 1922-1945, Fenice 2000, 1995

1937. “Yekatit 12”, il dodicesimo giorno del mese di Yekatit, corrisponde al 19 febbraio. Il Viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani subisce un attentato. Due partigiani eritrei lanciano otto bombe a mano sulle autorità italiane: i morti sono sette e i feriti una cinquantina, tra cui lo stesso Graziani che però ne esce vivo.
I soldati italiani sparano indiscriminatamente sulla folla, provocando una prima strage. Graziani ordina che vengano attuate «le misure idonee a impedire eventuali ripercussioni», e che si agisca «col massimo rigore al primo manifestarsi di moti» (come riporta un resoconto presente nell’Archivio dell’Ufficio dello Stato Maggiore dell’Esercito), e Mussolini in un telegramma chiede un «radicale repulisti» – una piazza pulita. Ed è così che alcune migliaia di italiani – sia civili che militari – si lanciano in una terrificante “caccia” all’uomo che passerà alla storia come il massacro di Addis Abeba. Un poliziotto etiope, uno dei testimoni oculari della strage, avrebbe ricordato gli italiani che entravano nelle case dei locali e che, al grido di «Buongiorno!», li uccidevano a colpi di baionetta o di fucile, o li bruciavano vivi – quando i bambini scappavano dalle case in fiamme, gli italiani li lanciavano di nuovo dentro. È una carneficina.
Solo il trapelare delle notizie fino in Europa, attraverso i corrispondenti esteri, fa sì che il governatorato italiano imponga di cessare le violenze, che comunque proseguono. Vengono bruciati i cadaveri a migliaia, e continuano le rappresaglie, gli arresti indiscriminati e le torture. La strage conosce varie fasi, e va oltre i confini della capitale.
Indignato per la ferocia del massacro e non immaginando che altri stiano scattando delle fotografie che contribuiranno a lasciare traccia dell’avvenimento, il medico ungherese Ladislas Shashka, autore della più completa ed esplicita testimonianza che sia stata mai ritrovata a proposito di quei giorni – e riportata in Ian Campbell, Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana -, scrive che «le fiamme illuminavano la notte africana», e poi:
«Per la prima volta nella mia vita temo che qualcuno possa dire che sto mentendo. È per questo che desidero far ricorso alle testimonianze per provare ciò che ho detto, che è certamente davvero incredibile. Vorrei che molte persone potessero guardare quella fotografia che una Camicia nera si è fatta scattare da un suo camerata. È una perfetta rappresentazione della civiltà italiana: una Camicia nera con un pugnale in mano, circondata da una famiglia di abissini morti, padre, madre e tre bambini. Un’altra Camicia nera ritenne necessario trasmettere la sua immagine ai posteri mentre teneva in mano la testa mozzata di un abissino».
Lo storico britannico Ian Campbell, al termine di una ricerca durata decenni, ha stimato che le vittime delle sparatorie e dei roghi, nel massacro che coinvolge la città di Addis Abeba e i dintorni, sono circa 19.000, e cioè che la “caccia” uccide un abitante etiope su cinque della città. E la cifra lievita se si calcolano – oltre ai ribelli – gli indovini, i cantastorie, gli stregoni e gli eremiti che vengono successivamente massacrati a loro volta, perché osano preconizzare la fine della dominazione italiana in Etiopia raccontando, tra le altre cose, l’epica vittoria di Adua, quarant’anni prima. Il solo corpo dei carabinieri, tra febbraio e maggio 1937, passa per le armi 2.509 persone, come scrive in una relazione un suo colonnello. E proprio a maggio è il turno del monastero di Debre Libanos: i monaci cristiano copti accusati (senza prove consistenti) di collaborare con la resistenza etiope vengono portati in una piana che dà su un burrone, dove la comunità religiosa viene annientata: i morti sono 452 secondo i documenti italiani, circa 2.000 se ci si affida alle stime degli storici. Lo stesso Graziani, rivendicando lo sterminio, scrive di aver fatto «tremare le viscere di tutto il clero», e che i religiosi da quel momento capirono «la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti».
