Le agitazioni operaie furono uno degli aspetti preminenti della resistenza torinese

L’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre precedette di poco l’arrivo in città [Torino] di una modesta avanguardia tedesca, che prese possesso dei punti chiave urbani e ricevette la resa incruenta dell’apparato militare.
Da qui fino all’inizio primavera del ’44 la realtà resistenziale torinese fu contraddistinta dall’azione incalzante e spettacolare dei Gruppi d’azione patriottica (Gap) comunisti, comandati dapprima da Ateo Garemi e poi da Giovanni Pesce, detto “comandante Visone”, a cui succedette Walter Nerozzi. I Gap ripetevano un’esperienza mutuata dalla Resistenza francese e “importata” dai militanti comunisti italiani che vi avevano partecipato: essi attuarono una serie di sabotaggi e di attentati che costrinsero il nemico a sentirsi assediato e a barricarsi nelle proprie sedi. Essi però dovettero anche subire una dura repressione che li portarono a sostenere ingenti perdite e nella primavera del ’44 si ritrovarono praticamente in crisi e costretti a ridurre drasticamente le proprie incursioni.
Le agitazioni operaie furono uno degli aspetti preminenti della resistenza torinese. Le officine della Fiat rimanevano l’epicentro delle contestazioni di massa, ed è proprio qui che nel novembre-dicembre ’44 presero corpo imponenti scioperi che si estesero alle altre maggiori fabbriche cittadine e della provincia, anche se con meno successo. Questi furono a carattere fortemente autonomo e spontaneo: il legame con il Pci, seppur persistente, era piuttosto labile e il Cln era attraversato da numerose contraddizioni rispetto ai problemi delle rivendicazioni operaie.
In realtà, la situazione del movimento dei lavoratori e delle sue agitazioni si svolgeva tra complesse manovre in cui fascisti, tedeschi e industriali perseguivano ciascuno obiettivi propri, e l’attivismo comunista spingeva a posizioni di scontro frontale e di endemica rivolta tese a forzare una massa operaia stretta dalle immediate esigenze di ottenere miglioramenti salariali, ottenere soccorsi in viveri e generi di prima necessità. Questo “estremismo” della Federazione del Pci torinese verrà condannato dalla direzione del partito. Ne derivano incertezze e pause di riflessione nella massa dei lavoratori dinanzi alle parole d’ordine di sollecitazione a incessanti azioni di lotta; né la conduzione dell’azione sindacale da parte dei dirigenti comunisti pareva adeguata alle difficoltà obiettive in cui essi si dibattevano quando il nemico offriva piattaforme di trattativa salariale e avanzava promesse di rifornimenti di beni indispensabili.
Da qui l’andamento non lineare delle agitazioni, che dal novembre al dicembre ’43 e poi nel gennaio ’44 si produssero nelle fabbriche, segnando in pratica sconfitte delle rivendicazioni operaie e disorientamenti nel movimento. Tuttavia, il permanente atteggiamento di ostilità della massa lavoratrice, il ripetersi delle agitazioni, l’evidente incapacità del sindacato fascista di accreditarsi come interlocutore credibile e i limiti che puntualmente rivelavano le concessioni dei tedeschi, accompagnate da minacce e repressioni sempre più violente, facevano salire la temperatura della protesta e indicavano un radicalizzarsi della situazione.
Le agitazioni scattarono in febbraio, e culminarono nel marzo ’44, con il concomitante appoggio di forze partigiane esterne che prolungavano dalle basi di montagna le loro azioni fino alla periferia della città. Se i risultati sindacali della lotta non potevano dirsi soddisfacenti, l’esito politico della manifestazione di forza del movimento dei lavoratori fu senza dubbio più che significativo: il nemico toccava così con mano l’isolamento nel quale si trovava e anche la sua relativa impotenza, malgrado la durezza delle repressioni, di fronte a masse popolari che non si piegavano.
L’occupazione alleata di Roma nel giugno ’44 aprì nuove prospettive all’azione della Resistenza intensificando la guerriglia partigiana ma contemporaneamente affacciando il rischio che i tedeschi, in vista di una ritirata generale verso i confini, decidessero di trasferire in Germania il più possibile gli impianti industriali e intensificassero le deportazioni di manodopera.
