Queste memorie sono la reazione dei protagonisti al disinteresse dimostrato molto presto dallo Stato nei confronti della guerra partigiana

Si considerano ora nel dettaglio le memorie [sulla Resistenza] della “prima ondata”, cioè i testi dati alle stampe tra il 1945 e il 1950.
Prima di tutto, si deve notare che ad occuparsi della pubblicazione di questi scritti non sono le case editrici conosciute e operative a livello nazionale. Se ne interessano, piuttosto, tipografie locali, piccolissime e poco note case editrici, o gli uffici legati alle sezioni locali dell’Anpi. In alcuni rari casi l’iniziativa della pubblicazione parte dall’amministrazione comunale, ma solo in zone in cui la Resistenza si era particolarmente radicata. Ne risulta che la diffusione di questi testi è estremamente limitata, tanto che oggi molti di essi sono pressoché introvabili.
Queste memorie sono la reazione dei protagonisti al disinteresse dimostrato molto presto dallo Stato nei confronti della guerra partigiana: come già sottolineato, il governo abbandona subito il progetto di tutela del fenomeno resistenziale. Gli ex partigiani temono che il loro contributo sia cancellato, rimosso, oppure che la verità dei fatti venga storpiata e strumentalizzata per chissà quale scopo. Essi sentono di essere gli unici in grado di ricostruire quei fatti, e anzi ne hanno il preciso dovere, dal momento che la guerriglia partigiana – movimento per sua natura clandestino – non poteva lasciare tracce documentarie nel corso della lotta.
Le prefazioni a queste memorie sono il luogo ideale in cui gli autori espongono i motivi che li hanno spinti a scrivere. Basterà vederne alcune per confermare la tesi appena esposta: gli ex partigiani scrivono subito a ridosso della guerra per lasciare una traccia scritta di quegli eventi, nel timore che una manovra d’oblio giunga dall’alto a cancellare il contributo dato dalla Resistenza. Si sospetta che gli organi governativi vogliano indebolire il movimento partigiano per evitare che esso avanzi pretese di gestione della cosa pubblica, oppure per riconoscere il merito della Liberazione d’Italia esclusivamente agli Alleati americani, e sottomettersi alla loro egemonia.
Pietro Chiodi, che scrive il suo diario retrospettivo tra il 1945 e il 1946 per poi pubblicarlo in due diverse edizioni, dice nella prefazione alla ristampa del 1975: “Queste pagine furono scritte fra il 1945 e il 1946 allo scopo di rendere testimonianza su fatti e atteggiamenti contestati, di alcuni dei quali il loro autore era l’unico testimone sopravvissuto. Ciò spiega la breve nota che le precedeva e che qui riconfermo pienamente: «Questo libro non è un romanzo, né una storia romanzata. È un documentario storico, nel senso che fatti, personaggi ed emozioni sono effettivamente stati. L’autore ne assume in proposito la più completa responsabilità». La presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente ad esso, vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valori – come la libertà nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapporti – siano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia”. <132
Ecco, quindi, che le paure presenti motivano il recupero del passato dal serbatoio della memoria e la sua messa a disposizione del pubblico, come già si era detto parlando delle tesi di Ricoeur.
Nonostante questa esigenza di ricostruire i fatti concreti nel dettaglio, leggendo le memorie si ha l’impressione di avere davanti testi tutti uguali, che raccontano lo stesso scontro, lo stesso rastrellamento. I racconti delle battaglie, per esempio, ricalcano tutti generalmente una stessa struttura comune. Si descrive il gruppo partigiano in movimento, guidato dal suo comandante; poi l’incontro – previsto o non – con il nemico, e la presa di posizione di ognuno, in base all’arma in dotazione. Segue il momento dello scontro a fuoco. Il racconto si focalizza poi sull’eroe che si è distinto in quella battaglia, sui successi partigiani e sui morti fascisti, indugiando sulla descrizione del sangue, delle armi che sparano impazzite; finita la battaglia, la raccolta dei feriti, il compianto dei caduti, e il ritorno al campo. Questo schema ritorna non solo nelle memorie della prima ondata, ma anche in quelle successive. Anche Battaglia parla di una certa omogeneità nella resa narrativa degli eventi: “Il tono della narrazione è generalmente anonimo e sembra quasi di veder riprodotte con le stesse parole un’identica azione partigiana, un’identica rappresaglia nazi-fascista in cento e cento località diverse. Tanto che manca spesso al lettore la possibilità di distinguere, di comprendere come quell’avvenimento, quel fatto narrato con tanta semplicità, sia tutt’altro che identico, ma sia scaturito volta per volta da una situazione ambientale diversa, sia sorto su un terreno come quello del nostro paese accidentato e differenziato non solo geograficamente”. <133
L’apparente sensazione che ogni memorialista racconti sempre la stessa battaglia, gli stessi momenti di vita partigiana può essere meglio compresa se si considera il clima resistenziale in cui si trovavano i partigiani, e anche la configurazione stessa della vita nella banda, poiché questi due elementi hanno un ruolo nella successiva rielaborazione del ricordo. La guerriglia si articolava in brevi battaglie, agguati clandestini, interventi veloci e nascosti alle ferrovie, ai ponti di collegamento tra le città, alle fabbriche controllate dai nazisti, con l’obiettivo di frenare i loro movimenti. Quando non erano previsti interventi, nelle pause morte, i partigiani vivevano in gruppo, in una dimensione di totale collettività: avveniva molto spesso che si abbandonassero al racconto di una battaglia da loro vissuta, e ascoltassero, viceversa, i racconti dei compagni. Dallo scambio reciproco e orale di esperienze, quindi, prende forma il racconto partigiano: ogni battaglia è narrata seguendo la matrice nata proprio nei momenti di pausa e dialogo tra una battaglia e l’altra. Questa articolazione viene recuperata e applicata anche alle memorie, sia per dare una minima configurazione narrativa al ricordo, sia perché è la struttura su cui il ricordo stesso si è coagulato. Italo Calvino descrive le dinamiche orali di creazione del racconto partigiano nella prefazione all’edizione del 1964 a “Il sentiero dei nidi di ragno”: “Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca d’effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all’origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio”. <134
L’atmosfera «come di bravata», gli effetti «angosciosi o truculenti» di cui parla Calvino emergeranno con maggior evidenza dall’analisi tematica dei testi ossolani.
[NOTE]
132 P. CHIODI, Banditi, cit., p. 1.
133 R. BATTAGLIA, La storiografia della Resistenza, cit., p. 83.
134 ITALO CALVINO, Il sentiero dei nidi di ragno, in ID., Romanzi e racconti, vol. I, collana “I Meridiani”, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1991, p. 1186.
Sara Lorenzetti, Ricordare e raccontare. Memorialistica e Resistenza in Val d’Ossola, Tesi di Laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, Anno accademico 2008-2009