Ma la resistenza, con le armi e in varie altre forme, sarebbe continuata. E con essa il tentativo di impedire i contatti, inevitabili, tra colonizzatori e colonizzati. Le stragi vengono seguite dalla promulgazione delle prime leggi razziste: il primo decreto, firmato dal re Vittorio Emanuele III (diventato anche “imperatore d’Etiopia”) il 19 aprile 1937, vieta i matrimoni tra cittadini italiani e sudditi delle colonie (Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi), e i decreti successivi delineano una rigidissima separazione “razziale”: si innalza «la barriera del colore», come rileva lo storico Nicola Labanca. Dunque sono vietate le unioni legali tra italiani e abitanti del luogo, ma questo non significa che gli italiani non abbiamo rapporti sessuali, spesso non consenzienti, con le donne etiopi, considerate alla stregua di oggetti di proprietà dell’Impero. Anzi, una delle ragioni per cui si partiva era propria la speranza di “conquistare” (con la forza, se necessario) qualche “faccetta nera”, “bella abissina” (come recita una canzone estremamente popolare dell’epoca). Quella coloniale era un’“avventura” prevalentemente maschile, perché maschi erano i protagonisti del fascismo, della guerra, dell’annientamento del nemico, nessuno escluso – uomini, bambini e donne.
Ed è verso queste ultime che la conquista si incarna in violenza sessuale e umiliazione: è verso le donne che si perpetra il maggiore e più ambiguo disprezzo. Madri, mogli e figlie vengono brutalizzate, predate, usate come oggetti da soldati fascisti ubriachi di propaganda. Il disegno complessivo del fascismo ha al centro un suo progetto di “uomo nuovo” che prevede la sottomissione delle donne e l’incentivo delle famiglie (tradizionali) numerose. Il fascismo sta educando un’Italia prolifica pronta a schiacciare chi non è ritenuto parte della comunità. […]
Carlo Greppi, I massacri del 1937: Addis Abeba e Debre Libanos, Doppio zero, 17 febbraio 2021 (L’articolo è stato pubblicato per la prima volta su lastoriatutta.org – 21 febbraio 2020)

Altra manifestazione sociale e culturale che segnava una differenza tra italiani ed africani era la rappresentazione legata ai vari culti presenti nell’impero: i riti legati alle due grandi religioni presenti in Etiopia e nel Corno, quella copta e quella musulmana – visto che nei filmati esaminati non si fa riferimento ad altre confessioni – sono oggetto di diversi filmati in cui emerge una narrazione che tende ancora una volta a connotare queste celebrazioni come figlie di culture arretrate rispetto all’afflato religioso che orienta le azioni italiane. Ad esempio nelle immagini della festa del Maskal – o festa del ritrovamento della Santa Croce – del 1935 le inquadrature indugiano sugli abiti sfarzosi dei notabili, su danze e canti religiosi; nel filmato realizzato un anno dopo sempre in occasione della festa del ritrovamento della Croce viene mostrato invece un rito più solenne e rigoroso nel quale la presenza delle autorità italiane conferisce ordine alla celebrazione e domina sull’elemento esotico. <264 La presenza degli italiani garantirebbe sia ai copti che ai musulmani la libertà di culto, ma questa garanzia nei filmati emerge non tanto nel momento in cui la libertà viene mostrata, bensì nella costruzione della riconoscenza che il clero ed i fedeli copti e musulmani tributerebbero ai nuovi dominatori. <265 Il fascismo, col