Il sostegno elettorale mafioso era un fatto di dominio pubblico

Con questi presupposti colmi di violenza e di odio, in Sicilia, le elezioni del 18 aprile 1948 si svolsero in un clima di tensione ed intimidazione; in varie località, alle forze di opposizione non fu concesso di tenere alcun comizio o distribuire alcun tipo di materiale di propaganda. All’avversione nei confronti di una determinata parte politica corrispose l’appoggio incondizionato all’altra parte politica. Giuliano (con la sua banda) e la mafia appoggiarono la Democrazia Cristiana, ognuno per dei tornaconti personali <259. Il primo era sempre alla ricerca di quella tanto agognata impunità da tempo promessagli da diverse forze politiche, ma mai realizzatasi; la seconda, dopo aver appoggiato diverse forze politiche, trovò la sua dimensione politica più consona all’interno del partito dello scudo crociato visto come un porto di sicuro rifugio. Come detto, l’ingerenza della mafia nella vita politica siciliana è una storia vecchia di decenni e che, puntualmente, ad ogni tornata elettorale si ripete; era stato così agli inizi del ’900 quando la mafia aveva appoggiato i liberali, era continuata dopo la sconfitta del fascismo con l’appoggio al movimento separatista ed arrivava ora, nel momento delle prime elezioni democratiche della neonata Repubblica, con l’aiuto (per nulla celato) al partito della Democrazia Cristiana.
L’avvicinamento della mafia alla DC iniziò nel momento in cui l’organizzazione criminale si rese conto che il movimento separatista stava perdendo definitivamente il suo seguito nella regione e stava tramontando l’astro politico del suo capo indiscusso, Finocchiaro Aprile. All’inizio, molti esponenti democristiani in Sicilia, che si erano resi conto della situazione che si stava profilando, cioè l’avvicinamento del partito alla mafia (o della mafia al partito) avversarono una tale prospettiva e denunciarono il problema al comitato regionale della DC tenutosi a Palermo nel gennaio 1947. In quell’occasione molti delegati regionali furono d’accordo sul fatto che, per evitare l’avanzata dei comunisti e lo sviluppo delle Camere del lavoro era necessario “fare paura”; e chi meglio dell’organizzazione mafiosa avrebbe potuto “fare paura” ai comunisti? Dunque, l’“operazione mafia”, come venne denominata da molti delegati, determinò solo sporadiche reazioni, ad esempio quella di Giuseppe Alessi, che nel maggio successivo diventerà il primo Presidente della Regione Siciliana, che arrivò a minacciare di dimettersi dalla carica di segretario della DC di Agrigento e dal partito in generale se non si fosse posto un freno all’avanzata della mafia all’interno del partito <260.
Il momento decisivo in cui si concretizzò l’avvicinamento definitivo della mafia alla DC ed in cui la mafia decise di appoggiare esclusivamente la DC fu segnato dalle elezioni politiche dell’aprile 1948. La decisione fu presa da parte dei vertici di Cosa Nostra in una riunione tenuta il 10 aprile, una settimana prima delle elezioni, svoltasi in una villa di Boccadifalco, alle porte di Palermo. Fu deciso che tutta la fascia costiera da Palermo a Trapani avrebbe votato per la DC. La mafia, dunque, abbandonava i partiti minori e concentrava il suo sforzo verso il partito di sicura preminenza. L’operazione elettorale, denominata “villa Marasà” dal nome della villa di Boccadifalco, iniziò nella stessa notte in cui fu presa la decisione, furono ritirati tutti i volantini propagandistici con i simboli separatisti e liberali e vennero distribuiti quelli con lo scudo crociato. La Democrazia Cristiana alle elezioni della settimana successiva aumentò del 156 % i voti ottenuti nelle precedenti elezioni <261.
Secondo l’opinione di alcuni storici, però, quella nettissima affermazione elettorale non avvenne solo ed esclusivamente “per merito” della mafia. Molti (tra questi anche il Ministro dell’Interno Scelba), infatti, erano convinti del fatto che, l’importanza intrinseca che rivestivano quelle elezioni (le prime dell’Italia repubblicana) era tale che l’opera dei capi mafia e dei loro luogotenenti non avrebbe potuto essere in alcun modo determinante <262.
Ovviamente, la DC non chiese espressamente l’aiuto della mafia, ma, allo stesso tempo, si può considerare il fatto che il partito non accettò passivamente tutto ciò e non fu sicuramente qualcosa di imposto con la forza o con la violenza. Quindi, verosimilmente, un qualche accordo tra le parti in causa dovette pur esserci; magari a livello locale, anche semplicemente per sostenere alcuni candidati democristiani; ma naturalmente di tutto ciò non esistono documenti scritti ed il problema risulta quindi insolubile.
