Genova operaia nel 1944

[…] Per capire l’importanza degli avvenimenti di cui stiamo trattando, occorre riferirsi alla realtà produttiva e sociale della città [Genova] quale si presentò ai tedeschi all’indomani dell’8 settembre. Nelle mani degli occupanti cadde allora un apparato produttivo di prima grandezza, anche se segnato da contraddizioni, ritardi e inefficienze, fondamentale per la guerra italiana, finché essa andò avanti bene o male, per quanto concerne gli armamenti (acciaio, navi, cannoni, proiettili e carri armati), e poi ugualmente importante per la prosecuzione della guerra nazista dopo l’armistizio. Ma questa realtà produttiva era anche una realtà sociale eccezionalmente omogenea e compatta, che faceva di Genova un’autentica metropoli operaia. […] Col procedere del conflitto e il profilarsi della disfatta, il tessuto civile tendeva a disgregarsi, sottoposto alle terribili prive della fame, del freddo, dei bombardamenti alleati, alla rarefazione dei trasporti, ai rischi quotidiani. In questo quadro la grande fabbrica e in particolare la grande azienda come l’Ansaldo finì per assumere una centralità via via più marcata: come polo di concentrazione che contrastava con la rarefazione della vita urbana effetto dei bombardamenti e degli sfollamenti; come luogo dove gli operai passavano la maggior parte del loro tempo, anche a causa del dilatarsi degli orari di lavoro e del crescere degli straordinari, mentre l’aumento del pendolarismo ed il rallentamento dei trasporti comprimevano proporzionalmente il tempo domestico; come erogatore di servizi essenziali, che suppliva alle carenze delle autorità pubbliche, ad esempio nel settore dell’alimentazione. In definitiva, come luogo di circolazione di idee e di formazione di volontà collettive. Per questo insieme di fattori, nel momento in cui la società stava subendo processi di frantumazione e prevaleva la ricerca individuale della sopravvivenza, la classe operaia appariva come l’unico soggetto sociale compatto, dotato di un grande senso del proprio ruolo e quindi capace all’occorrenza di esprimere un grande potenziale di iniziativa. Di fronte a questa realtà gli occupanti si posero soprattutto un obiettivo: sfruttare a fondo l’apparato produttivo locale per la loro guerra giunta agli appuntamenti cruciali e contemporaneamente neutralizzare il potenziale di protesta sociale che vi si annidava. […] Tra gli occupanti, e in parte tra le autorità della Repubblica sociale, si fece strada inizialmente la convinzione che Genova fosse il terreno propizio per un esperimento di pacificazione che lasciasse gli ambienti operai al di fuori del conflitto politico e ne neutralizzasse eventuali tentazioni sovversive garantendo livelli accettabili di vita. L’assenza della città dalle agitazioni che avevano toccato Milano e Torino in marzo, la costruzione, durante il periodo badogliano, di una vasta rete di commissioni interne che potevano divenire strumento di mediazione ma anche di ricatto, il clima di paura e di prudenza che aveva tenuto gli operai lontani dalle fabbriche per molti giorni dopo l’8 settembre: tutto questo aveva alimentato l’illusione di una classe operaia più malleabile, più attenta a garantire la salvaguardia di interessi immediati, più ostile ad azioni che la esponessero ai rischi di rappresaglie, potremmo dire più neutrale rispetto allo scontro che si profilava, e che riguardava le sorti della città, del paese, per certi aspetti le sorti stesse dell’Europa in uno dei momenti più drammatici della sua storia. Se così fosse stato, l’intera dislocazione delle forze in campo sarebbe stata diversa. E diversa sarebbe stata la nostra storia. L’illusione andò in frantumi nella seconda metà di novembre del 1943, sotto la spinta di due fattori convergenti: il peggioramento inarrestabile delle condizioni di vita da un lato, la tendenza, venuta alla luce in molti settori della classe lavoratrice, a organizzarsi e a far valere le proprie ragioni sia economiche sia civili senza lasciarsi intimorire dalla presenza minacciosa dell’apparato militare e poliziesco nazifascista. Tutto ciò non era affatto scontato. Prima una serie frammentaria di agitazioni spontanee nelle fabbriche, poi uno sciopero generale dei tranvieri svoltosi il 27 novembre contro l’arresto di alcuni compagni, ruppero l’incantesimo, mettendo la realtà in movimento. Imprevista dalle autorità nazifasciste, l’agitazione colse di sorpresa le stesse forze dell’antifascismo, e persino quella fra loro che per ragioni ideologiche e organizzative avrebbe dovuto possedere più strumenti per cogliere in anticipo e per condizionare le dinamiche della realtà sociale, ossia i comunisti. In fondo, la risposta dei lavoratori nel cuore della città aveva messo in discussione la pace sociale nazifascista e costretto la Repubblica sociale a rivelare il suo ruolo di fiancheggiamento subalterno, ben prima che prendesse forma un movimento partigiano di una qualche consistenza e solidità. Dopo poco più di una settimana, l’agitazione riprese, sfociando in un formidabile movimento di scioperi contro la diminuzione della razione alimentare di olio, che per circa dieci giorni attraversò l’area industriale della città coinvolgendo una massa di molte decine di migliaia di lavoratori. Questa volta gli scioperi provocarono una risposta più dura, con l’arresto e l’esecuzione brutale di due operai, Armando Maffei e Renato Livraghi, fucilati il 18 dicembre. Ma ottennero anche una serie significativa di concessioni di natura salariale e alimentare. Nell’apparato nazifascista sembrò che la situazione fosse ancora recuperabile, e che le concessioni potessero consentire di ripristinare la pace sociale violata. […]