beneplacito della stragrande maggioranza del clero italiano, con la guerra all’Etiopia aveva combattuto un popolo fortemente cristiano; i crimini commessi nei confronti del clero e dei credenti etiopici furono mascherati abilmente, <266 e come già sottolineato le rappresentazioni visuali della religione copta tendevano alla sua degradazione ad un cristianesimo esotico, tribale, inferiore rispetto al cattolicesimo nato sulle radici dell’impero romano. <267 Inoltre anche il clero copto è mostrato felice di essere parte integrante e subalterna dell’impero italiano: in un filmato del luglio 1936 la celebrazione della festa di san Michele è presieduta dall’Abuna Cirillo che avrebbe ringraziato gli italiani per aver portato pace e benessere. La sua gioia è anche quella del popolo che manifesta grande giubilo attraverso le immagini usuali delle danze tribali. <268 Se la rappresentazione arcaica ed esotica descrive il cristianesimo copto, le immagini della della riconoscenza nei confronti del fascismo dominano i filmati sulle comunità musulmane, rientrando nella più ampia cornice della “politica islamica” del fascismo; <269 per questo nei cinegiornali viene rimarcata la protezione che gli italiani garantirebbero a questa confessione descritta come oppressa dall’ex potere centrale etiopico. <270 I vari panorami subiscono un progressivo inserimento nella rappresentazione italianizzata che “avvicina” il carattere esotico rendendolo funzionale alla definizione dell’identità fascista e della società coloniale italiana. L’esotico ha caratteristiche “nostrane” anche prima dell’azione bonificatrice italiana, ad esempio in un filmato il panorama della regione di Uondo viene descritto come simile a quello dell’Appennino umbro-marchigiano; in un altro si evoca la lavorazione dei cestini a Gimma che «per forma e tradizione ricordano stranamente quelli della produzione sarda». <271 Questo modo di italianizzare un territorio e gli spazi sociali, unitamente all’esaltazione delle risorse che sarebbero presenti in Etiopia, doveva rendere appetibile il progetto di colonizzazione demografica, limitando il mistero ed il rischio che l’Africa poteva incutere nei coloni.
[NOTE]
264 Giornale Luce B0765, 16 ottobre 1935, “La festa del Maskal alla fine della stagione delle piogge”, Giornale Luce B0976, 21 ottobre 1936, “La celebrazione della festa del Maskal” e Giornale Luce B0977, 21 ottobre 1936, “Ultimo giorno delle feste del Maskal”.
265 Giornale Luce B1215, 8 dicembre 1937, “Un ricevimento offerto dalla comunità musulmana in onore del Governatore Ammiraglio De Feo”; Giornale Luce B1265, 9 marzo 1938, “Capi e notabili musulmani ricevuti dal viceré d’Etiopia”.
266 Si pensi alla strage di monaci nel santuario di Debre Libanos scaturita dopo il tentato omicidio al vicerè Graziani nel febbraio 1937.
267 Giornale Luce B1120, 30 giugno 1937, “Festeggiamenti per la Pasqua copta”; sui rapporti tra cattolicesimo, colonialismo e religione copta Cfr. A. Giovagnoli, Il Vaticano di fronte al colonialismo fascista, in (a cura di) A. Del Boca, Le guerre coloniali del fascismo, op. cit., p. 122; L. Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, op. cit., p. 127.
268 Giornale Luce B0915, 8 luglio 1936, “Grande rito religioso di rito copto”; Giornale Luce B1230, 5 gennaio 1938, “Manifestazioni di entusiasmo per il nuovo vescovo copto e per il nuovo vicerè d’Etiopia”.
