In Val Casotto partigiani savonesi non è che ce ne fossero tanti

Intervista con Enrico De Vincenzi (Kid)
D: Qual è la sua origine sociale, come ceto, che famiglia era la sua?
R: Mio padre era proprietario terriero, aveva molti terreni e alcune case tra Borgio e Pietra Ligure, a metà strada.
D: Scusi se interloquisco. Era anche colonnello?
R: Sì, nell’esercito.
D: Però era di idee socialiste.
R: Sì, era socialista.
D: Come aveva fatto, essendo socialista, a mantenere il grado sotto il fascismo?
R: I socialisti non è che siano stati discriminati. Lui era socialista e ha avuto anche una condanna, mio padre. Nel 1928 o ’27, adesso non mi ricordo più, perché allora ero piccolino, avevo sette anni, mio padre era presidente della sezione dell’Associazione Combattenti – della Prima Guerra Mondiale – di Pietra Ligure, eletto dall’assemblea degli associati. Un bel giorno, il fascismo ha deciso di vedere di che idee erano questi presidenti, e allora ha saputo che lui era di idee socialiste, e lo hanno invitato a dimettersi. Lui ha detto che non si dimetteva…
D: E non sono riusciti a farlo dimettere?
R:No, hanno commissariato la sezione; e lui cos’ha fatto? S’è preso la bandiera e se l’è portata a casa. L’ha nascosta in tubo, sono venuti i Carabinieri, gli hanno detto di restituire la bandiera e lui ha detto “La bandiera cercatela, io non ce l’ho, la bandiera non c’è più”, basta, lo hanno denunciato e condannato a tre mesi di carcere per appropriazione indebita di bandiera.
D: Ma li ha scontati poi?
R: No.
D: Comunque, si può dire che è stato anche aiutato da una serie di conoscenti e amici dell’ambiente militare? Aveva amici in quel settore?
R: No. Un avvocato, l’avvocato Vignola di Loano, che si è interessato della sua questione…L’ha condannato la pretura di Albenga [De Vincenzi senior, non l’avvocato!] a tre mesi con la condizionale, è andata bene, via. (…). Lui ha avuto quella “grana”, ecco, poi…
D: Come si è svolta la sua educazione politica?
R: Con un padre socialista non è che si possa diventare fascista, è molto difficile. Io ho fatto gli studi a Finalborgo dagli Scolopi, e lì, per esempio, a fare il premilitare – dovevo fare il premilitare – un medico bravo mi aveva fatto un certificato medico e io il premilitare non lo ho quasi mai fatto. Il certificato medico era del dottore di famiglia di Pietra Ligure, il dottor Sordo, che tra parentesi poi è stato anche segretario del partito fascista di Pietra Ligure; però era un brav’uomo. In un paese, è tutta questione di amicizie e di contatti personali; le questioni politiche erano poco accese nel paese.
D: (…) Come e quando lei è venuto in contatto con la Resistenza l’ha raccontato nel suo libro (…) Ma come aveva avuto notizia della presenza di ribelli in armi? Quando aveva cominciato a circolare questa notizia (…)?
R: Quando sono tornato a casa, che poi sono scappato da Lubiana, non mi hanno preso e siamo arrivati fino a Porto Marghera, e (…) siamo arrivati a Pietra Ligure. A Pietra Ligure me ne sono stato a casa tranquillamente, poi sono venuti i Carabinieri a dirmi che dovevo presentarmi al Distretto. (…) Ho detto di sì. Gli ho detto: “Sì sì vado, senz’altro”. E sono stato ancora lì un dieci – quindici giorni, poi sono tornati e mi hanno detto: “Lei non si è presentato, deve venire con noi”. Ho detto “Guardi, mi presento domani mattina”. Conoscevo, tra parentesi, il maresciallo dei Carabinieri, non i Carabinieri che sono venuti (…). Sono partito e sono andato su in montagna, mi sono nascosto (…). Io sono stato un po’ in una cascina dove c’erano dei contadini che lavoravano i terreni di mio padre, poi lì è diventato un po’… Avevo paura che poi venissero a cercarmi, perché, certo, sono venuti due volte, poi la terza, non credere, mi mettono in galera… [ossia: alla terza mi avrebbero beccato]. Poi sono venuto a sapere che c’erano i militari della Quarta Armata che dal confine francese si stavano raggruppando nella valle Casotto, e allora io sono andato su, prima a Giustenice (…) e lì ho incontrato un amico, uno più giovane di me, aveva diciotto anni allora, e io ne avevo ventiquattro. “Dove vai, Enrico?”, e gli ho detto “Guarda, io vado in Val Casotto”. “Vengo anch’io”. Ma io gli ho detto: “Perché vieni? Non ti cercano”. “Eh, un giorno o l’altro vengono a cercarmi…poi vengo con te”. Siamo partiti, siamo andati a Boissano, sopra Toirano, dice: “Vieni, andiamo a salutare un amico”. Siamo andati a salutare un amico, si chiamava Capurro Italo. Siamo stati in casa sua, abbiamo mangiato, e l’indomani mattina è venuto anche lui che aveva un anno di meno ancora, diciassette anni, e siamo andati in Val Casotto.
