Nelle lunghe notti sui treni nel levante di Liguria

In questa Liguria infinita, tra gallerie e viadotti tra il mare che accarezza le scogliere ed i monti che precipitano su di esso un tenero abbraccio interrotto dalla strada ferrata, un serpente di luci in lontananza ci insegue silenzioso e discreto, noi, avvolti nella poca luce di una cabina tra l’odore del ferro e il ritmare dei contattori in cabina alta tensione. Un tenero abbraccio ci scagliava in un altro tempo, tra i corpi oramai ricordi, di macchinisti da li passati. Non c’era la fretta ad accompagnarci, e neanche il silenzio ostacolava il nostro pensiero che fluiva tra la catenaria che zigzagando ci consegnava alle stazioni deserte. Il silenzio imprendibile l’unico compagno nella notte levantina.
Una Liguria che in pochi potevano ascoltare in quelle ore di sonno altrui, le luci delle case prossime intraviste dal piccolo finestrino lentamente s’addormentavano anch’esse, mentre il nostro incedere tra curve e scambi resi silenziosi dalle innovazioni tecniche, avevano di fatto felpato il nostro incedere. Di quel “dodescadem” che Paolini ci raccontò (della sua infanzia dei viaggi lungo la linea del Cadore con il padre macchinista) in quella trasmissione televisiva sul dramma del Vajont, non restava che una traccia poetica. il treno era diventato improvvisamente silenzioso, a raccontarla agli amanti di quel mondo che queste sono oggi le ferrovie; un ininterrotto binario, una lunga serpe che da Ventimiglia raggiunge le estremità della penisola senza interruzioni ne giunzioni, questa vera e rivoluzionaria innovazione tecnologica non pare vera neanche oggi – ma come non ci sono più le giunture del binario?- una domanda che meriterebbe un excursus sui progressi della tecnica ferroviaria a partire dagli anni sessanta. non mi sono mai chiesto, a chi ho raccontato un po’ di quella storia di progressi, cosa sia rimasto in quegli sguardi meravigliati.

Ecco passavamo quasi inosservati, salvo le rare volte in cui agivamo sul fischio, nel Levante cosa assai rara, qualche cantiere di lavoro notturno, mentre nel Ponente genovese la cosa era diversa. E spesso creò non pochi problemi alla dirigenza delle FS, l’uso, come imponeva il regolamento, del fischio. Lacerava nella notte ogni barriera architettonica, i treni in doppia simmetrica in partenza da Sestri Ponente con locomotiva di rinforzo aggiunta in coda, regolavano con il fischio l’avviamento e la marcia. Due fischi lunghi da parte della locomotiva titolare ed un fischio d’intesa da parte di quella di coda, permettevano al convoglio di muoversi una volta ottenuta la via libera. E c’era chi esagerava, come sempre il buon senso a volte per qualcuno era un handicap. Poi vennero i telefonini a partire dalla seconda metà degli anni novanta ed allora una semplice chiamata avvertiva i macchinisti della Locomotiva di spinta della via libera. Treni da 1600 tonnellate, i famosi rotoli di acciaio sbarcati a Genova Cornigliano e giunti da Taranto, destinati all’industria automobilistica, o le bilette destinate alla rilavorazione in altri impianti siderurgici dell’alta Italia. Vi erano notti in cui il movimento dei treni era ininterrotto, chi arrivava e chi manovrava, si formava spesso una lunga catena di treni in dolce attesa di una via libera. Destinazione Verona Porta Vescovo, tre treni ogni notte, con destinazione Verona, lasciavano il parco merci di Sestri e si avviavano su per Mignanego, Ronco Scrivia dove veniva “tagliata la doppia” per poi ripartire alla volta di Milano Smistamento, Brescia e Verona. Ma non era così semplice muoversi, anzi, per anni sulla linea “diretta” trovammo lunghe ore di interruzione per manutenzione ed allora si restava al palo sui Bastioni a Sampierdarena in attesa che il DCO Dirigente Operativo aprisse il segnale. Ore in cui gli occhi chiedono di riposarsi, la mente che fatica a trattenerli, il silenzio rotto dai compressori sempre vigili agli abbassamenti di pressione, quel rosso potente e invalicabile ci confortava mentre distendevamo le gambe e ci si appisolava. -Ci chiameranno appena ci sarà la via libera- ci si diceva tra di noi, insomma prendiamoci due minuti, che poi erano decine e decine di minuti di sosta forzata.