269 Cfr. R. De Felice, Il fascismo e l’oriente, Il mulino, Bologna 1988. Come notato da Hussein Ahmed, le politiche pro-musulmane del fascismo durante l’AOI intendevano sfruttare l’antagonismo tra musulmani e cristiani proprio per sconfiggere gli ultimi. Da parte loro i musulmani avrebbero visto nel fascismo l’occasione che avrebbe potuto far terminare l’oppressione esercitata dall’élite cristiana. Nonostante le politiche pro-musulmane non si deve dimenticare l’importante ruolo svolto dalla resistenza musulmana anti-coloniale, ruolo spesso trascurato: questi movimenti d’opposizione presero vigore soprattutto dopo che ci si rese conto che le politiche amministrative e razziali dei coloni italiani non facevano alcuna distinzione tra cristiani e musulmani, cfr. H. Ahmed, Italian colonial policy towards Islam in Ethiopia and the responses of Ethiopian muslims (1936-1941); in (a cura di) B. Carcangiu, T. Negash, L’Africa orientale italiana nel dibattito storico contemporaneo, Carocci, Roma 2007, p. 101.
270 Giornale Luce B1036, 3 febbraio 1937, “Celebrazione della fine del Ramadan alla presenza del governatore dell’Harraf Nasi”; Giornale Luce B1265, 9 marzo 1938, “Capi e notabili musulmani ricevuti dal viceré d’Etiopia”.
271 Giornale Luce B1064, 24 marzo 1937, “Le terre dei Galla e Sidama”; Cronache dell’Impero CI004, 1937, “Galla e Sidamo – Gimma”.
Gianmarco Mancosu, La ‘Luce’ per l’Impero. I cinegiornali sull’Africa Orientale Italiana 1935-1942, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Cagliari, Anno accademico 2013/2014

[n.d.r.: Victoria Witkowski, cui si è debitori anche della copia del telegramma di Graziani di cui alla premessa di questo articolo, nella sua tesi “Remembering Fascism and Empire: The Public Representation and Myth of Rodolfo Graziani in 20th-Century Italy” – 2021, Firenze, European University Institute, ha raccolto un vero e proprio florilegio di frasi fatte retoriche d’epoca, dedicate sempre a Graziani: se ne riproducono tre qui di seguito ]

O Generale Graziani,
Vincitor di Neghelli,
Onor degli Italiani,
Il terror dei ribelli.
O Gloria al condottiere
Del continente nero.
Forte maschia figura,
Coronata di glorie
L’Italia a te sicura
Affido la vittoria.
Son di te tanto fieri
Gli inviti legionari
Soldati leggendari.
G. Gignolo, ACS, F. RG, B.75, (20 Settembre 1937)

Fronte speziosa, levigata,
indóve leggi tutti i pensieri,
occhi gufagni, fieri, labbra sottili, faccia di parata.
Capelli al vento, quasi neri,
mento orgoglioso,
fianca la visata,
l’orecchio proprio modellato.
Alto, robusto, ben proporzionato,
impronta dura,
denti forti, sani,
Severo, generoso, affezionato.
Combattente, campagni d’arme
Di tempo passato,
ecco questo bel soldato.
L. Sansone, ACS, F. RG, B.73 (7 Dicembre 1935)

Lei è passato nella mia vita come un sogno, un sogno, a cui penso con dolce nostalgia. Quando la vedo (nei periodici) ho trovato che mi guarda con tanta severità che la mia mano trema e ho lacrime nei miei occhi.
C. Borghese, ACS, F. RG, B.75 (12 Febbraio 1936)

[…] Se per la sua attività al servizio della Repubblica Sociale Italiana, Graziani era stato quantomeno sottoposto a processo e condannato dal Tribunale militare di Roma, pur scontando alla fine una pena pressoché irrisoria, per quanto riguarda i crimini di guerra che aveva commesso in Libia e in Etiopia, invece, non vi fu, da parte della giustizia italiana, alcuna condanna e nemmeno un tentativo di far luce sulla vicenda. Per quali motivi?
Rispetto alla questione dei criminali di guerra italiani, l’articolo 29 del Long Armistice, firmato a Malta il 29 settembre del 1943, aveva stabilito che:
Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovano sugli elenchi che verranno comunicati dalle Forze Alleate e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando Militare Alleato o dal Governo Italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati agli Alleati. Tutti gli ordini impartiti dalle Forze Alleate a questo riguardo verranno osservati <3.
