In Assemblea Costituente l’obiezione di coscienza apparve improvvisamente

Esiste un’altra storia dell’obiezione di coscienza parallela che cominciò e si sviluppò in maniera del tutto autonoma rispetto a quella che attraversò la società civile e solo in alcuni momenti la intersecò: la “storia politica” svoltasi nelle istituzioni dell’Italia repubblicana. L’obiezione di coscienza apparve improvvisamente, nelle sedute plenarie dell’Assemblea Costituente che si svolsero tra il 19 e il 22 maggio del 1947, in occasione del dibattito sul titolo IV della Costituzione, nel quale era contenuto l’articolo 49 (poi 52) che sanciva l’obbligatorietà del servizio militare. Lo spazio che occupò fu molto marginale: si limitò a un emendamento del socialdemocratico Ernesto Caporali <179, presentato davanti a un’aula semivuota che ricevette, il giorno seguente, un’asciutta replica del relatore Merlin e il sostegno del compagno di partito Paolo Rossi <180. Ma a sorprendere, in realtà fu proprio quello spazio esiguo che l’odc comunque trovò all’interno del dibattito in Costituente, quando ancora oltre a non esserci obiettori – a parte lo sconosciuto Castiello – non esisteva nemmeno un’Associazione dei Resistenti alla Guerra che potesse sostenere l’odc. La pressione del mondo pacifista sul punto era limitata alla già citata lettera del Primo convegno sul problema religioso moderno in Italia e a un opuscolo scritto da Giovanni Pioli e pubblicato da «Critica Sociale», la rivista di Greppi e Mondolfo, passata nel gennaio del 1947 al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli). L’ex-sacerdote aveva addotto due motivazioni all’auspicio del un superamento, nella Costituzione, del carattere obbligatorio del servizio militare: una desunta dalla comparazione con la legislazione di altre nazioni «di elevatissimo grado di civiltà», l’altra dall’aspetto diseducativo dell’esercito che privava un Paese «dallo stock dell’elemento più prezioso (…) quello di anime di buona qualità che non si formano col tirocinio del perinde ac cadaver, né strappando ai giovani con la disciplina militare e nell’atmosfera di caserma, il carattere, la personalità, la coscienza»181.
Al di là del coinciso scambio di battute sull’obiezione di coscienza, il dibattito sull’articolo 52 rimane un momento fondamentale per comprendere il retroterra di valori che stava alla base della coscrizione obbligatoria, colto in un preciso frangente storico, quell’intermezzo situato tra la fine della guerra e il pieno avvio degli istitutii repubblicani. La discussione in assemblea si tenne in una fase particolarmente delicata della storia repubblicana, nel pieno delle consultazioni dopo la crisi del terzo governo De Gasperi, apertasi otto giorni prima. Il 21 maggio Nitti avrebbe rimesso nelle mani del presidente De Nicola l’incarico esplorativo affidatogli. Si stava preparando dunque l’esclusione di comunisti e socialisti dal governo, ma pochi potevano ancora prevederlo: nei resoconti dell’assemblea non c’è traccia delle contingenti questioni di governo, né delle nuove tensioni. La situazione politica, non ancora sclerotizzata in una contrapposizione definitiva, permetteva di valutare le questioni militari in quanto tali senza finalizzarle esclusivamente all’immediato futuro, facendone uno dei terreni del conflitto tra partiti e della guerra fredda: il ricordo del fascismo pare per certi versi ancora preponderante rispetto alla «paura dei rossi», i timori del passato contendono la scena a quelli per il futuro imminente.