Le corse sul Levante erano dolci, avvolto nel chiaro del suo mare in perenne disaccordo con la notte silenziosa, il Levante affascina sempre, generazioni di macchinisti ne sono rimasti affascinati dalle brevi luci delle Cinque Terre, Monterosso, Vernazza rapita velocemente allo sguardo da una galleria, Corniglia, Manarola ed il suo Presepe Natalizio, la collina illuminata, una delicata mano umana l’aveva trasformata nel tempo, resa famosa più dalla discrezione che dall’evento ed infine Riomaggiore che ci consegnava alla lunga galleria che sbucava Spezia. Il mare che scompare e riappare come in un racconto, un mare che a furia di essere mare quasi lambiva in alcuni punti il binario. Il Levante mi ha sempre affascinato, nelle notti di luna piena qualcosa di magico avveniva, una notte si giungeva da Livorno con un treno di quelli lunghi, i famosi treni della “transumanza umana” come li ebbe a chiamare Danilo Dolci, dal Sud al Nord, il treno del Sole, il 1940, gli 800 quelli che seguivano la numerazione 1-2-3-4… Una notte sul finire ci ritrovammo poco prima di Rapallo con uno di questi treni, agli occhi si presentava il promontorio di Portofino illuminato da una luna piena incredibile, e li in rada sostava, cullata dalle onde la Amerigo Vespucci, la nave scuola della Marina Militare. Arrestammo il treno per non perderci lo spettacolo. Io e Beppe il mio socio restammo affascinati, da questo scenario irripetibile “siamo davvero fortunati” ci dicemmo con uno sguardo d’intesa.
Io e Beppe siamo rimasti insieme per oltre dieci anni, metà del lavoro è avere un socio buono ed io e Beppe, benché diversissimi, sul lavoro ci si intendeva alla perfezione.
Ecco i “nostri treni”, perchè i macchinisti così parlavano dei treni che gli erano stati comandati, ci consegnavano quegli angoli nascosti della nostra terra di Liguria, quella terra tanto raccontata ed amata da schiere di poeti e scrittori, noi quella Liguria la ritrovavamo ogni volta che ci avventuravamo lungo la sua costa.
Il suo fascino è qualcosa che assorbi lentamente e non ti lascia più, ti impregna in profondità, ne scruti ogni angolo, ti riconosci nei cambiamenti che negli anni intervengono, la vedi cambiare, come le Cinque Terre, e non sempre sei d’accordo, quella massa informe di gente che oggi i nostri treni locali vomitano in quello spazio stretto non promettono nulla di buono per quel mondo così fragile e delicato. Eppure il marketing ed il business rubano il posto alla poesia ed alla memoria di quei luoghi, dove il treno era ed è collante di quel meraviglioso mondo.
Venne il 2011 ad ottobre quel mondo tanto amato venne sconvolto da una alluvione, in molti pensammo che sarebbe stata la fine, Vernazza ricoperta di detriti, Monterosso trasformato in un Rio senza argini, un paesaggio interrotto da una immane catastrofe. Nei giorni a seguire la ferrovia assolse ad un compito di collegamento fondamentale, in parte la strada ferrata era stata risparmiata per la presenza delle gallerie, in parte si procedette speditamente al suo ripristino. Furono giorni terribili. Ma la solidarietà mondiale si fece sentire in quel frangente.
Oggi su quei binari non corrono più le locomotive 636, 645 restano poche Tartarughe E 444 e pochi 655 Caimani, anche quella di dare un nome ai mezzi di trazione è una bella storia, ma io credo che la storia delle Ferrovie e dei ferrovieri lo sia, un mondo a sé, come ci diceva il grande Capo Deposito Istruttore di Genova Rivarolo Samuele Trucco, un mondo che non vi lascerà mai…

di Roberto Trutalli, Sindaco di Pigna (IM)