Il 12 giugno iniziò la mobilitazione a Mirafiori. Il 21, il commissario prefettizio decretava la serrata a tempo indeterminato degli stabilimenti di Mirafiori, con il risultato di estendere le agitazioni anche ad altri stabilimenti, unendo rivendicazioni salariali e lotta contro i trasferimenti degli impianti.
Dal 17 al 27 luglio le industrie torinesi erano in gran parte bloccate; il 22 gli aerei alleati colpivano con estrema precisione l’officina 17, sgombra di maestranze per la serrata, tanto da far pensare che la stessa direzione della Fiat avesse sollecitato l’incursione. Tedeschi e industriali capirono di essere in netta difficoltà: furono accantonati sia i piani di smantellamento generale dell’apparato industriale del paese, sia il progetto di deportazione degli operai.
L’agitazione aveva quindi conseguito un risultato di fondo; e, del resto, nelle fabbriche si lavorava ormai a smontare e a nascondere pezzi dei macchinari più importanti, e si preparavano i nuclei della Squadre di azione patriottica (Sap) destinati a difendere gli stabilimenti nella fase insurrezionale. Il movimento, infatti, si poneva ora in un’ottica di preparazione dello scontro conclusivo.
A partire dal febbraio ’45 furono accelerati tutti i preparativi in vista della scadenza finale della lotta. Si insediò il Cln cittadino, destinato a diventare Giunta popolare della liberazione, composto da esponenti delle diverse forze presenti nel fronte antifascista.
Il 10 febbraio, raggiunta l’intesa unitaria sulle modalità per la liberazione di Torino, fu emanato dal Comando militare regionale piemontese (Cmrp) il piano di movimento delle forze partigiane foranee destinate a convergere sul capoluogo.
Il 20 aprile il Cmrp avvertì i comandi partigiani che stavano per iniziare le operazioni conclusive scandite in tre fasi, di cui la seconda, liberate le varie zone, contemplava la liberazione di Torino, e la terza l’aiuto da fornire alle operazioni alleate. Il 18 aprile, lo sciopero proclamato come prova generale dell’insurrezione da attuare aveva paralizzato la città e dato il segnale del completo isolamento della autorità della Rsi, le cui strutture erano di fatto in piena dissoluzione. I fascisti avevano reagito con rabbia, con una dura repressione nei confronti dei civili.
Accanto al comando regionale del Cln si insediava il comando piazza di Torino, preposto ai cinque settori militari in cui era stata suddivisa la città e del quale assumeva il comando un esponente delle formazioni Garibaldi, Italo Nicoletto detto “Andreis”. In questo frangente si dispiegò anche la manovra, intessuta dal comandante della missione alleata, tenente colonnello John Stevens, paracadutato in Piemonte nell’inverno, con lo scopo evidente di bloccare i movimenti verso Torino delle unità foranee, di isolare le forze cittadine e quindi far fallire l’insurrezione, in attesa che le avanguardie alleate precedessero nel capoluogo la marcia partigiana. Un falso ordine di sospendere il movimento verso la città raggiunse le forze della VII Zona dopo che il Cmrp aveva emanato, la sera del 24 aprile, quello di eseguire il Piano insurrezionale. I comandi partigiani, dopo breve esitazione, subodorando l’inganno non ne
tennero conto e l’avvicinamento alla città fu ripreso. Ma, nel frattempo, le forze cittadine avevano iniziato l’insurrezione, le Sap presero possesso delle fabbriche da difendere e i combattimenti si svilupparono nella cerchia urbana.
Le truppe tedesche furono costrette al ritiro e sfilarono ai bordi di Torino.
Quando, il primo maggio, una esigua avanguardia alleata si affacciò alla città, Torino era libera: funzionavano i principali servizi pubblici così come gli impianti e gli stabilimenti produttivi erano stati salvati. In prefettura si era insediato il socialista Piero Passoni, in questura l’azionista Giorgio Agosti, a Palazzo civico il sindaco della città, il comunista Giovanni Roveda.
Valentine Braconcini, La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007-2008