La scarna dicitura «rumori», «applausi», non è sufficiente a rendere la concitazione di certe discussioni come quella che si tenne attorno all’emendamento presentato dal socialdemocratico Arrigo Cairo (« Il servizio militare non è obbligatorio. La Repubblica, nell’ambito delle convenzioni internazionali, attuerà la neutralità perpetua»). Tuttavia dietro quei rilievi si profila il sommovimento di passioni provenienti che le diverse formazioni culturali e appartenenze politiche, le paure autentiche o strumentalizzate del futuro,l’esperienza dolorosa della guerra suscitavano davanti all’affermazione del «sacro dovere» di difesa la patria. Pur se la dialettica appare più spoglia e le fanfare limitate agli immarcescibili retaggi culturali, segno di un distacco voluto rispetto al recente passato, la leva obbligatoria si configura come un postulato dall’alta valenza simbolica verso la quale sia il fronte democristiano sia quello comunista convergevano. Similmente il silenzio che circondò la proposta di Caporali sull’odc evidenzia l’estraneità che circondava l’obiezione di coscienza nel nuovo Parlamento repubblicano.
Al tempo stesso traspare nell’assemblea un timore recondito per uno strumento, quale l’esercito, di cui erano ben note le connessioni con la passata dittatura. L’ultimo comma dell’articolo 52 (“L’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica Italiana”), con la sua formula pleonastica approvata quasi senza discussione, non esplicitava forse, assieme ad un’esplicita distanza da un passato non democratico, anche una larvata diffidenza? Se non si può certamente parlare di antimilitarismo latente, si avverte il disagio di una democrazia che deve ricostruire con l’esercito una relazione e fatica a trovare un compromesso tra istanze securitarie e desiderio di pace, tra la rimozione dei retaggi della mistica fascista e il bisogno di riaccreditare rapidamente il Paese nel consesso delle nazioni. Nei casi rarissimi in cui avvenne, la contestazione sulle modalità di conduzione dell’esercito tenute in passato da parte dei comandi, si fermò sempre, quasi vigesse un tacito compromesso, di fronte al crollo militare e morale dello Stato Maggiore avvenuto l’8 settembre <182. La rimozione della responsabilità di quella condotta che il governo acutizzò accantonando qualsiasi epurazione dei vertici avrebbe contribuito a mantenere le forze armate impermeabili allo spirito democratico. L’istituzione risparmiata dalla ristrutturazione necessaria, protetta dalla separatezza che il Parlamento le concesse, conservò prerogative, privilegi e regolamenti senza alcuna presa di coscienza rispetto al passato, ma mantenendo il principio di obbedienza il collante di un sistema rigidamente gerarchico.
Vale infine, anche per la discussione fatta sull’articolo 52 e in particolare sullo strumento militare di cui dotare la Repubblica, la riflessione di Eligio Vitale a proposito del dibattito sull’articolo 11: mancava una consapevolezza della svolta epocale rappresentata dalla bomba atomica <183. Gli atti parlamentari esplicitano la difficoltà dell’élite nel valutare l’istituto militare all’interno delle reali necessità difensive dell’Italia, dentro il tipo di guerra che l’arma atomica inaugurava e in un contesto in cui il Paese non aveva più colonie da amministrare. L’esercito a larga intelaiatura sancito dalla Costituente raccoglieva la tradizionale ambizione a u contingente massiccio di truppe proprio dell’Italia unitaria e garantiva il mantenimento di un ampio bacino di ufficiali <184. L’assemblea si limitò a dare a queste motivazioni la propria copertura ideologica, fosse un’affezione alla retorica dello spirito patriottico o il mitologema della «Nazione in armi» che vedeva nella coscrizione obbligatoria una garanzia di democrazia, abdicando a quel ruolo di controllo della politica militare. Tale atteggiamento rinunciatario sarebbe stato una costante sia del Parlamento repubblicano <185, sia dell’azione di governo calamitata da altre priorità come il consolidamento della democrazia, la ricostruzione economica, la spaccatura politica, le lotte sociali, sia dei primi dicasteri della Difesa che, caratterizzati, da una strutturale debolezza lasciarono la politica militare in mano ai capi di Stato Maggiore <186, dai quali furono messe in atto le impegnative scelte di fondo che generarono un «esercito buono per l’ordine pubblico» <187.