Ciò che è importante capire, di questa situazione, è per quale motivo (ammesso che ce ne sia uno) il più grande partito italiano del tempo (e che rimarrà tale per decenni) di ispirazione cattolica e con alla testa un integerrimo uomo del Nord che nulla aveva a che spartire con il malaffare e la corruzione politica, abbia potuto compiere (o subire senza opporre resistenza) un avvenimento del genere. Gli esponenti siciliani della DC (i vari Alessi, Aldisio, Scelba, La Loggia, eccetera), furono coinvolti in maniera più o meno diretta con l’avanzata della mafia all’interno del loro partito, e questi uomini, fautori dell’autonomia siciliana, permisero all’organizzazione di proliferare indisturbata nelle fila del partito. Si potrebbe fare un parallelismo tra la scelta dell’approdo all’autonomia regionale e quella dell’avvicinamento alla mafia. Addirittura, la scelta della mafia era forse più importante perché riguardava (e riguarda tutt’ora) l’etica della convivenza civile e quindi la morale di ogni vera autentica politica <263. Il comportamento di quella classe politica è stato giudicato dalla storia, uno degli esponenti di quella classe politica, Giuseppe Alessi, scrisse: “Troppo facile – e si potrebbe aggiungere troppo superficiale – il ’senno del poi’ con quale lo storico oggi affrettato volesse giudicare quegli atti e i modi di quel tempo di emergenza. Il separatismo era ancora florido, la sinistra era proiettata alla conquista dello Stato; i partiti democratici erano irrigiditi in una posizione di resistenza allarmata; le elezioni della prima Camera e del primo Senato – 1948 – imminenti e le agitazioni sociali ne risentivano i fremiti di avvento” <264.
Nonostante le parole di un eminente uomo politico del tempo, risulta difficile comprendere il perché di quelle scelte e non di altre fatte in quel tempo; non sembrano plausibili, a tal fine, le parole del Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia della VI legislatura, l’onorevole Luigi Carraro che, nella relazione conclusiva, scrive: “Lo spostamento delle preferenze e dei voti mafiosi che si verificò in questo periodo e negli anni immediatamente successivi non fu certo l’effetto di sollecitazioni o di collusioni” <265. Se si accettasse tale teoria si dovrebbe considerare la Democrazia Cristiana come un’entità oscura e semi sconosciuta, ma un’operazione del genere non sarebbe stata affatto possibile; il più grande partito italiano non poteva essere considerato alla stregua di un “porto delle nebbie”.
Dunque, se la mafia decise di appoggiare la DC non lo decise in maniera unilaterale, né all’insaputa della parte interessata. Doveva esserci stata giocoforza un’intesa più o meno contrattata. La mafia non avrebbe sicuramente appoggiato la DC se non fosse stata sicura di ottenere qualcosa in cambio; il tornaconto magari non era stato pattuito, ma qualcosa in cambio il partito avrebbe prima o poi dovuto fornirlo. Inoltre, dato che il sostegno elettorale mafioso era un fatto di dominio pubblico, se il partito non avesse condiviso un tale appoggio, avrebbe potuto benissimo censurarlo o condannarlo pubblicamente; ma la DC non fece nulla di tutto ciò, si comportò anzi in maniera alquanto equivoca, accusando il PCI di ricevere anch’esso i voti dalla mafia; ma qui, a differenza che nella Democrazia Cristiana, non appena veniva scoperta una pur minima collusione da parte di un qualsiasi membro del partito (dal più importante fino all’ultimo dei militanti), questo veniva punito nel modo più duro, cioè con l’espulsione dal partito stesso. Nella DC non avvenne nulla di tutto questo e mai si volle porre rimedio a tale situazione, neanche per risolvere i casi più gravi <266.
Il rebus dell’appoggio mafioso alla DC risulta comunque di difficile soluzione, per quante ipotesi (più o meno fondate) si possano fare, non c’è un’analisi autocritica della parte interessata che possa fugare i dubbi o spiegare come sono andate realmente le cose. Anche se, risulta difficile, quando non impossibile, credere che un Ministro dell’Interno come Scelba (siciliano) e un primo ministro come De Gasperi, rimasto in carica per sette anni consecutivi, non si siano accorti del passaggio della mafia dal separatismo e dalla destra verso la DC o, addirittura, che il tutto possa essere avvenuto loro insaputa. Vi sono tante ipotesi e tante tesi sull’interpretazione degli eventi, nulle sono invece le certezze.