In generale, però, nonostante questa disposizione, al termine della Seconda guerra mondiale, nel momento in cui le vittime si aspettavano che venisse fatta finalmente giustizia, un velo di impunità calò sull’operato di quasi tutti gli italiani che si erano resi responsabili di atrocità in Africa e nei Balcani.
La questione della punizione dei crimini di guerra italiani in Etiopia è molto complessa e seguì per certi versi logiche e percorsi differenti rispetto a quanto avvenuto per i criminali di guerra che avevano commesso efferatezze analoghe nei Balcani contro i partigiani jugoslavi o su suolo italiano contro prigionieri di guerra anglo-americani <4.
Va innanzitutto precisato che il concetto di “crimine di guerra” fu introdotto solo nel 1943, grazie ai lavori della Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra (United Nations War Crimes Commission, UNWCC <5), un organismo di carattere internazionale, creato allo scopo di ricevere le liste dei presunti criminali di guerra dai parte dei paesi vittime, per analizzarle e disporre, laddove necessario, le estradizioni.
Il concetto è quindi posteriore, in senso cronologico, alla guerra d’Etiopia, sebbene la sua applicazione al caso possa essere ritenuta corretta in quanto nel 1947 l’Etiopia fu autorizzata a redigere una propria lista di criminali di guerra italiani e la UNWCC riconobbe effettivamente questi ultimi come tali (stessa cosa era accaduta, tempo prima, con i giapponesi che erano stati accusati dalla Cina per crimini di guerra commessi durante l’invasione della Manciuria, nel 1931-’32).
Tuttavia, come vedremo, l’elaborazione della categoria nel contesto della Seconda guerra mondiale influenzò inizialmente in maniera notevole l’orientamento della Commissione rispetto alle richieste di estradizione dei criminali di guerra italiani avanzate a più riprese dall’Etiopia.
Altro aspetto importante da tenere presente nello studio della vicenda è la mancanza di un qualsiasi contatto di tipo diplomatico tra Italia ed Etiopia, il che rese di fatto impossibile un confronto diretto tra i due paesi <6.
Infine, non si può assolutamente trascurare il ruolo esercitato dagli Alleati, in particolare dalla Gran Bretagna, nella gestione della vicenda. Comprendere le ragioni che presiedettero alle scelte del governo britannico rispetto alla questione dei criminali di guerra italiani è fondamentale per capire l’evolversi dei fatti.
Richard Pankhurst, in un importante saggio del 1999, ha ricostruito l’evoluzione del dibattito internazionale sui crimini di guerra in Etiopia, dal 1936 al ’49, nel tentativo di capire perché gli sforzi fatti dal governo imperiale etiopico di processare i criminali di guerra italiani fallirono <7.
Pankhurst ha osservato che la questione dei crimini di guerra fascisti fu sollevata dal governo etiopico in circostanze e tempi molto diversi. Dapprima, venne posta all’attenzione della Società delle Nazioni (SdN), mentre si stavano perpetrando i crimini, poi, a quella della Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra, circa mezzo decennio dopo. In nessuna delle due occasioni, però, l’iniziativa etiopica ebbe successo. Per quali motivi?
La Società delle Nazioni, sebbene avesse applicato sanzioni economiche all’Italia per l’aggressione all’Etiopia, tuttavia non fece nulla di concreto per frenare l’invasione, principalmente perché Gran Bretagna e Francia, i due membri principali dell’organizzazione, intendevano evitare che l’Italia si avvicinasse alla Germania e, quindi, preferirono assecondare di fatto il progetto espansionistico di Mussolini, piuttosto che condannare le atrocità che le forze italiane stavano commettendo.
La Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra, invece, benché creata proprio allo scopo di processare i criminali di guerra e interpretare i nuovi indirizzi internazionali, tuttavia non dimostrò maggiore interesse della Società delle Nazioni a condannare i crimini di guerra perpetrati in Etiopia, sostanzialmente perché la Gran Bretagna, che aveva un interesse limitato nei confronti dei crimini commessi verso cittadini non-europei, aveva riconosciuto nel 1938 la conquista dell’Etiopia da parte di Mussolini e non voleva riconsiderare le modalità con cui questo obiettivo era stato raggiunto.
Inoltre, gli inglesi erano contrari a far processare Badoglio, ritenuto dal governo imperiale etiopico il più importante criminale di guerra italiano. Infatti, sebbene fosse ampiamente noto ai britannici l’impiego da parte sua dei gas tossici in Etiopia, tuttavia, dopo l’8 settembre, il maresciallo iniziò ad essere considerato dagli anglo-americani come un personaggio politico chiave, da sfruttare nella complessa e incerta situazione italiana:
L’opinione degli Alleati subì un importante cambiamento nell’estate del 1943 […] Gli americani e gli inglesi cominciarono a pensare che il maresciallo Badoglio fosse un uomo con cui avrebbero potuto collaborare. Sebbene egli avesse fatto uso di gas in Etiopia, tuttavia essi non lo consideravano un criminale di guerra, ma una forza per la stabilità europea <8.
L’argomentazione principale contro l’estradizione dei criminali di guerra italiani fu formulata dal dipartimento degli esteri britannico, il Foreign Office, e consistette nel sostenere che la guerra italo-etiopica del 1935-’36, benché fosse stata accompagnata da numerose atrocità fasciste, non avesse avuto alcuna relazione con la guerra europea, cominciata nel settembre del ’39, e per la quale la Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra era stata creata.
Alcuni parlamentari inglesi, ad esempio il laburista Emanuel Shinwell <9, sollevarono delle obiezioni in proposito, osservando che, dato l’impiego dei gas tossici da parte degli italiani contro gli abissini, evidentemente sarebbe stato un atto di giustizia consegnare i criminali di guerra italiani all’Etiopia <10.
Alla fine, però, sotto le pressioni del governo, la commissione accettò di circoscrivere i propri lavori agli anni della Seconda guerra mondiale, escludendo dalle indagini i crimini di guerra che erano stati commessi precedentemente in Etiopia.
La questione continuò comunque ad agitare le acque: infatti, nel mese di aprile del 1945 il New Times and Ethiopia News a Londra pubblicò un importante pamphlet dal titolo Italy’s War Crimes in Ethiopia, il quale conteneva estratti dei resoconti dei massacri di Graziani e alcune fotografie delle esecuzioni, scattate dai fascisti stessi e rinvenute dopo la liberazione da parte britannica del paese. Il documento ebbe un’ampia diffusione, tanto da essere poco tempo dopo ristampato.
Al termine del conflitto, la questione divenne fortemente dibattuta. Il 20 giugno il Foreign Office redasse una “Biografia di Graziani”, in cui si osservava che il massacro di Addis Abeba era associato al suo nome: si leggeva, per esempio, che «parecchie migliaia di abissini, uomini, donne e bambini furono massacrati» e che «camicie nere, armate con fucili, pistole, bombe e lanciafiamme si scagliarono sulla popolazione locale e un tremendo massacro fu portato avanti per tre giorni <11».
Il 3 ottobre dello stesso anno il governo etiopico annunciò la decisione di aderire al Patto di Londra (London Agreement) per il procedimento e la punizione dei maggiori criminali di guerra dell’Asse e il 20 maggio dell’anno seguente fu nominata per ordine del governo imperiale una commissione etiope per i crimini di guerra.
Successivamente, durante le negoziazioni per il trattato di pace con l’Italia <12, il governo etiopico riuscì a far incorporare nel testo finale l’importante principio in base al quale la Seconda guerra mondiale, per l’Etiopia, era cominciata il 3 ottobre del 1935. L’articolo 38 stabiliva infatti che:
La data, a decorrere dalla quale le disposizioni del presente Trattato diverranno applicabili, per quanto riguarda le misure e gli atti di qualsiasi natura che comportino responsabilità per l’Italia o per i cittadini italiani nei riguardi dell’Etiopia, s’intenderà fissata al 3 ottobre 1935. <13.