D: Io ho scritto nella mia tesi che Val Casotto ha costituito una grande risorsa sul momento per quella zona, però ha portato via una Resistenza che è partita in ritardo qua a Savona. E’ diventata forte in ritardo proprio perché c’era Val Casotto che attirava i giovani del Savonese.
R: No, ma in Val Casotto savonesi non è che ce ne fossero tanti.
D: Qualche decina?
R: Sì, eravamo due – tre poi ho incontrato altri due savonesi. Uno è Tino Salvo, e un altro che non mi ricordo il nome. Era uno che lavorava nel Porto, tutt’e due lavoravano nel Porto, dopo la Liberazione. Erano nella Compagnia Portuale [segue una specificazione incomprensibile]. Siamo stati dieci giorni a Val Casotto, poi l’ottavo o il nono giorno è venuto l’attacco da parte delle Forze Armate tedesche con l’appoggio di carri armati, autoblindo, cannoni, e l’hanno squinternata tutta; noialtri non eravamo organizzati, c’erano soldati, mezzi armati, anche disarmati (…). Noialtri eravamo sopra, loro erano sotto, sono venuti con i cannoni e ci hanno preso d’infilata. (…). Non c’era niente da fare.
D: Com’è proceduta la sua carriera partigiana…mi interesserebbe di più un punto…Ma lei si è sentito realmente un po’ in pericolo quando c’era “Leone” [Gin Bevilacqua] che le faceva domande in quel modo sospettoso? (…)
R: [Nota: De Vincenzi fa capire che la risposta è affermativa, poi riprende la sua narrazione da dove l’avevo interrotta]. Io ero stato in Val Casotto. Poi è successo che quando siamo ritornati da Val Casotto ci siamo fermati a Bardineto, noi tre, io, Capurro Italo e Lodo, quello di Giustenice, e siamo venuti a sapere che a Giustenice c’era un gruppo di partigiani. (…). Di partigiani non ce n’erano nella zona lì dove eravamo, né a Garessio, né… Finito con la Val Casotto, (…) non c’era niente. E ho detto: “Ma è impossibile che ci siano partigiani lì”. Difatti ho mandato giù Lodo, che si chiamava di nome di battaglia “Turi”. E’ andato giù siccome lui [incomprensibile]. Noi siamo rimasti su a Bardineto. E’ andato giù, è ritornato tutto trafelato, e diceva: “Porco mondo, vedessi, c’è un mucchio di partigiani!” “Come un mucchio di partigiani?” “Sì, sì, sì! Ma tutti vestiti in borghese!” (…) Quelli di Val Casotto erano militari…(…) eravamo nel mese di aprile [1944], alla fine di aprile… E allora siamo andati giù e ci siamo incontrati con questo comandante “Tom” il quale mi ha dato l’incarico di fare il vicecomandante.
D: Praticamente le hanno fatto fare anche il sindaco, da come l’ha raccontato…
R: Eh sì, ma…La parte amministrativa l’ha data a me. Io sono andato dal sindaco, che era tra parentesi un amico di mio papà, un certo Gambetta, che era un grosso proprietario terriero che aveva dei vivai e gli ho detto: “Noialtri siamo adesso qua insediati a Giustenice, vogliamo amministrare il paese”. Mi ha dato le consegne, mi ha detto “Dimmi, tutto quanto”… Mi disse “Ciao, mi raccomando, fai attenzione perché qua…” Sai, lì a Pietra Ligure…
D: Come stavate quando eravate lì a Giustenice con la brigata Tom, ad armi? Ne avevate pochine, suppongo.