Secondo molti studiosi, la DC non è stato il partito della mafia, come non lo è stato nessun altro partito nella storia d’Italia; e questo per la semplice ragione che la mafia, anche negli anni di maggiore potenza e splendore, non è mai riuscita a condizionare un intero partito politico, neanche a livello regionale. Segmenti di partiti, settori, correnti, uomini più o meno influenti sono stati condizionati. Altri, invece, hanno reagito. È però accertato che ci furono rapporti, affari in comune tra mafiosi e uomini politici della DC. I mafiosi ebbero la capacità di influenzare scelte e decisioni di carattere nazionale servendosi del rapporto con uomini potenti a livello locale che usavano la loro influenza per condizionare e contare a livello nazionale. Le segreterie nazionali della DC diedero la delega ai democristiani siciliani, campani e calabresi di amministrare a loro piacimento le cose locali purché aumentassero i voti nelle elezioni. È stata già citata la capacità di trasformazione e di adeguamento da parte della mafia agli eventi storici che man mano le si presentavano davanti; in quest’ottica deve essere spiegato l’appoggio dell’organizzazione al partito della DC: la mafia non appoggiò la DC per un sentimento politico, l’appoggiò per semplice e mera convenienza. La mafia vuole ottenere protezione da chi ha in mano il potere e vuole essere sicura che quell’entità politica questo potere lo deterrà per molto tempo, da qui il massiccio appoggio elettorale, iniziato nel 1948 e prolungatosi per decenni.
Ci si può a questo punto chiedere che bisogno aveva la DC, un grande partito che veniva da una tradizione politica di tutto rispetto come quella di don Sturzo e che, tranne casi eccezionali, riusciva sempre ad ottenere il 40-50 % dei voti alle elezioni, di raccogliere i voti della mafia che potevano attestarsi in circa 100-200 mila unità? La prima risposta che storicamente si dà ad una domanda del genere è quella che la DC accettava i voti della mafia per combattere il comunismo. La mafia aveva saputo destreggiarsi nel migliore dei modi in quegli anni convulsi, dopo lo sbarco alleato, aveva offerto la sua protezione contro il fascismo (o comunque quello che rimaneva di esso), finita la guerra guerreggiata ed iniziata quella fredda, si pose a guardia degli ideali dell’anticomunismo, dimostrando di poter essere, all’occorrenza, il braccio armato di quella lotta. Ma, si è visto che la Democrazia Cristiana, in quanto forza di governo, non avallò mai la violenza nei confronti delle forze di sinistra, anzi, all’indomani del 18 aprile, il terrorismo mafioso contro i lavoratori ed i sindacalisti cessò quasi d’incanto <267. L’apporto militare della mafia, come detto in precedenza, fu utilizzato dal governo della DC solo in funzione di un anti banditismo e per porre fine alla carriera banditesca di Giuliano. Se, da un lato, il governo (nella figura del Ministro dell’Interno Scelba) rifiutò e non avallò alcun intervento mafioso nella lotta al comunismo, dall’altro accolse senza alcun imbarazzo l’aiuto elettorale della mafia al suo partito; forse, nella visione del ministro siciliano, aprire le porte alla mafia non costituiva un atto di collusione con la criminalità organizzata. Infatti, la mafia per Scelba non era da considerarsi come delinquenza organizzata, piuttosto doveva essere considerata come una forza sociale sui generis che svolgeva una funzione (positiva) di equilibrio all’interno della società. In un intervento al Senato, il ministro arrivò a dichiarare: “Se passa una ragazza formosa, un siciliano vi dice che è mafiosa, se un ragazzo è precoce vi dirà che è mafioso. Si parla di mafia in tutte le salse, ma, onorevoli colleghi, mi pare che si esageri” <268.
In buona sostanza, nessuno, tra gli alti dirigenti del partito della Democrazia Cristiana riuscì o volle spiegare quel connubio con la mafia che partì dalle elezioni del 1948 e durò per i decenni a venire. Ma, un importante esponente della DC siciliana, Giuseppe Alessi, il 27 luglio 1949 si rese protagonista di un intervento all’interno dell’ARS nel quale, per cercare di chiarire un equivoco in merito ad una mozione presentata in seno all’assemblea da parte del Blocco del Popolo, mise in luce quella che era la cognizione della classe politica del fenomeno mafioso.