Tale articolo si applicava alla questione dei crimini di guerra, regolata dall’articolo 45, in base al quale l’Italia avrebbe preso «tutte le sue misure necessarie per assicurare l’arresto e la consegna al fine di un successivo giudizio» delle persone «accusate di aver commesso, ordinato o favorito crimini di guerra e crimini contro la pace o l’umanità» e «dei sudditi delle potenze alleate od associate, accusati di aver violato le leggi del proprio paese, per aver commesso atti di tradimento o di collaborazione con il nemico durante la guerra» (paragrafo 1); avrebbe analogamente, «su richiesta dei governi delle Nazioni Unite coinvolti», resi «disponibili come testimoni» le persone la cui testimonianza si rendeva «necessaria per il processo delle persone di cui al paragrafo 1 di questo articolo» (paragrafo 2); infine, «qualsiasi disaccordo concernente l’applicazione dei paragrafi 1 e 2 di tale articolo» sarebbe stato riportato «da qualunque dei governi coinvolti agli ambasciatori a Roma dell’Unione Sovietica, del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e della Francia», i quali avrebbero raggiunto «un accordo per superare il problema» (paragrafo 3) <14.
La posizione dell’Etiopia sembrò ulteriormente rafforzata dall’articolo 56, il quale dispose che gli ambasciatori delle quattro grandi potenze a Roma, «agendo di concerto», avrebbero «rappresentato gli Alleati e le potenze associate in tutte le questioni concernenti l’esecuzione e l’interpretazione del presente trattato <15».
La Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra, però, fu molto lenta nel recepire questi principi: solo il 29 ottobre del ’47, a oltre sette mesi di distanza dalla firma del Trattato di Pace, essa accettò di considerare i crimini di guerra commessi in Etiopia a partire dal 3 ottobre del 1935.
Il governo imperiale etiopico, d’altra parte, si trovò di fronte a una serie di difficoltà nella preparazione delle liste dei criminali di guerra: 1) lo scarso tempo a disposizione (la Commissione, infatti, avrebbe chiuso i battenti il 31 marzo del 1948); 2) la pressoché quasi impossibilità di reperire prove dal valore legale, dal momento che la maggior parte dei crimini di guerra italiani erano stati commessi quando il governo etiopico stava collassando o dopo che era già caduto; 3) la mancanza di personale qualificato nelle ricerche, visto che lo stato etiopico era stato restaurato solo nel 1941.
Nonostante questi limiti, il governo imperiale riuscì in poche settimane a redigere una lista dettagliata di accuse contro cinquanta sospetti criminali di guerra, tra i quali venne individuata una rosa di dieci nomi da inviare alla Commissione, al fine di ottenerne l’estradizione. Significativamente, il nome di Graziani figurava al secondo posto, subito dopo quello di Badoglio:
Pietro Badoglio, comandante supremo delle forze italiane in Africa Orientale;
Rodolfo Graziani, comandante delle forze italiane in Somalia, governatore generale dell’Africa Orientale Italiana, vicerè d’Etiopia;
Alessandro Lessona, segretario di Stato italiano per le colonie;
Guido Cortese, segretario federale del Partito Nazionale Fascista ad Addis Abeba;
Guglielmo Nasi, governatore italiano dell’Harar;
Alessandro Pirzio Biroli, governatore italiano dell’Amara;
Carlo Geloso, governatore italiano di Galla e Sidama;
Sebastiano Gallina, generale;
Ruggero Tracchia, generale;
Enrico Cerulli, capo dell’ufficio politico per l’Africa Orientale presso il Ministero italiano degli Affari Esteri, Direttore generale degli affari politici, vice-governatore generale dell’Africa Orientale Italiana.