[NOTE]
179 Ernesto Caporali, sindacalista e antifascista cremonese fu eletto all’Assemblea nelle file dei socialisti e confluì nello Psli in seguito alla scissione di palazzo Barberini del gennaio 1947.
180 Il sostegno all’obiezione di coscienza venne solo dal nascente Psli che aveva allora contatti, con Pioli, non con l’embrionale realtà capitiniana. Caporali avrebbe avuto i primi scambi epistolari con Capitini soltanto dopo la discussione della questione all’Assemblea Costituente (lettera del 2 giugno 1947, FC, Corrispondenza, b.629).
181 G.Pioli, L’obiezione di coscienza alla coscrizione, Milano, Tip. Pinelli, 1947, estratto da «Critica Sociale», n.1/1946.
182 L’8 settembre venne citato solo da Giacchero che propose il comma «I cittadini ufficiali e sottufficiali dell’esercito in servizio permanente non possono essere iscritti a partiti politici né svolgere attività politica» ritenendo che questo motivo fosse alla base di «quello sgretolamento morale dell’esercito, che si iniziò con le circolari del 1933 ai generali e colonnelli per l’iscrizione al partito fascista e finì con l’infausto 8 settembre 1943» (AP, Assemblea Costituente, p.4179).
183 E. Vitali, Cultura politica e indirizzi programmatici della Costituente, in La cultura della pace, cit. pp.271 e ss.
184 Cfr. N.Labanca, La politica militare della Repubblica. Cornici e quadri, in N.Labanca (a cura di) Gli italiani in guerra. Le armi della Repubblica dalla Liberazione ad oggi, p.76.
185 Le discussioni più ampie relative all’ordinamento militare riguardarono furono quelle relative alla Nato e all’epurazione il cui nucleo preponderante rimaneva quello politico.
186 Gli anni tra il 1945 e il 1948 si caratterizzarono per la rapidità dell’avvicendamento dei ministri e per la presenza di figure anziane come Luigi Gasparotto o Stefano Jacini o inesperte come Mario Cingolani o Cipriano Facchinetti. Esempolare fu la circolare Facchinetti, con cui il 27 Ottobre 1947 con cui si autorizzavano gli Stati Maggiori a variare a piacimento tecnico l’ordinamento delle minori unità, riservando alla persona del ministro, il compito di poter variare quello delle maggiori (N.Labanca, La politica militare della Repubblica. Cornici e quadri, cit. p.82, p.75). Va detto che l’indifferenza endemica della politica italiana circa lo strumento militare era endemica (Cfr. G.Oliva, Esercito, Paese e movimento operaio. L’antimilitarismo dal 1861 all’età giolittiana, cit., p.103).
187 N.Labanca, La politica militare della Repubblica. Cornici e quadri, cit. p.82. Non ebbe alcun effetto deterrente, ma opposto nemmeno la conduzione stabile ed energica del Ministero della Difesa, da parte di un “civile”, quale Randolfo Pacciardi. Approfittando dell’escalation della tensione nella guerra fredda questi capovolse le idee professate in precedenza e implementò la tendenza al gigantismo delle Forze Armate, chiedendo un esercito a 12 divisioni con un’ulteriore moltiplicazione dei reparti militari. Con l’esplosione della guerra in Corea la spesa militare arrivò ad assorbire il 18% della spesa pubblica finale e rappresentò più del 4% del Pil (è la quota più alta di tutto il cinquantennio repubblicano). Cfr. L. Nascia, M.Pianta, La spesa militare 1948-2008, in N.Labanca (a cura di) Gli italiani in guerra. Le armi della Repubblica dalla Liberazione ad oggi, cit. p. 185.
Marco Labbate, E se la patria chiama… Storia dell’obiezione di coscienza al servizio militare nell’Italia repubblicana (1945-1972), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno accademico 2014-2015