Meno di un mese dopo, un altro movimento di lotta attraversò la città operaia, facendo precipitare la situazione, rendendo la lacerazione irreversibile e alzando il livello dello scontro. La ricca documentazione ormai disponibile ci consente di ricostruire con ampiezza di dettagli anche i retroscena della vicenda. La vastità dell’agitazione (anche in questo caso circa 50.000 operai), gli attentati che l’accompagnarono a opera dei GAP e in particolare di Giacomo Buranello, fecero inferocire i tedeschi e gettarono nello scompiglio le autorità della Repubblica sociale, spingendo entrambi a una reazione durissima. Allo sciopero si rispose con la serrata e con la fucilazione di otto antifascisti che calò un velo di terrore su tutto il movimento. […]
La spietata rappresaglia e la mancanza di qualsiasi esito dal punto di vista rivendicativo fecero sì che lo sciopero fosse vissuto come una sconfitta e quindi seguito da un momento di paralisi che decretò l’assenza di Genova dallo sciopero generale dell’alta Italia nel marzo del 1944. La durezza della repressione aveva ristabilito temporaneamente i rapporti di forza, ma i dati di fondo della situazione non si modificarono. L’illusione di una collaborazione che rendesse la città intera – a partire dal suo cuore operaio – inerte e passiva, era tramontata definitivamente. Che tra la classe operaia e il regime di occupazione, fiancheggiato dai fascisti repubblicani, si fosse aperta ormai una vera e propria guerra guerreggiata, si vedrà bene nell’azione del 16 giugno, quando con una autentica operazione di accerchiamento militare i nazifascisti bloccarono quattro tra le maggiori fabbriche del ponente (S. Giorgio, SIAC, Piaggio e Cantiere Navale Ansaldo), prelevandone e deportandone circa 1500 operai. Fu questo forse il momento più drammatico della resistenza operaia, come le memorie e gli studi hanno sottolineato: quello in cui l’occupazione prese la forma più esplicita di violenza di massa contro i civili, mettendo a nudo in maniera irreversibile il volto del nazifascismo. Sarà la limpidezza e la durezza di questo scontro sociale a connotare in maniera decisiva il movimento di liberazione, nonché a dare un’impronta incancellabile alla storia futura della città, contribuendo a definire la spina dorsale della sua cultura antifascista che rimane anche oggi come una sorta di carattere originario della nostra vita collettiva.
[…] Sarebbe un errore indulgere a una visione oleografica del protagonismo operaio, idealizzarlo come frutto astratto di una scelta di campo, come la conferma scontata di una tradizione antifascista che non avrebbe mai cessato di caratterizzare la classe lavoratrice anche nei momenti di maggior solidità del regime. Certo, la memoria del passato, delle violenze subite nella guerra civile del primo dopoguerra e della prepotenza fascista, ebbe il suo peso. Ma la storia concreta di quei venti mesi mostra che solo non di questo si trattò. La storia della classe operaia genovese, come del resto quella del movimento partigiano, non è una marcia trionfale su binari prefissati. Gli operai genovesi, come quelli di Milano e Torino, furono mossi insieme da interessi materiali di sopravvivenza, dalla difesa della propria dignità, dalla solidarietà con i compagni colpiti, dalla reazione contro le prepotenze subite, in una catena di vicende che nessuno poteva prevedere. Un complesso di motivi diversi fu alla base della loro azione. Non una vocazione e un’integrità originaria, ma una serie di circostanze in parte inattese li portò sul terreno di uno scontro generale e quindi li spinse a giocare un ruolo di primissimo piano sullo senario di una guerra che stava segnando le sorti dell’Europa e di una guerra di liberazione che avrebbe cambiato il volto del paese.
In sede di bilancio storiografico, questo soprattutto si può dire: che essi ebbero il merito di giocare fino in fondo, con coraggio e determinazione, la parte che vicende altamente drammatiche avevano loro assegnato. Lo riconoscevano del resto – con riferimento all’ondata di lotte che investì l’Italia del Nord nell’inverno del 1943-1944 culminando nello sciopero generale di marzo, gli stessi alleati, che ne traevano occasione per rettificare uno stereotipo antiitaliano corrente nell’uno e nell’altro campo: “In fatto di dimostrazione di massa – scriverà il “New York Times” del 9 marzo 1944 – non è mai avvenuto nulla di simile che possa assomigliare alla rivolta degli operai italiani. Lo sciopero è il punto culminante di una campagna di sabotaggi, di scioperi locali e di guerriglia che sono meno conosciuti dei movimenti di resistenza di altri paesi perché l’Italia del Nord è rimasta più di altri tagliata fuori dal resto del mondo. Ma è una prova impressionante che gli italiani disarmati come sono e sottoposti a una doppia schiavitù, sanno combattere con coraggio e con audacia quando hanno una causa per cui combattere”. […]

Antonio Gibelli, La classe lavoratrice genovese nella Resistenza, INSMLI