Una volta ricevuta la lista, la Commissione aprì nella sua ultima seduta del 4 marzo i lavori, confermando definitivamente che, di quei dieci, otto erano da considerarsi criminali di guerra e due testimoni.
Badoglio fu ritenuto colpevole «per l’utilizzo di gas tossici e per il bombardamento degli ospedali e delle ambulanze della Croce Rossa <16».
Quanto a Graziani, il Barone Erik Leijonhufvud, rappresentante dell’Etiopia nella Commissione, dichiarò, che «uno studio minuzioso» del suo caso poteva certamente fornire «una spiegazione dell’intera politica italiana di sistematico terrorismo». In supporto a questa tesi addusse come prove la frase, prunciata dallo stesso Graziani, di «voler condannare a morte tutti gli Amhara», e il telegramma indirizzato al generale Nasi, in cui aveva scritto: «ricordati anche che io ho aspirato alla totale distruzione dei capi e dei notabili abissini e che questo dovrebbe essere realizzato compiutamente anche nei territori sotto il tuo controllo <17».
In base alla documentazione presentata, Graziani venne accusato di: omicidio di massa; saccheggio, a causa della devastazione sistematica di Addis Abeba, nel febbraio del 1937, e successivamente del monastero di Debrà Libanòs; bombardamento deliberato delle unità della Croce Rossa.
L’estradizione dei due personaggi, ritenuti i più grandi criminali di guerra italiani, tuttavia, fu ostacolata nuovamente per il fatto che l’Etiopia e l’Italia non avevano ancora ristabilito le relazioni diplomatiche e anche per il fatto che il governo britannico non intendeva agire da intermediario nella questione, temendo un danneggiamento dei rapporti con l’Italia. Come osservò un funzionario del Foreign Office, Francis Brown
[…] abbiamo deciso che la questione debba essere sistemata direttamente tra il governo etiopico e quello italiano […]
Riconosco che in passato abbiamo agito, su questioni minori, da intermediari tra i due governi. Nella circostanza presente, tuttavia, penso che sarebbe estremamente poco saggio comportarci da intermediari, dal momento che gli italiani penserebbero inevitabilmente che stiamo supportando le richieste dell’Etiopia, e questo sopraggiungerebbe in un momento particolarmente sfavorevole, quando la questione dell’Eritrea sta ancora facendo discutere Inghilterra e Italia <18.
Venuta meno qualsiasi possibilità di intermediazione da parte della Gran Bretagna, il governo etiopico cercò un approccio diretto col governo italiano, cercando di superare l’impasse rappresentato dalla mancanza di relazioni diplomatiche trasmettendo, per mezzo dell’ambasciatore etiope a Londra, un memorandum all’ambasciatore italiano, che, tuttavia, rifiutò di prendere visione del documento.
I tentativi etiopici di ottenere giustizia continuarono fino al 1949 ma, date le ostilità del governo italiano e inglese, oltre alla pressione del Foreign Office – il cui supporto il governo etiopico riteneva vitale per la rivendicazione dell’Eritrea <19 – alla fine furono abbandonati.
Secondo Pankhurst il fallimento delle richieste avanzate dall’Etiopia non fu dovuto alla debolezza della accuse presentate, ma alla tenace opposizione italiana e ai pregiudizi degli alleati dell’Etiopia:
L’Italia del dopoguerra non voleva far fronte al fatto che i suoi soldati avevano commesso crimini di guerra in Etiopia […]
I leader europei della comunità internazionale del secondo dopoguerra, per parte loro, erano parimenti impreparati a vedere gli alleati europei puniti per crimini commessi contro non europei quasi mezzo decennio prima e preferirono un errore giudiziario <20.
[NOTE]
Per le note vedere a questo collegamento l’articolo originale nella sua interezza
Laura Bordoni, Graziani e l’impunità, Viqueria.com, 8 ottobre 2015