Alessi, nel suo un acceso intervento, volle precisare alcuni punti in merito alla presentazione di una mozione da parte del Blocco del Popolo sulla questione dell’ordine pubblico in Sicilia, nella quale insieme alla parola “banditismo” veniva compresa anche la parola “mafia”; mentre, in una mozione simile presentata in Senato dal Fronte popolare si faceva solo riferimento al “banditismo” e non veniva presa in considerazione la “mafia”. Il democristiano sentì dunque il dovere di chiarire la vicenda:
“Nell’ordine del giorno presentato al Senato si parlava solo di banditismo siciliano; ora invece è stato allargato l’orizzonte, si è parlato direttamente di un’altra piaga, e cioè della mafia; è chiaro che dobbiamo parlare di queste forze, o anti forze, con il massimo coraggio e con la massima lealtà, per il peso che esse hanno nella nostra storia e per i propositi che noi dobbiamo maturare a favore dell’evoluzione ulteriore nell’isola contro di esse che la tengano in una condizione di arretratezza e si pongono come ostacolo al libero sviluppo delle forze democratiche e soprattutto all’avvenire economico e sociale dell’isola”.
“Qui, signori colleghi, non vi è dubbio, che un profondo equivoco divide volta per volta due uomini che ne parlino. L’equivoco nasce dal diverso senso che vuol darsi alla parola, dal significato diverso che le persone danno al termine mafia; onde può avvenire che uomini di intelletto, uomini di grande tradizione […] arrivano a dichiarare o nelle piazze o nel Parlamento, con orgoglio, di non potersi vergognare dell’epiteto di mafioso, laddove altri ventilano lo stesso termine solo nelle gabbie del Tribunale o della Corte di assise. Quale è mai la ragione che divide non solo l’opinione delle persone appartenenti ad uno strato poco progredito, ma investe nella sua pienezza il dibattito della dottrina criminale, il dibattito politico e soprattutto il dibattito sociale? Come ognuno di voi, mi sono interessato a capire la questione. Ho sentito da tutte le parti, anche attraverso la parola di molti illustri oppositori di oggi, fare la distinzione tra lo antichissimo passato, cioè il momento di insorgenza del fenomeno, e le degenerazioni del presente. Esse trovano concordi le fonti secondo cui la mafia sarebbe insorta come atteggiamento di protesta contro l’assenza del principe, vuoi nel rapporto della proprietà terriera che in quello amministrativo (burocrazia corrotta) vuoi nel rapporto giudiziario che in quello che in quello essenzialmente politico, della sicurezza della cosa pubblica. Sarebbe insorta dalla lontananza dei secoli (2-3 secoli fa). Dal carattere tipicamente impetuoso dell’isolano avrebbe ricevuto tutti gli elementi della congiura e della rivolta; e sarebbe stato, perciò, un vero e proprio movimento rivoluzionario, secondo il significato che soleva darsi a questa espressione nei tempi in cui ancora la rivoluzione non era una scienza, ma un sentimento, […] cosa intendo concludere con ciò? Intendo dire che nel fondo dei dissensi vi sono equivoci che spesso dividono i giudizi e permettono a chiunque di lanciare i sospetti più orribili. Se per mafia voi alludete soltanto al carattere, ad un temperamento, alla rivolta fanatica della persona di fronte alla carenza della legge o al difetto del pubblico potere, al forte, prepotente stimolo dell’onore, allora voi troverete anche Presidenti del Consiglio che vi diranno: “Io mi dichiaro mafioso”. Ma noi non intendiamo occuparci di ciò; però bisogna dirlo chiaramente perché non ci occupiamo di questo aspetto del fenomeno, perché tutte le diffamazioni che sono venute alla Sicilia quando la si è ritenuta tutta quanta “mafiosa” erano riferibili a questo sentimento non spregevole, a questa caratteristica della sua natura, della sua psicologia, che ricorre quasi in ognuno di noi, in grado maggiore o minore, perché il nostro è un carattere etneo, cioè focoso ed impegnativo della dignità della persona di fronte all’iniquo contrasto, carattere che non teme le difficoltà e le sfide, dimentico di sé, persino delle convenienze e dell’utilità personale […] quando, dunque, parliamo di mafia, potremmo intendere le cose anzidette e rimanere in un certo senso indifferenti all’allarme diffuso. Ma per mafia può intendersi ben altra cosa: lo spirito di omertà che ancora morbidamente si insedia nell’animo di molti. Non siamo ancora nel piano del delitto, ma tuttavia di