R: Di armi avevamo: due mitragliatori Breda (…), piccoli, portatili, coi treppiedi, poi avevano una mitragliatrice Breda pesante che però era sistemata su un “bricco” [altura], l’avevano messa lì in un posto e ogni tanto ci andava uno, non ci si faceva nemmeno la guardia, c’erano le sue munizioni lì vicino… (…) Poi c’era una mitragliatrice FIAT pesante, quella con il raffreddamento ad acqua della guerra ’15 – ’18, l’avevano portata da un fabbro perché il percussore era rotto, che ci facesse un percussore nuovo… Poi ognuno aveva o un fucile, o un moschetto 38 o un fucile ’91 e c’erano una decina di bombe a mano, tra tutti quanti, quelle piccole, “Balilla”. (…) Di azioni militari, la brigata Tom è vissuta quaranta giorni, però…
D: Lei racconta che avete disarmato un tedesco in bicicletta che si è preso una paura tremenda…
R: L’unica cosa è stata quella.
D: …il giorno dopo sono arrivati i fascisti e i tedeschi in massa…
R: Sì, due giorni dopo. Perché di tedeschi a Pietra Ligure ce n’erano ma erano pochi, erano una dozzina nel cantiere, però sono venuti da Albenga i tedeschi e dei fascisti della brigata nera [che ancora non esisteva con tale nome], e poi un gruppo di giovani fascisti, che poi non li ho mai più visti…Erano giovani, proprio giovani… (…). I giovani fascisti erano tutti armati con il mitra “Balilla”, tra parentesi, erano armati bene… Il mitra “Balilla” é come il mitra (…) però é più corto, e spara da qui al monumento [ossia: dall’ingresso dell’ANPI al monumento ai Caduti, vale a dire venti metri circa], non è che spari più lontano, non arriva fino laggiù alla chiesa [a sessanta metri di distanza circa]. (…). Comunque, finita la brigata Tom…
D: Siete tornati indietro e poi avete saputo di Boragine.
R: Sì, poi è venuto il gruppo Boragine, tutti vestiti da militare… (…). Nello stesso posto. C’era una cascina, Catelle si chiamava, c’è ancora…E a fianco c’era una cascina abbandonata. La brigata Tom era sistemata nella cascina abbandonata, salvo qualcheduno come il Lodo, come Buscaglia, come altri che andavano a dormire a casa perché erano di Giustenice e vivevano in casa loro. Ma quelli che non erano di Giustenice per la maggioranza erano di Pietra Ligure, qualcheduno di Borgio Verezzi, qualcheduno – due o tre – di Loano…Erano tutti del posto.
D: Il resto è noto…C’era solo un dubbio che mi era rimasto. Era proprio il 15 novembre quando avete fatto saltare il ponte [Salto del Lupo] con quella bomba d’aereo, che avete fatto morire di paura quel vostro amico pastore?
R: Penso di sì. O il 15 o il 16, o… (…). La metà di novembre, non potrei essere più preciso. (…). E’ stato difficile con la bomba. (…). Tra parentesi, quella notizia che è stata interrotta la strada, fatto saltare il ponte del Salto del Lupo come se fosse chissà che ponte, è stata data da Radio Londra [detto con perplessità]. (…).
D: Quali erano i vostri rapporti con le formazioni partigiane di diversa tendenza politica, in generale, quindi con gli autonomi nel vostro caso?
R: Il nostro distaccamento, io ho fatto parte del “Torcello” della Terza Brigata, non aveva contatti con nessun altra formazione. (…). La nostra brigata non ha avuto mai contatti. La Quinta e la Sesta Brigata, nei rastrellamenti del novembre del ’44, hanno dovuto abbandonare la zona e sono andate nella Bassa Langa, in Piemonte, si sono sbandate, e lì hanno avuto molti contatti con le formazioni “Mauri”, e sono state insieme, hanno combattuto, si sono ritirate e si sono sbandate insieme. Noialtri gli unici contatti che abbiamo avuto con le formazioni di “Mauri” li abbiamo fatti [sic] indirettamente. Questa è una notizia un po’ stramba, no? Noialtri eravamo armati un po’ così, alla meno peggio, invece i mauriani avevano delle armi che erano state paracadutate, quindi avevano gli sten e i bren, e allora cosa abbiamo fatto noi? Abbiamo dato del sale e delle acciughe sotto sale a uno che andava a fare la borsa nera. Andava in Piemonte e ritornava indietro con la farina, i salami… (…). E’ andato dove c’era un distaccamento di mauriani, non saprei dire che distaccamento fosse, e ha cambiato quella roba con tre sten e un bren. Eravamo gli unici, nella Terza Brigata, che avevamo tre sten e un bren, perché era cosa fuori dal normale (…).
D: I vostri rapporti con le donne. Le donne dei paesi, le donne che eventualmente vi mandavano su da proteggere perché erano “bruciate”… Cosa vi ordinavano di fare? Di rigar dritto…
R: Il nostro distaccamento ha operato nella zona di Balestrino, Carpe, Toirano… Quella zona. Gli altri partigiani conoscevano delle donne a Bardineto, a Carpe, in quei paesi, tant’è vero che uno di Calice Ligure s’è sposato con la figlia del tabaccaio di Carpe, e un altro, Leti Sergio, che non era del mio distaccamento, era commissario del distaccamento “Ines Negri”, s’è sposato con una di Bardineto che ha conosciuto in quel periodo. Il mio comandante, che era di Noli, Aldo Pastorino, s’è sposato, un anno dopo, finita la guerra, con mia sorella, perché mia sorella veniva su: andava ad Albenga, oppure a Santa Corona [l’ospedale di Pietra Ligure], prendeva dei medicinali e li portava su da noi, e andava da una certa Maria Franchello [Franchelli], una nostra staffetta, aveva diciott’anni anche lei, era giovane, questa staffetta di Bardineto la quale sapeva sempre dove eravamo, dove ci spostavamo. (…). Mia sorella veniva una volta – due volte al mese, secondo il tempo, perché se faceva tempo brutto non poteva venire. Portava su robe da cambiarsi…
D: Ho letto anche che chi fra i partigiani aveva la fidanzata nel paese vicino poteva avere dei problemi, nel senso che i comandanti erano tenuti praticamente a impedirgli o quasi di frequentarle per evitare grane. Ma questo veniva fatto realmente o veniva fatto rispettare così…?
R: Il nostro distaccamento era un po’ così, lasciava correre, perché anche il comandante aveva la ragazza di Bardineto, quindi, se uno andava con le ragazze…Per esempio, con le donne: noialtri abbiamo avuto degli ottimi rapporti con le suore di Bardineto, le quali ci hanno fatto dei giubbotti e dei pantaloni. Siamo andati a fare un colpo, abbiamo portato via della roba a Leca d’Albenga, l’abbiamo portata alle suore, abbiamo detto loro se potevano farci maglioni, giubbotti, così, “Mah, noialtre sappiamo cucire” – perché eran brave a cucire – “però [questo] non l’abbiamo mai fatto, portateci un modello, ci portate un giubbotto e un paio di calzoni…” e ce ne hanno fatti una trentina.
D: (…) Queste erano le donne amiche. Non ci sono mai state donne che hanno fatto spionaggio o cose del genere dalle vostre parti? (…)
R: Da noi non ce ne sono stati di quei casi. [Riferisco alcune vicende quilianesi di presunto spionaggio ad opera di donne: De Vincenzi non ne sa nulla avendo militato in altra zona]. Nel mio distaccamento c’erano tredici ragazzi di Quiliano – o quattordici – e quando è venuto il proclama Alexander, ci ha posto dei problemi, perché diceva “nascondete le armi e rivediamoci quando il tempo…”. (…). Per noi andava bene solo a metà. Andava bene per quelli che abitavano qua, ma quando ci hanno detto il succo del proclama Alexander – cioè hanno detto “chi vuole andare a casa, poi ritorna in montagna” eccetera – è saltato fuori uno, “Nasino”, che era di Palermo, dice “Come […] ci vado io a casa?”. E’ uscito fuori “Tigre”, che era uno di Portoferraio, dell’Isola d’Elba, “A nuoto ci vado io a casa. Disgraziati! Io dove vado se vado via di qua dal distaccamento, dove vado, me lo dite?”. Quelli di Quiliano, dieci, sono andati a casa.
D: E hanno fatto i sapisti, però.
R: Sì, hanno fatto i sapisti. Tre sono rimasti con noi: “Pantera” e “Panterino”, Tizzi Aldo, Tizzi Luciano e “Irto”, Ferrando Giobatta. Abitano qua, tutti e tre. Gli unici tre che sono rimasti fino alla fine non si sono mossi perché hanno pensato che andando a casa sarebbero stati più in difficoltà che stando lassù.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet – La rivolta di una provincia ligure (’43-’45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999-2000