deleterio “complesso psicologico”. Per mafia si può intendere, infine, il settore dei favoreggiatori, dei manutengoli, dei mandanti. Si chiamino pure questi mafia. A me non importa il nome: comunque si chiamino, per me si tratta di comuni, volgari criminali, di fronte ai quali la legge penale deve operare decisamente senza che l’azione subisca remore dall’essere il fenomeno assunto, da questi o da quell’altro, a problema politico o a problema sociale. Se Vittorio Emanuele Orlando mi dirà: “Io mi glorio di essere mafioso”, e mi tenderà la mano, allora vi dico che io gliela stringerò, perché so che la sua è la mano dell’anti prepotenza, la mano di un uomo libero, consegnato già alla grandezza della storia isolana e dell’Italia. Egli allude ad altre cose e per questo poté dire in Senato: “Voi parlate di cose che non sapete!”. Perché parlava di cose che il Senato non sapeva! Ma se con la parola mafia ad un qualsiasi settore di criminali o ad un settore collegato a forze di criminali organizzate, allora il problema si pone diversamente, non con la stretta di mano, ma con le manette; e nessuno che abbia cuore e senso di onestà può accondiscendere minimamente ad una qualsiasi misericordia verso questo settore di vita isolana. Se per mafia si intende solo un temperamento, si cade in un grosso equivoco. Se si intende il fenomeno criminale, deve essere trattato alla stregua dei comuni fenomeni criminali né più né meno. Il nostro codice penale ha formulato i modelli delittuosi che si attagliano ad ogni fattispecie” <269.
Dunque, se Alessi, sull’esempio di Vittorio Emanuele Orlando era orgoglioso di dichiararsi mafioso, sul piano culturale, come sul piano etico-politico, nella Sicilia del 1949 si era ancora come al tempo del Pitrè e, di conseguenza, le connessione fra mafia e politica, delle quali giorno dopo giorno riferiva la cronaca, non potevano essere motivo né di scandalo né di censura. Poiché semplicemente, il problema non c’era <270.
[NOTE]
259 Percorsi di Storia Locale, Banditismo e politica in Sicilia tra guerra e dopoguerra, p. 8, in http://seieditrice.com/chiaroscuro/files/2010/02/U11-storia-locale.pdf
260 M. Pantaleone, Mafia e politica, cit., p. 218.
261 Ivi, p. 221.
262 F. Renda, Storia della mafia, cit., p. 330.
263 Ivi, p. 331.
264 G. Alessi, Relazione “Mafia ed enti locali” presentata alla Commissione Parlamentare Antimafia della IV legislatura, pp. 1199-1201 in http://archiviopiolatorre.camera.it/imgrepo/ DOCUMENTAZIONE/Antimafia/04_rel_03_all5.pdf, in F. Renda, Storia della mafia, cit., p. 332.
265 L. Carraro, Relazione conclusiva Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, VI legislatura, p. 123 in http://archiviopiolatorre.camera.it/imgrepo/ DOCUMENTAZIONE/Antimafia/01_rel_p03_1.pdf in F. Renda, Storia della mafia, cit., p. 332.
266 F. Renda, Storia della mafia, cit., p. 333.
267 Ivi, p. 334.
268 Atti Parlamentari -Discussioni Senato della Repubblica-, seduta CCXXXI del 25 giugno 1949, in F. Renda, Storia della mafia, cit., pp. 334, 335; S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 171.
269 ARS, Resoconti, seduta del 27 luglio 1949, pp. 1.653-1.658 in F. Renda, Storia della mafia, cit., pp. 336-338. Per approfondire il pieno significato delle parole di Giuseppe Alessi si può fare riferimento ad un testo storico della Sicilia dell’800, Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Vol. 2, pp. 289-291, Libreria Pedone Lauriel, 1889, Palermo. Alessi, in alcune parti del suo discorso, si richiama ad una storica tesi sulla mafia del Pitrè, secondo cui: la mafia “non è né setta né associazione, non ha regolamenti né statuti, […] il mafioso non è un ladro, non è un malandrino, […]; la mafia è coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della propria forza individuale, […] donde la insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui”. Pitrè, inoltre afferma che il termine mafia veniva utilizzato anche prima dell’unità d’Italia del 1861 nei quartieri popolari di Palermo quale sinonimo di “bellezza” e di “eccellenza”, sicché mafiusu sarebbe stato un uomo di coraggio e mafiusedda una ragazza bella e fiera (tornano qui i riferimenti fatti dal Ministro Scelba al Senato).
270 F. Renda, Storia della mafia, cit., p. 338.
Agostino Amato, Mafia e politica tra lo sbarco alleato e la fine degli anni ’50, Tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, Anno Accademico 2013/2014